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Sulla prima guerra mondiale
Gli imboscati |
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La
questione degli «imboscati» agitò più di ogni altra l’animo dei
combattenti. Il termine stesso di imboscato acquistò durante la guerra il
significato nuovo che ad esso oggi attribuiamo. Fino alla grande guerra «imboscarsi»
aveva voluto dire nascondersi in un bosco per tendere insidie al
nemico. Dopo di allora servì ad esprimere un concetto molto diverso se
non addirittura opposto: sottrarsi, cioè, al servizio di guerra restando
in un posto lontano dal fronte. Imboscato, in senso ironico dunque,
divenne colui che non cercava il nemico ma stava ad attenderlo in luogo -
almeno per il momento - tranquillo. «Imboscato» disse A. Baldini, era:
«Una parola a dondolo, per cancellare gli imbarazzi: non una parola come
disertore, traditore, parole a picco, dalle quali si precipita; sferzante,
ma imbrogliata come una frusta che s’infiocca e annoda in aria e quando
colpisce non fa più male. Nessuno direbbe per ischerzo: ho tradito; son
tanti a confessare: mi sono imboscato»(84). Nel gergo dei militari gli
imboscati furono definiti anche con altri termini canzonatori: salesiani,
ciclamini, filugelli. Il concetto di imboscato fu alquanto variabile:
chi stava in una trincea particolarmente esposta considerava imboscati
coloro che occupavano una posizione meno pericolosa; coloro che
combattevano sul fronte dell’Isonzo giudicavano imboscati i fanti delle
armate schierate tra lo Stelvio e la Carnia: le chiamavano «armate della
salute», e la prima armata - per la relativa calma che regnò sul suo
fronte durante il primo anno di guerra - ricevette l’appellativo di «serenissima».
Per i fanti erano imboscati gli artiglieri, e per l’intero
esercito, infine, erano imboscati tutti gli italiani che non si trovavano
in zona di guerra. Il
fante di trincea aveva diviso l’esercito in quattro categorie: 1)
i fessi, come lui, che combattevano in prima linea; 2)
i fissi, presso i comandi (da quello di divisione in su); 3)
gli italiani, nelle retrovie; 4)
gli italianissimi, all’interno del paese Alcune
canzoni popolari sul tema degli imboscati ottennero un improvviso
successo. Ne furono composte parecchie, e una delle più famose fu quella
scritta da «Galucio ‘1 barbon», poeta torinese, che cominciava coi
versi: «
Il General Cadorna ha chiesto dei soldati Rispose
Re Vittorio, le mando gli imboscati E
passerem la visita a tutti i riformati Din
don dan, al fronte non ci van . . . ». Il
poeta Totila Baduilla, di Codogno, scrisse una Canzone dell’imboscato,
parodia di «Addio mia bella addio », dove questa volta: «L’armata
se ne va
Però non parto io
Che invece resto qua
[...] Ed ecco l’avvocato
Spazzino diventar;
Il dotto laureato
Il fieno maciullar.
Ed ecco l’ingegnere
Vuotare anche il pital,
Addetto all’infermiere
Del civico ospital!
