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La Stampa - 07 - 12 - 2004

AFRICA la memoria ritrovata

OSAMA bin Laden deve odiare Timbuctù. La gente ha conservato l’ospitalità ciarliera degli avi, le guide turistiche si fanno chiamare con nomignoli che strizzano l’occhio al Grande Satana occidentale, tipo Ali Babà e George Washington, e le antiche biblioteche infestate dalle termiti e impolverate dal deserto sono l’ultimo tesoro sopravvissuto dell’Islam dell’epoca d’oro, quello medioevale, che dominava il mondo dell’Est e dell’Ovest con l’arte, la scienza e una tolleranza alimentata da curiosità onnivore. Forse Osama sogna di radere al suolo l’eretica Timbuctù.
Uno squarcio sui saperi perduti dell’Africa e del genio musulmano si è aperto ieri con un’inconsueta mostra a Jackson, Mississippi, Usa. Da quelle parti 198 anni fa fu venduto come schiavo l’aristocratico Ibrahima Abd ar-Rahman, che nella ormai decaduta Timbuctù aveva studiato scampoli di filosofia e dove, dopo un quarto di secolo di prigionia, riuscì a tornare, tra la sua gente e gli adorati libri. Un viaggio di migliaia di chilometri, raccontato da The Legacy of Timbuktu, Wonders of the Written Word, insieme con le mille storie degli inestimabili manoscritti accumulati tra il XII e il XVI secolo e che ora si stanno disfacendo per colpa del tempo e scompaiono per i furti degli uomini, nell’ex metropoli soprannominata dai carovanieri «il luogo della fine del mondo».
Nella mostra i visitatori troveranno un appello per contribuire al salvataggio di oltre 700 mila libri, carichi di secoli e dal futuro incerto, tutti rarissimi, spesso unici e caduti nell’oblio da generazioni, in molti casi scampati ai roghi della Cordova degli imam e agli autodafé dei re cristianissimi, raramente catalogati, per lo più ammassati in capanne di fango, costretti a marcire, mangiati dagli insetti, bruciati per scaldarsi, scambiati per un tozzo di pane: saggi di matematica, chimica, fisica, astronomia, astrologia, medicina, storia, geografia, diritto, oltre, com’è naturale, a immense collezioni coraniche. In pratica, la crema delle conoscenze raccolte e create dall’Islam in Africa, Europa e Asia tra il naufragio del mondo classico e l’inizio della modernità, quando la globalizzata Timbuctù - prima del Rinascimento fiorentino e prima dei viaggi di Cristoforo Colombo - diventò una delle capitali mondiali della cultura con due attività superstar, paragonabili a quelle degli Usa del XX e XXI secolo: l’editoria e le università. Ora l’Unesco, la Andrew Mellon Foundation e l’Educational Foundation sono tra le istituzioni che si sono mobilitate per esplorare e catalogare, raccogliendo fondi e co
involgendo studiosi. Tra loro c’è Ismael Diadé Haidara, che nella casa-museo della Timbuctù del 2004 (paesone in pezzi, piuttosto isolato e con un unico cybercafé) cerca di conservare una delle biblioteche più stupefacenti - il Fondo Mahmud Kati - sopravvissute ai tempi delle carovane stracolme di ricchezze, quando agli stranieri si ripeteva con spocchia il detto: «L’oro arriva dal Sud, il sale dal Nord e la conoscenza divina proviene da qui». Anche lui ha da raccontare un viaggio, come tutti quelli che sono passati dalla «Città dei 333 santi», eppure ancora più avventuroso del calvario ottocentesco di Ibrahima: molti dei suoi 3 mila fragili manoscritti partirono da Toledo il 22 maggio del 1468, imballati nelle casse raccolte in fretta e furia dall’avo Alib Ziyad al-Quti, un ricco visigoto convertito al verbo di Maometto.
Costretto alla fuga dai cristiani ossessionati dalla «limpieza de sangre», cominciò le peregrinazioni in al-Andalus e le proseguì in Nord Africa, finché trovò rifugio nella valle del fiume Niger e diede origine a una discendenza multilingue e multietnica. Così, mezzo millennio dopo, oltre al possesso di migliaia di pagine miniate, Ismael può vantare l’appartenenza a un albero genealogico da «melting pot», ravvivato da labirintiche radici europee, africane ed ebraiche.
Nemmeno lui può dire di conoscere davvero le magie di storie che ancora aspettano di essere riscoperte, le cronache dei musulmani di Spagna e Portogallo, i racconti sui rinnegati cristiani, le relazioni sui traffici con Cordova, Damasco e Baghdad, i trattati sulla fabbricazione delle spade e i saggi sulla preparazione dei farmaci, le raccolte di lettere dei mercanti e le antologie dei poeti. E’ già un miracolo se quella macchina del tempo a più voci continua a sopravvivere a un infinito processo di degrado. Interrogarla richiede energie che sfiancano Ismael. «E’ un lavoro urgente e indispensabile - ripete a chi lo interroga -. Significa riportare alla luce la nostra memoria collettiva». Lui è tra quelli che insegnano ai concittadini come recuperare pile sfrangiate di fogli, riparare libri disfatti, trascrivere brani, scannerizzare testi, con il desiderio quasi magico di rievocare un mondo opposto all’universo reazionario dei wahabiti dell’Arabia Saudita e dei salafiti algerini. Dai milioni di fogli di Timbuctù si sprigionano le seduzioni di un Islam pacifico, tollerante, poliglotta, con vertiginosi lampi da Mille e una Notte, intrecciate con le imprese imperiali di un’Africa rimasta segreta a molti occidentali. «Quando ho mostrato i miei libri al celebre professore di Harvard Henry Louis Gates jr., è scoppiato in lacrime - ha raccontato un altro Haidara, Abdelkader, direttore della Biblioteca Mamma Haidara -. Si sentiva sopraffatto: “Per anni e anni ho sentito ripetere che l’Africa non ha mai avuto una tradizione scritta. Erano bugie, bugie, bugie!”». 

Gabriele Beccaria

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