AFRICA
la memoria ritrovata
OSAMA bin Laden deve
odiare Timbuctù. La gente ha conservato l’ospitalità ciarliera degli
avi, le guide turistiche si fanno chiamare con nomignoli che strizzano
l’occhio al Grande Satana occidentale, tipo Ali Babà e George
Washington, e le antiche biblioteche infestate dalle termiti e
impolverate dal deserto sono l’ultimo tesoro sopravvissuto
dell’Islam dell’epoca d’oro, quello medioevale, che dominava il
mondo dell’Est e dell’Ovest con l’arte, la scienza e una
tolleranza alimentata da curiosità onnivore. Forse Osama sogna di
radere al suolo l’eretica Timbuctù.
Uno squarcio sui saperi perduti dell’Africa e del genio musulmano si
è aperto ieri con un’inconsueta mostra a Jackson, Mississippi, Usa.
Da quelle parti 198 anni fa fu venduto come schiavo l’aristocratico
Ibrahima Abd ar-Rahman, che nella ormai decaduta Timbuctù aveva
studiato scampoli di filosofia e dove, dopo un quarto di secolo di
prigionia, riuscì a tornare, tra la sua gente e gli adorati libri. Un
viaggio di migliaia di chilometri, raccontato da The Legacy of Timbuktu,
Wonders of the Written Word, insieme con le mille storie degli
inestimabili manoscritti accumulati tra il XII e il XVI secolo e che ora
si stanno disfacendo per colpa del tempo e scompaiono per i furti degli
uomini, nell’ex metropoli soprannominata dai carovanieri «il luogo
della fine del mondo».
Nella mostra i visitatori troveranno un appello per contribuire al
salvataggio di oltre 700 mila libri, carichi di secoli e dal futuro
incerto, tutti rarissimi, spesso unici e caduti nell’oblio da
generazioni, in molti casi scampati ai roghi della Cordova degli imam e
agli autodafé dei re cristianissimi, raramente catalogati, per lo più
ammassati in capanne di fango, costretti a marcire, mangiati dagli
insetti, bruciati per scaldarsi, scambiati per un tozzo di pane: saggi
di matematica, chimica, fisica, astronomia, astrologia, medicina,
storia, geografia, diritto, oltre, com’è naturale, a immense
collezioni coraniche. In pratica, la crema delle conoscenze raccolte e
create dall’Islam in Africa, Europa e Asia tra il naufragio del mondo
classico e l’inizio della modernità, quando la globalizzata Timbuctù
- prima del Rinascimento fiorentino e prima dei viaggi di Cristoforo
Colombo - diventò una delle capitali mondiali della cultura con due
attività superstar, paragonabili a quelle degli Usa del XX e XXI
secolo: l’editoria e le università. Ora l’Unesco, la Andrew Mellon
Foundation e l’Educational Foundation sono tra le istituzioni che si
sono mobilitate per esplorare e catalogare, raccogliendo fondi e co
involgendo studiosi. Tra loro c’è Ismael Diadé Haidara, che nella
casa-museo della Timbuctù del 2004 (paesone in pezzi, piuttosto isolato
e con un unico cybercafé) cerca di conservare una delle biblioteche più
stupefacenti - il Fondo Mahmud Kati - sopravvissute ai tempi delle
carovane stracolme di ricchezze, quando agli stranieri si ripeteva con
spocchia il detto: «L’oro arriva dal Sud, il sale dal Nord e la
conoscenza divina proviene da qui». Anche lui ha da raccontare un
viaggio, come tutti quelli che sono passati dalla «Città dei 333 santi»,
eppure ancora più avventuroso del calvario ottocentesco di Ibrahima:
molti dei suoi 3 mila fragili manoscritti partirono da Toledo il 22
maggio del 1468, imballati nelle casse raccolte in fretta e furia
dall’avo Alib Ziyad al-Quti, un ricco visigoto convertito al verbo di
Maometto.
Costretto alla fuga dai cristiani ossessionati dalla «limpieza de
sangre», cominciò le peregrinazioni in al-Andalus e le proseguì in
Nord Africa, finché trovò rifugio nella valle del fiume Niger e diede
origine a una discendenza multilingue e multietnica. Così, mezzo
millennio dopo, oltre al possesso di migliaia di pagine miniate, Ismael
può vantare l’appartenenza a un albero genealogico da «melting pot»,
ravvivato da labirintiche radici europee, africane ed ebraiche.
Nemmeno lui può dire di conoscere davvero le magie di storie che ancora
aspettano di essere riscoperte, le cronache dei musulmani di Spagna e
Portogallo, i racconti sui rinnegati cristiani, le relazioni sui
traffici con Cordova, Damasco e Baghdad, i trattati sulla fabbricazione
delle spade e i saggi sulla preparazione dei farmaci, le raccolte di
lettere dei mercanti e le antologie dei poeti. E’ già un miracolo se
quella macchina del tempo a più voci continua a sopravvivere a un
infinito processo di degrado. Interrogarla richiede energie che
sfiancano Ismael. «E’ un lavoro urgente e indispensabile - ripete a
chi lo interroga -. Significa riportare alla luce la nostra memoria
collettiva». Lui è tra quelli che insegnano ai concittadini come
recuperare pile sfrangiate di fogli, riparare libri disfatti,
trascrivere brani, scannerizzare testi, con il desiderio quasi magico di
rievocare un mondo opposto all’universo reazionario dei wahabiti
dell’Arabia Saudita e dei salafiti algerini. Dai milioni di fogli di
Timbuctù si sprigionano le seduzioni di un Islam pacifico, tollerante,
poliglotta, con vertiginosi lampi da Mille e una Notte, intrecciate con
le imprese imperiali di un’Africa rimasta segreta a molti occidentali.
«Quando ho mostrato i miei libri al celebre professore di Harvard Henry
Louis Gates jr., è scoppiato in lacrime - ha raccontato un altro
Haidara, Abdelkader, direttore della Biblioteca Mamma Haidara -. Si
sentiva sopraffatto: “Per anni e anni ho sentito ripetere che
l’Africa non ha mai avuto una tradizione scritta. Erano bugie, bugie,
bugie!”».
Gabriele
Beccaria |