1. Cause e
svolgimento della battaglia di Caporetto,
Nel 1917 e nell’immediato dopoguerra gli interventisti e i neutralisti,
i «cadorniani» e gli «anticadorniani», con motivazioni assai spesso
contrastanti, si trovarono quasi sempre d’accordo nel dire che la causa
principale della sconfitta di Caporetto doveva essere ricercata in un
cedimento morale dei combattenti. In seguito, esaminando con maggiore
serenità e ricchezza di documentazione gli avvenimenti del ‘17, la
storiografia ha rovesciato tale interpretazione affermando che la
sconfitta fu determinata da cause essenzialmente militari(1).
Un’interpretazione, questa, secondo noi assai più corrispondente alla
realtà e che nuovi documenti e nuove riflessioni continuano a suffragare.
Prima di esaminare le cause militari di Caporetto vorremmo inoltre
sottolineare che, all’immediata vigilia di quei drammatici avvenimenti,
lo stato d’animo delle truppe dava ai comandi preoccupazioni assai
minori che non durante l’estate, alla vigilia della Bainsizza. Alcuni
dati, molto significativi a questo proposito, possono essere tratti dalle
memorie dello stesso generale Cadorna. E anzitutto che, dopo l’agosto,
non si erano più verificati quei gravi atti di indisciplina collettiva
per i quali il comandante supremo aveva ritenuto opportuno scrivere al
presidente deI Consiglio: alla vigilia della battaglia Cadorna conservava
soltanto «l’amaro ricordo» dei gravi fatti accaduti tra il maggio e
l’agosto(2). Il generale precisò anzi, che le «penose impressioni»,
dalle quali era nata la sua protesta contro la politica interna del
governo, «si erano in parte attenuate dopo di aver constatato il morale
piuttosto elevato che aveva quasi ovunque animato le truppe durante
l’offensiva dell’agosto sulla Bainsizza e sul Carso»(3).
Il 19 ottobre, cinque giorni prima di Caporetto, il Comando supremo volle
direttamente accertarsi dello spirito delle truppe presso i corpi
d’armata contro i quali fu poi sferrato l’attacco nemico. I colonnelli
Calcagno e Testa furono inviati presso i comandi del XXVII e IV corpo
d’armata per assumere informazioni. Nel rapporto del col. Calcagno si
lesse che il gen. Badoglio, comandante del XXVII corpo: «Era soddisfatto
dello stato morale delle truppe. Nei soldati l’idea che avrebbero avuto
di fronte i germanici, pareva avesse rianimato il loro spirito combattivo»(4).
Nel rapporto del col. Testa si lesse che anche il gen. Cavaciocchi,
comandante del IV corpo, aveva fiducia nei suoi soldati:
Condizioni morali: in linea di massima soddisfacenti nessun grave
avvenimento di carattere disciplinare; pochissime le diserzioni al nemico.
Diserzioni all’interno in misura diversa, a seconda dei reparti e deI
reclutamento di essi; numero complessivo non allarmante, né sintomatico;
molti casi ritenuti di diserzione, si venivano giustificando più tardi
(5).
Non ancora completamente soddisfatto di queste informazioni, Cadorna si
recò personalmente il 22 e il 23 ottobre presso i comandi dei due sopra
citati corpi d’armata. Tanto il gen. Cavaciocchi, quanto il gen.
Badoglio continuarono a fornire informazioni rassicuranti(6).
Le truppe, in generale, erano stanche e provate, per effetto della lunga
permanenza nelle trincee e delle sanguinose battaglie fino ad allora
combattute, ed erano angosciate all’idea di un nuovo anno di guerra.
Amendola recava nel paese notizie poco liete sullo spirito dei
combattenti, e Soffici visitando i reparti della seconda armata ne trovava
di avviliti e mal ridotti(7). Ma i comandi, nel riferire sulle condizioni
dei soldati, davano per scontati gli elementi negativi che erano ormai
noti a tutti, dal comandante supremo all’ultimo degli ufficiali. Ognuno
sapeva che le truppe erano stanche e provate, che i turni di trincea non
si svolgevano regolarmente, che esistevano cento diverse ragioni di
malcontento. Ma tutti sapevano che anche i soldati austriaci erano
stanchi, affamati e scontenti come e probabilmente più degli italiani.
