Uno
dei tramiti fra il mondo dei militari e il mondo dei civili è la stampa.
Non ci si attenda dai giornali del tempo di guerra che informino
correttamente il proprio pubblico dell'andamento delle operazioni
militari. Possono, beninteso, sopravvivere forme più contenute o meno
becere di autocensura e censura sulle notizie: a seconda della tradizione,
della professionalità e del tipo di pubblico della singola testata e del
singolo giornalista; e anche del grado di compattezza interna e di
sicurezza di sé di ciascuna collettività nazionale, che può essere più
liberale o autoritaria delle altre.
Comunque, la ragion d'essere dei giornali in tempo di guerra non risulta
preminentemente quella di fornire notizie, quanto piuttosto di velarle,
negarle o fabbricarne ad arte.
Preminente, in effetti, è vincere, e dunque bisogna porsi innanzitutto
l'obiettivo di non favorire inavvertitamente il nemico, di non avallare
sentimenti "disfattisti" nel proprio campo, anzi di corroborarne
le energie, il senso del buon diritto, la convinzione ottimistica di avere
tutte le ragioni e di essere forti, e destinati a prevalere.
Tutto questo porta abbastanza spontaneamente quasi tutti i giornali - e
non necessariamente e non soltanto perché costretti dall'intervento degli
uffici di censura predisposti dalle autorità militari e potitiche - ad
agire come organi politicamente responsabili degli effetti che possono
produrre e quindi a funzionare come articolazioni del sistema di guerra.
La verità la dirà semmai la storia, a guerra finita. Ora, la politica,
il "sacro egoismo" della propria patria messa a rischio, debbono
prevalere: sono, in un certo senso, la "verità" dell'organismo
che si difende e che, nel farlo, tende a non tollerare
contraddizioni".
"Quanto agli organi delle formazioni politiche contrarie alla guerra,
nella quasi generalità dai paesi i partiti stessi d'opposizione si sono
disfatti o appiattiti sulle posizioni dei governi, rimandando qualunque
serio tentativo di differenziazione a dopo la fine delle ostilità
militari.
Questo non è il caso dell'Italia, ove il partito socialista continua a
non riconoscersi nei governi di riconcialiazione nazionale e si attesta su
una parola d'ordine"centrista" che tenta di mediare fra
riformisti e massimalisti: "né aderire né sabotare". Costretto
dai rapporti di forza e dalla pressione delle autorità politiche centrali
e periferiche a chiudere alle soglie della guerra la pubblicazione dei
suoi periodici di provincia, il partito riesce ancora a far uscire
l'"Avanti!", il quotidiano ufficiale che ha preso il suo nome
dall'illustre confratello tedesco, il "Vorwaerts". E' una lotta
giornaliera contro la censura, che imbianca sistematicamente le pagine di
questo residuo focolaio di dissociazione, costringendo
l'"Avanti!" ad annullare all'ultimo momento dei pezzi che
risultano poco graditi alle autorità, la cui forzata assenza parla
comunque, in altra maniera, ai lettori e militanti attraverso gli spazi
bianchi che si aprono nelle pagine del giornale.
Il "capolavoro" dell' "Avanti!" in questo suo
tentativo di tener vivo un residuo di libertà di stampa e di
contradditorio politico, è quando il 19 settembre 1915 riesce a beffare
la censura rendendo pubblico il manifesto pacifista sottoscritto a
Zimmerwald dai delegati socialisti di vari paesi in guerra e indirizzato
ai "Proletari d'Europa".
(...) i firmatari del manifesto internazionalista sono gli ultimi - e
contamporaneamente i primi - interpreti di un antagonismo di massa. Dopo
la rotta di Caporetto, nell'ottobre-novembre 1917, l' "Avanti!"
subirà una ulteriore stretta di freni e gli verrà vietata l'uscita in
trenta (un terzo) delle province italiane.
A quel punto, del resto, non se la passano tanto meglio i giornalisti dei
fogli allineati, diversi dei quali, per questioni di forza maggiore o per
scelta più o meno obbligata, decidono anzi di non uscire più, finché la
situazione non sia chiarita.
In Italia questo silenzio stampa - più o meno spontaneo o per
disperazione - è un po' l'ironica realizzazione degli ideali degli alti
comandi, i quali, nel maggio del 1915, avevano opposto una sorda
resistenza verso la figura stessa del corrispondente di guerra: cedendo
solo dopo che l'Associazione nazionale della stampa, presieduta da un ex
parlamentare repubblicano, interventista accanito, aveva fornito a Cadorna
tutte le possibili garanzie sul fatto che i giornalisti selezionati non
avevano nessuna intenzione di recarsi al fronte per esercitare un
qualsivoglia servizio critico, e tanto meno di ispirarsi alle pericolose
pretese di una stampa vissuta come "quarto potere".
M.
ISNENGHI, La Grande Guerra, Firenze, Giunti - Casterman, 1997
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