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Sulla prima guerra mondiale

Duello d'artiglierie sul Podgora

La difficoltà più grave all’assalto non era l’invulnerabilità delle trincee nemiche, non era l’intensità del loro fuoco, era il reticolato, quella cosa che appariva così lieve nella distanza, così leggera e sfumata come una bruma azzurrastra. Sulle trincee si arriva, contro il fuoco si avanza, ma nessuna volontà e nessun eroismo potevano far valicare le sterminate barriere di fili di acciaio intessute sopra uno spessore di cinquanta metri. Allora, i mezzi efficaci che abbiamo trovato per la distruzione dei reticolati, non esistevano. Le grosse forbici a tenaglia, che così bene avevano servito ai Giapponesi in Manciuria, si spezzavano. Per renderle inutili, il nemico aveva adoperato dei fili grossi come cordicelle. I reticolati di Lucinico parevano inattaccabili. Si pensò al cannone.

Avvenne qualche cosa di gigantesco. Nella prima luce scialba, livida di un’alba, l’ora dei silenzi anche sul campo di battaglia, si vide un cannone uscire al galoppo dalle nostre posizioni. Si era dovuto lavorare a spianare un tratto di trincea per aprirgli il passo. Pareva che si lanciasse solo all’assalto.

Fra le due linee nemiche, in una fredda, pallida, tragica solitudine, imperterrito, il cannone galoppava alla morte. Andava lungo la strada bianca e diritta verso le trincee austriache. I suoi sei cavalli si allungavano vigorosamente nella corsa, sferzati dai conducenti saldi in sella, e il rombo metallico delle ruote si spandeva sulla quiete. L’ufficiale cavalcava a fianco del pezzo. Vi fu un minuto di sospensione, di sorpresa, di ansia.

Pareva che il nemico stesso fosse tenuto immobile da un senso di rispetto e di stupefazione. Forse non capiva, non si rendeva conto di quella sublime audacia. Ma subito dopo la fucileria austriaca cominciò, intensa, scrosciante, allarmata, da tutti i punti, di fronte e di fianco, dalla strada di Gorizia, dalla strada di Gradisca, dalle pendici del Podgora.

Il cannone si fermò a 150 metri dai reticolati. Si poté scorgere qualche cavallo già ferito che si abbatteva agitando convulsamente le zampe. Poco dopo distaccati dal pezzo, gli altri pure cadevano, tentavano di risollevarsi, ricadevano. Gli artiglieri eseguirono la manovra della messa in posizione, presero i loro posti, tuonò il primo colpo. Vi fu una pausa per regolare il tiro, poi il fuoco riprese, rapido, regolare. La trincea battuta scomparve nel fumo, ma si intravide al di là una confusione di fuga, uno sparpagliamento di gente in corsa verso i fianchi. Il nemico abbandonava la posizione.

La fucileria austriaca infuriava sempre dalle trincee laterali. Su quell’affaccendamento di pochi uomini intorno ad un cannone, su quel minuscolo gruppo vivente nell’immobilità grigia della zona scoperta, era una grandine di piombo. Qualche inserviente di tanto in tanto si accasciava colpito. Allora dalla trincea nostra partiva un artigliere a sostituirlo. E il fuoco continuava.

L’artiglieria nemica si destò. Dei proiettili cominciarono a scoppiare intorno, vicino, ad avvolgere il cannone in cumuli di fumo. Ma si udiva sempre il suo tuono impetuoso, eguale, insistente, ostinato, furibondo.

Ad un certo momento una voce ingigantita dal megafono gridò da là, dal fumo: “Granate! Portateci granate!” Un cassone con trentotto granate uscì dalle posizioni e si slanciò al galoppo, in quell’inferno. Il fuoco del pezzo non aveva avuto che una breve sospensione. Con le nuove munizioni il tiro ricominciò veloce. Il cannone affrettava la sua opera quasi presentisse la brevità del tempo che gli restava da vivere. Era circondato da un balenare di scoppi, da un fragore ininterrotto. Un albero vicinissimo, sul margine della strada, cadeva schiantato. Su quel punto convergeva il furore di batterie intere. Nell’uragano delle esplosioni si distinguevano i colpi del cannone nostro, regolari, serrati.

Poi il suo tiro a poco a poco rallentò. Si fece ineguale, ebbe delle pause. Gli ultimi colpi erano separati da lunghi, angosciosi intervalli. Ma il fuoco moribondo del pezzo, che si comprendeva manovrato da qualche ferito, continuò finché tutte le granate furono scagliate contro l’ostacolo, tutte. Allora soltanto, definitivamente, il cannone tacque. Imperversò ancora su di lui la tempesta del bombardamento. Quando anch’essa languì e il fumo si dissipò, sulla strada deserta, non c’erano più che delle cose informi.


Luigi Barzini senior, corrispondente del giornale “Il Corriere della Sera” di Milano e autore del pezzo riportato, fu nel 1915 sul fronte dell’Isonzo, condividendo la vita e gli orrori della guerra con i fanti italiani. Lasciò pagine indimenticabili che, ancor oggi, ci permettono di rivivere quei terribili momenti. Riportiamo di seguito quattro sunti di altrettanti articoli apparsi sul citato giornale.
Dal sito http://www.centroricerchearcheo.org