Ed ecco professori,
E illustri cavalier,
Dottor, commendatori,
Far anche il carrettier» 88. A
Udine, presso il Comando supremo, vivevano alcuni imboscati di lusso. Il
Comando, come scrisse U. Ojetti nel luglio del ‘15, era pieno di
ufficiali che avevano ben poco da fare. Piero Pirelli, ufficiale di
segreteria addetto all’ufficio cifra, doveva giornalmente decifrare si
e no cinque telegrammi. Il giovane sottotenente Edoardo Agnelli era
vice-direttore del parco automobilistico del Comando supremo, alle
dipendenze di un capitano che nella vita civile dirigeva il garage Fiat di
Milano, ed Ojetti commentava: Agnelli «quindi è quasi il padrone». Il
figlio del senatore Gavazzi aveva grado di sergente, con mansioni di chauffeur
presso lo stesso Ojetti 69. Una canzoncina in voga nell’esercito
diceva che: «Da
Cividale a Udine Ci
stanno gl’imboscati Hanno
gambali lucidi, Capelli
profumati» Molti
accusarono il presidente Salandra di aver dato per primo il cattivo
esempio imboscando, «con ostinata perseveranza», tutti e tre i suoi
figli! 91 Il
problema fu avvertito dai soldati in forma molto più acuta di quel
che gli ironici versi delle loro canzoni potrebbero a prima vista
lasciar credere. Padre Gemelli dichiarò che il fenomeno
dell’imboscamento costituì il principale tema di conversazione nelle
trincee 92 Nell’ottobre
1915 il governo istituì un’imposta sulle esenzioni dal servizio
militare, alla quale furono assoggettati i riformati e gli esonerati,
costituita da una quota annua di sei lire per coloro che avevano redditi
inferiori alle mille lire annue, integrata da contributi supplementari
per chi avesse goduto di redditi superiori. I soldati la battezzarono «tassa
sugli imboscati» e molti credettero che bastasse pagarla per ottenere
l’esonero93 Secondo
G. Prezzolini l’odio generale delle truppe verso gli imboscati non
nasceva da un sentimento di giustizia offesa, ma dall’egoistico
desiderio di ripartire fra tutti, e in parti eguali, i rischi e i disagi
della guerra. Tutti gli artiglieri, gli automobilisti e gli operai addetti
alla produzione di guerra avrebbero dovuto combattere, insomma, per almeno
sei mesi in fanteria, e ciò «non per vincere prima, ma per contentare i
più». Si trattava, secondo Prezzolini, di un «pregiudizio democratico»,
nel quale, cioè, troppo parlava l’invidia, e poco l’interesse del
paese, poiché l’opera di disboscamento non avrebbe mai dovuto
essere compiuta in base al criterio errato di lasciare gli inabili negli
uffici e di trasferire gli abili al fronte. Non bisognava scordare che in
una grande guerra gli uffici e i servizi assumevano spesso un’importanza
tale da superare quella del fronte, di modo che- diceva sempre Prezzolini
- il criterio giusto avrebbe dovuto essere quello della utilità e
speditezza dei servizi stessi, quello della più razionale utilizzazione
delle competenze, quello di scacciare gli incapaci dai posti che
occupavano, al fronte o nel paese(94). Non
è facile far comprendere al soldato che i cittadini rimasti negli
uffici o negli stabilimenti possono essere utili alla vittoria quanto e
talvolta più di lui. La protesta dei combattenti contro le esenzioni
dal servizio militare può essere quindi considerata come un dato di
carattere permanente nelle grandi guerre moderne(95). Ma in Italia,
cinquant’anni or sono, quella protesta raggiunse un grado di
esasperazione davvero eccezionale. Abbiamo già detto che la fanteria,
nella sua grande maggioranza era composta da contadini. La quasi totalità
degli operai industriali, invece, erano esonerati per legge dal servizio
militare. Inoltre gli operai richiamati alle armi militavano molto
raramente in fanteria poiché, se conoscevano sia pure superficialmente un
motore o sapevano maneggiare un attrezzo, erano avviati a far parte di
altri corpi. Per il fante-contadino, dunque, dire operaio equivaleva
dire imboscato, nascosto in qualche corpo speciale o più spesso
rimasto in città a guadagnare paghe sempre più elevate e a sfruttare in
qualche modo la guerra. «La guerra la fanno i contadini!» gridò
alla Camera l’on. Soderini. «La pagano col loro sangue in proporzione
del 75 per cento», confermò l’on. G. Ferri(96). Soprattutto
suscitò indignazione il fatto che un gran numero di giovani validi
fossero entrati nelle industrie mobilitate per la produzione bellica. L’on.