Allorché, in quei giorni di ottobre, i comandi parlavano di «morale
soddisfacente», di «fiducia nel comportamento delle truppe», si
riferivano a quelle che erano le condizioni generali del 1917. Sembrava un
sintomo già molto confortante che l’indisciplina delle truppe non
creasse seri imbarazzi e che nel settembre i reati fossero diminuiti
rispetto ai mesi precedenti (8). Lo stesso gen. Cavaciocchi, in una
memoria scritta in epoca successiva alla battaglia, confermò che le buone
informazioni da lui fornite il 19 ottobre erano state date «secondo
coscienza», poiché egli stesso le aveva dedotte «dallo scarso numero
delle gravi mancanze disciplinari, dalla regolarità del servizio, dalle
sentenze del tribunale e specialmente dal fatto che il numero mensile
delle diserzioni in tutto il corpo d’armata, la cui forza a metà di
ottobre ascendeva ad oltre 82.000 uomini, non superava quello di un solo
reggimento del Carso»(9).
Nell’ottobre dei ‘17, infine, la relativa tranquillità delle truppe
trovò una giustificazione (e forse la sua giustificazione principale) in
un fatto che i comandi furono poi restii a ricordare: tutto l’esercito,
da Cadorna all’ultimo dei fanti, era convinto infatti che sul fronte non
sarebbe accaduto più nulla di importante fino alla primavera dei 1918.
Alla fine di ogni autunno — lo abbiamo già osservato — la guerra in
certo qual modo si fermava, per poi ricominciare nella primavera con lo
sciogliersi delle nevi. Nell’ottobre 1917 tutti credevano che la
consueta pausa stagionale fosse già iniziata. Quindici giorni prima di
Caporetto, Omodeo scriveva alla moglie parole che bene esprimevano lo
stato d’animo di migliaia di altri combattenti:
La guerra comincia a risentire il languore invernale, prematuramente
quest’anno. Ma, d’altro canto, un’azione isolata di noi italiani non
conviene. Del resto, se siamo stanchi noi, gli austriaci lo son di più
(10).
Il sintomo più preciso della stasi delle operazioni era dato dalla
partenza dei primi contingenti di truppe per la licenza invernale. Il 20
ottobre circa 120.000 militari dell’esercito mobilitato si trovavano in
licenza e i comandi avevano voluto compiere anche un atto riparatore
facendo partire per primi quei siciliani ai quali, in passato, era stato
negato di rivedere la famiglia per ragioni disciplinari. Le brigate Enna e
Caltanissetta deI IV corpo d’armata, che presidiava la zona deI fronte
attraverso la quale passarono gli austro-tedeschi, risultavano «depauperate
numericamente in misura anormale», perché il Comando supremo aveva
appunto ordinato di intensificare le partenze dei militari siciliani (11).
Ma il giorno della battaglia anche il 125° fanteria, appartenente a
quella 19° divisione deI XXVII che fu anch’essa travolta nelle prime
ore, aveva circa 500 uomini in licenza (12).
Allorché, improvvisa, giunse l’offensiva nemica, gli italiani furono
sorpresi in quella fase di «smobilitazione» degli «animi» che
contrassegnava l’inizio di ogni inverno.
(..)
Caporetto: le ragioni della disfatta
La nuova tattica militare
Gli austro-tedeschi sorpresero e poi travolsero gli italiani perché nella
preparazione e nella conduzione della battaglia di Caporetto applicarono
nuovi procedimenti tattici. Avevano già cominciato ad impiegarli con
successo due mesi prima, a Riga, contro i russi. Li perfezionarono contro
gli italiani, nell’ottobre 1917. Fino ad allora, infatti, tutti gli
eserciti avevano tentato di fiaccare la resistenza nemica con battaglie di
«logoramento» condotte normalmente su fronti molto ampi; a Caporetto gli
austro-tedeschi fondarono la loro tattica sulla «sorpresa» e sull’«infiltrazione»,
concentrando il loro sforzo iniziale su brevissimi tratti di fronte.
I procedimenti della nuova tattica possono essere così sommariamente
indicati:
a) Le truppe d’assalto vennero trasportate segretamente nelle zone loro
assegnate, con movimenti compiuti soltanto di notte, oscurando gli
alloggiamenti, occultando ogni indizio alle investigazioni aeree. Fra
quelle truppe furono compresi anche i reparti di montagna del Wurttemberg,
comandati dall’allora ventiseienne Erwin Rommel. In cinque giorni, dal
18 al 22 ottobre, Rommel ed i suoi uomini percorsero quasi sempre a piedi
e di notte 63 miglia. Ogni tappa fu raggiunta prima dell’alba, «momento
in cui tutti gli uomini e gli animali dovevano nascondersi nelle
sistemazioni più scomode e inadeguate immaginabili»(46). Uomini e mezzi
strisciarono di notte, «a poco a poco, in gruppi minuscoli, per così
dire a gocce», verso le prime posizioni: di giorno il paesaggio presentò
il suo solito aspetto pacifico(47).
b) I primi militari tedeschi cominciarono a giungere nella zona della
battaglia un mese prima che questa avesse inizio. Quei gruppi che
dovettero compiere esplorazioni verso le prime linee indossarono la divisa
austriaca. Reparti in divisa germanica furono avviati nel Trentino e nella
zona costiera appunto per trarre in inganno i servizi d’informazione
italiani. Fino all’ultimo istante Cadorna si ingannò quanto al luogo
nel quale il nemico avrebbe sferrato l’attacco(48).
c) Le artiglierie austro-tedesche eseguirono prima della battaglia pochi
tiri di «aggiustamento», o di «inquadramento» distribuiti in più
giornate; o addirittura colpirono gli obbiettivi assegnati «senza
preventivi aggiustamenti, mediante l’adozione di dati calcolati e
corretti in base alle condizioni del momento (temperatura, pressione,
vento, vivacità delle polveri, stato di logoramento delle bocche di
fuoco)», applicando procedure introdotte a titolo sperimentale, qualche
settimana prima, a Riga(49). In tal modo suscitarono incertezza fra gli
italiani circa le loro effettive intenzioni, e Badoglio anzi — come
abbiamo già visto — poté rassicurare Cadorna la mattina del 23,
facendogli notare che non c’era stata ancora una preparazione di
artiglieria tale da giustificare il timore di un attacco.
d) La preparazione di artiglieria fu breve e intensissima su una profondità
di appena quattro-cinque chilometri con largo uso di proiettili a gas.
Nella zona di Tolmino i tedeschi concentrarono un pezzo di artiglieria
ogni 4,4 metri lineari, densità probabilmente mai raggiunta in nessuna
precedente battaglia della grande guerra(50). Il fuoco durò soltanto
cinque ore. Ebbe inizio alle 2 deI mattino del 24 ottobre, calò di
intensità fra le 4,30 e le 5,30 fin quasi a cessare; riprese poi
violentissimo dalle 6,30 alle 8,30(51). Mancò insomma la consueta
preparazione di artiglieria, prolungata a volte per molti giorni, che dava
tempo di adottare contromisure.
e) Fin dall'inizio del bombardamento le artiglierie austrotedesche
diressero il loro intensissimo fuoco non soltanto contro le prime
posizioni, ma anche contro le batterie italiane(52). Anche questo era un
procedimento inconsueto sul fronte dell’Isonzo, dato che fino ad allora
le artiglierie sia austriache, sia italiane avevano sempre avuto come
principale bersaglio le fanterie. La sera del 23 ottobre un colonnello
francese avvertì Angelo Gatti, al Comando supremo, che se sull’Isonzo
ci fossero stati davvero i tedeschi, l’artiglieria italiana si sarebbe
trovata per la prima volta in grave crisi: i tedeschi tiravano infatti «migliaia
di colpi sulle batterie, per distruggerle», così come i francesi avevano
avuto modo di imparare a loro spese. Fu soltanto nel pomeriggio del 24 che
Gatti riferì questo avvertimento al gen. Cadorna e al col. Gabba: disse
loro che bisognava informare di questa novità le batterie. «Cadorna e
Gabba — scrisse Gatti — mi ascoltarono, poi dissero tutti e due: sì,
è bene fare una circolare in questo senso». Non sapevano ancora che da
molte ore l’artiglieria italiana era stata già in gran parte
perduta(53).