Francesco Ciccotti disse che alcuni imprenditori traevano un lucro occulto
ed illecito facendo passare per operai parecchi giovani di buona
famiglia, e che addirittura erano stati impiantati degli opifici non
tanto per fabbricare armi e munizioni, quanto per organizzare
l’imboscamento, «industria più profittevole di ogni altra»(97). In
realtà le industrie destinate alla produzione di guerra erano state
costrette a reclutare in gran parte elementi improvvisati. Il ministro
della Guerra, gen. Zupelli, trovò facili argomenti per spiegare ai
deputati che in Italia, al principio della guerra, esisteva una
modestissima industria metallurgica, e che mentre l’Italia, in passato,
aveva sempre potuto fornire sterratori, muratori e falegnami a tutto il
mondo, non aveva mai avuto operai metallurgici altro che per le sue
pochissime fabbriche. Lo sviluppo dovuto alle esigenze di guerra si era
dunque necessariamente attuato facendo ricorso a mano d’opera non
qualificata(98). Le
argomentazioni del ministro erano fondare, ma i soldati non le
conoscevano, anche perché non esisteva una propaganda che si preoccupasse
di farle conoscere. Ma anche se questa propaganda fosse esistita i soldati
avrebbero pur sempre continuato a pensare che l’ingresso in fabbrica
di tanti giovani costituiva una grossa «ingiustizia», se non altro perché
gli operai industriali ricevevano un trattamento economico enormemente
superiore a quello dei combattenti(99). Le
maestranze degli stabilimenti addetti alla produzione di guerra ricevevano
le retribuzioni stabilite nei contratti dell’industria privata. Il gen.
Dallolio - sottosegretario e poi ministro delle Armi e Munizioni - spiegò
che era impossibile parificare le retribuzioni degli operai militarizzati
a quelle dei combattenti, poiché sarebbe stato necessario assicurare
anche ai primi l’alloggio e il vitto. Né, in ogni caso, egli avrebbe
mai potuto ordinare di retribuire col solo stipendio militare quei
direttori di officina o quei capitecnici che avevano conquistato una
cospicua posizione nel mondo industriale(100). Un operaio metallurgico, a
Torino, retribuito a cottimo, riceveva nel 1915 una paga media giornaliera
di lire 7,60, ed il fante era facilmente indotto a fare tristi confronti
tra la condizione sua e quella degli imboscati. La paga giornaliera del
fante era infatti di 50 centesimi compreso il soprassoldo di guerra, di
cui al decreto 23 maggio 1915, n. 677. Tale decreto aveva stabilito le
indennità speciali «per le truppe in campagna», commisurandole in
cent. 40 per i caporali, gli appuntati, i soldati, gli allievi carabinieri
ed i carabinieri aggiunti; in cent. 60 per i carabinieri; in lire 1 per i
sergenti, 2 per i sergenti maggiori, 2,50 per i marescialli di alloggio.
Per gli ufficiali, invece, le indennità speciali di guerra erano le
seguenti (in lire del tempo):
Ugo
Ojetti, mentre era al Comando supremo, si interessò di sapere quanto
guadagnavano i suoi superiori ed annotò nel diario: «Cadorna ha, credo,
4000 di stipendio: 200 ne tiene, il resto manda a casa»(102). I fanti si
interessarono delle retribuzioni percepite dai commilitoni addetti alle
altre armi ed ai servizi, in favore dei quali il decreto 23 maggio 1915
aveva stabilito indennità varie oltre al soprassoldo di 40 centesimi: «Il
maniscalco — dicevano i fanti — non combatte, ma avrà l’indennità
di ferratura, il motorista avrà l’indennità di motore, il telefonista
addetto agli uffici avrà l’indennità di telefono, l’automobilista
l’indennità di macchina; al combattente è riserbato un trattamento
unico ed inesorabile: cinquanta centesimi ed il pericolo della
vita, giorno per giorno»(103). I
congiunti dei richiamati alle armi, riconosciuti bisognosi da speciali
commissioni comunali, ricevettero un sussidio giornaliero nella misura
di lire 0,60 per la moglie, e 0,30 per ciascun figlio di età inferiore
ai 12 anni. I figli dei soldati che avevano superato tale età potevano
essere ammessi al lavoro anche senza il prescritto grado di istruzione, in
deroga alle norme di legge sulla protezione dei lavoro del fanciullo.