f)Gli austro-tedeschi impiegarono contro le batterie e le trincee italiane
proiettili a gas, contro i quali non esisteva una efficace difesa. A
Plezzo, dove Cadorna pensava che sarebbe stata follia per il nemico
avventurarsi, un battaglione tedesco mise in funzione un migliaio di
bombole contenenti fosgene. L’operazione non durò che trenta secondi,
ma seicento italiani morirono in silenzio, con l’armamento intatto, il
fucile al loro fianco; due telefonisti furono trovati al loro posto di
lavoro con un blocco di fogli davanti, la matita in mano(54). Il
bombardamento, come già abbiamo detto, ebbe una pausa, dalle 4,30 alle
6,30, ed essa aveva lo scopo di annientare con l’azione dei gas le
riserve italiane che si fossero portate sulle prime linee: «E'
l’inferno dopo una vertiginosa discesa nell’abisso — scrisse il
tenente Weber —, è la morte sicura, per opera del gas, di coloro che
finora erano riusciti a sfuggirla. la fine per quelli che stanno avanzando
per turare le falle aperte nelle linee. La nebbia in mezzo alla quale essi
corrono divora i loro polmoni. I disgraziati crollano a terra o sono
costretti a fuggire». (55).
g) Gli austro-tedeschi, come già abbiamo accennato, non dispersero il
loro sforzo lungo un vasto tratto di fronte, ma lo concentrarono su due
brevissimi spazi di fondovalle a Plezzo e a Tolmino, distanti fra loro
circa 25 chilometri. Plezzo e Tolmino non furono scelti a caso, ma in base
a molto attente considerazioni di carattere strategico, tattico,
logistico, e soprattutto perché costituivano due punti deboli dello
schieramento italiano. Nell’ottobre 1917 i fondivalle erano scarsamente
guarniti non solamente dalla parte italiana del fronte, ma anche da quella
austriaca, perché la regola studiata sui banchi di tutte le accademie
militari insegnava che fondamentale era il possesso delle cime: il
possesso dei fondivalle sembrava una conseguenza automatica del dominio
delle alture sovrastanti. A Caporetto questa regola fu sovvertita(56).
Cadorna, Vittorio Emanuele III e vari comandanti italiani nei primi giorni
della battaglia non capirono affatto la novità della tattica avversaria:
si interessarono soprattutto a ciò che stava accadendo sulle cime(57).
Rino Alessi il 25 ottobre, scrivendo da Udine e ripetendo i giudizi colà
ricorrenti, dichiarò che il nemico «aveva commesso l’errore di non
curarsi delle montagne»(58). Soltanto alla sera del 26 ottobre il gen.
Porro fece osservare a Cadorna che probabilmente il nemico avanzava perché
il fondo della valle non era difeso(59).
h) Il fuoco delle artiglierie ebbe lo scopo di aprire il varco alle
fanterie: anche a queste ultime la nuova tattica assegno compiti nuovi. In
quegli anni, difatti, le fanterie di tutti gli eserciti solevano avanzare
verso il nemico a ondate successive e su tratti di fronte relativamente
ampi: se occupavano le prime linee avversarie, attendevano poi che alle
loro spalle avanzassero le artiglierie e ai fianchi le altre fanterie.
Erano lente nei movimenti e miravano a logorare l’avversario più che a
sorprenderlo. Nell’ottobre 1917 gli austrotedeschi passarono viceversa
attraverso le due brecce di Plezzo e di Tolmino senza pretendere, in un
primo momento, di far cadere ai loro fianchi lunghi tratti della linea
nemica, e senza attendere l’avanzata delle artiglierie.
i)I reparti di assalto austro-tedeschi erano stati addestrati ed armati
con cura al fine di poter applicare la tattica dell’«infiltrazione».