Tanto era bastato per escluderli senz’altro dal sussidio. Si potrà
obiettare che nelle campagne il lavoro dei fanciulli era un fenomeno
diffuso; che inoltre il giudizio delle commissioni incaricate di
assegnare i sussidi si ispirava generalmente a criteri molto larghi, così
che quasi tutte le famiglie dei contadini richiamati potevano
approfittarne; ed infine che i lavoratori agricoli erano abituati a
percepire retribuzioni assai basse, tali da far si che i sussidi
governativi costituissero un contributo apprezzabile per l’economia
delle loro famiglie. È stato infatti calcolato che nel 1913-14 la
retribuzione media annua per unità lavoratrice giungesse appena alle 440
lire nell’Italia centro-settentrionale
e alle 360 in quella meridionale. Tuttavia - come scrisse il Serpieri - il
concorso dato dai sussidi statali per reintegrare i bilanci contadini,
pur essendo rilevante, non bastò nella maggioranza dei casi a ristabilire
l’antico equilibrio tra redditi e consumi. A maggior ragione, dunque,
esso non bastò per placare il malumore dei fanti-contadini contro i ben
più privilegiati «operai-imboscati»(104). Si pensi che nel 1917
i sussidi giornalieri della moglie del soldato furono aumentati di 15
centesimi e quelli del figlio di 10 centesimi, mentre il costo della vita
era cresciuto del 43 per cento. In
forma più o meno consapevole i fanti-contadini avvertivano che, mentre
toccava ad essi di soffrire e combattere, tutto il mondo dell’industria
progrediva grazie alla guerra. Nell’agosto 1915 l’ing. Nicola Romeo
riferiva ad Ojetti - uno dei suoi maggiori azionisti - che la loro
fabbrica, la quale oltre alle automobili produceva anche proiettili e
perforatrici, stava andando «a gonfie vele»(106). Bastava leggere
i giornali per apprendere che le industrie concludevano ottimi affari: «La
Stampa» di Torino, in un articolo del 13 novembre 1915
significativamente intitolato Lo Stato indifeso?, riprovava
gli illeciti arricchimenti dei fornitori dello Stato e nel numero del 29
novembre chiedeva più rigorose tassazioni denunciando gli enormi profitti
conseguiti dalla Fiat nel 1915, calcolati intorno al 70 % del capitale.
Alcuni industriali imputati di frode nelle forniture militari erano stati
arrestati e «La Stampa» ne dava notizia stigmatizzando il
fatto che i fornitori trovassero il modo di arricchirsi mentre la guerra
rendeva povere le nazioni: a quei profittatori non importava che il
soldato restasse scalzo sulle rocce o con l’abito lacero e insufficiente
a ripararlo dal freddo. Essi avevano venduto materiale scadente a prezzi
eccezionali, accrescendo mediante la frode il loro già lauto guadagno: «Alla
gogna questi cattivi industriali, questi pessimi italiani»(107). 84
A. BALDINI, Definizioni di gergo, in G. PREZZOLINI, Tutta la
guerra, Antologia del popolo italiano, Firenze 1918, p. 275. L’on.
E. Ciccotti definì imboscati «tutti coloro che, dovendo prestare un
servizio militare, fanno in modo da renderlo più apparente che reale, più
formale che effettivo », cfr. Atti Parlamentari, Camera, Discussioni,
seduta del 21 marzo 1916, p. 9700. Sull’origine francese del termine
«imboscato»cfr. A. NICEFORO, A proposito del libro di Albert Dauzat,
«L’argot de la guerre », in $$ Rivista italiana di sociologia »,
luglio-dicembre 1918, pp. 371-74. In generale sul « gergo %% dei
soldati italiani cfr. G. MELE, Gergo di guerra, Roma 1941 (con
bibliografia); in vari numeri dell’« Astico », il giornale di
trincea diretto da P. Jahier, apparve un dizionarietto di gergo (cfr. A.
LANCELLOTTI, Giornalismo eroico, Roma 1924, pp. 88-89); ma utili
informazioni su numerosi vocaboli possono essere ricavate dalle lettere e
dai diari dei combattenti. Cfr. infatti A. OMoDEo, Lettere 1910-1946, Torino
1963, pp. 155, 179 e 247; M. MUCCINI, Ed ora, andiamo!, Milano
1939, p. 166, nonché B. MUSSOLINI, Il mio diario di guerra cit.,
pp. 35, 71, 74, 88 e 103. da Piero Melograni, Storia politica della grande guerra, ed Universale Laterza, Bari 1977, vol primo |