Mentre le fanterie italiane erano abituate soltanto alla guerra di
trincea, armate e inquadrate solo per condurre attacchi frontali,
condizionate da una gerarchia di comandi che le aveva private di ogni
attitudine alla autonomia ed alla rapidità delle decisioni, viceversa i
reparti scelti che passarono per primi attraverso i varchi di Plezzo e di
Tolmino erano addestrati alla manovra, autonomi nell’armamento, e
guidati da capi, anche nei gradi inferiori, istruiti per agire di propria
iniziativa, essendo previsto che, dopo l’inizio della battaglia, per
parecchio tempo essi non avrebbero potuto più ricevere ordini.
l)Infine le riserve furono avviate non contro i punti nei quali gli
italiani opponevano maggiore resistenza - come si sarebbe dovuto fare
secondo le vecchie regole - ma proprio dove l’attacco progrediva e
poteva essere agevolato. Colonne austro-tedesche irruppero pertanto
attraverso le due brecce aperte, dilagarono oltre le prime linee, recisero
le comunicazioni, colsero alle spalle i reparti italiani(60).
Una delle testimonianze più persuasive del successo riportato dalla
tattica di infiltrazione austro-tedesca fu recata da un ufficiale
italiano, e precisamente dal comandante del 155° fanteria. Dall’alto
deI Merzly quel comandante scorse alle sue spalle, sull’altra sponda
dell’Isonzo, una colonna di parecchie centinaia di uomini che marciavano
ordinatamente per quattro, senza misure di sicurezza: nessun colpo di
artiglieria era diretto contro la colonna, nessun indizio di combattimento
sul fondo valle. Al comandante del reggimento sembrò non potesse
trattarsi di nemici, a quell’ora, in quel luogo, in quelle pacifiche
condizioni. Scrutando con i binocoli attraverso la nebbia gli parve poi di
intravvedere nella colonna alcuni militari con la mantellina, indumento
non usato dagli austriaci, e concluse che doveva trattarsi di una colonna
di prigionieri nemici, appena catturati, avviati verso le retrovie. Si
ingannò. Erano le 8 del mattino del 24 ottobre, ma già grosse colonne
nemiche potevano compiere indisturbate la loro manovra aggirante(61). Alle
11 il comando del reggimento diramava l’ordine di ripiegare. Si
accendevano aspri combattimenti. Una compagnia, persi gli ufficiali, si
raccoglieva attorno a un aspirante sottotenente di 19 anni, Raffaele
Vergombello, giunto al fronte da un giorno soltanto, e difendeva la
posizione fino all’esaurimento delle munizioni e alla morte del giovane
ufficiale(62). Così cadeva il Merzly, la montagna mai interamente
conquistata, che fin dal maggio 1915 aveva dato luogo a vicende tra le più
tragiche, assurde ed emblematiche di tutta la guerra.
(..)
Gli italiani, che avevano avuto il
privilegio di combattere la loro guerra su un fronte schierato quasi
ovunque al di là dei loro vecchi confini, furono costretti con la
battaglia di Caporetto ad abbandonare al nemico una vasta e florida
regione. Questa sola considerazione sarebbe stata sufficiente per
determinare una grave crisi nell’opinione pubblica, ma nell’ottobre
1917 numerosi altri fattori resero più profonda quella crisi:
l’inesplicabilità della disfatta, la disintegrazione di un’armata, la
sensazione che non fosse più possibile arrivare ad una pace onorevole.
L’inesplicabilità dei rapido cedimento sull’Isonzo fece credere a
molti che gli austro-tedeschi fossero riusciti a spezzare le difese solo
perché l’esercito italiano si era rifiutato di combattere, e i comandi
furono i primi ad avallare questa errata versione degli avvenimenti. La
sorpresa tattica dei nemico, infatti, fu tale da disorientare le autorità
militari sia prima, sia dopo l’inizio della battaglia. La confusione
determinatasi immediatamente nelle prime linee, lo scardinamento del
sistema di comunicazione e l’abitudine a ragionare secondo i vecchi
schemi impedirono a Cadorna e agli altri generali di sapere e capire che
cosa stesse accadendo.
Fin dalle prime ore del mattino del 24 ottobre gli austrotedeschi avevano
sfondato le linee, ma alle ore 10 il gen. Capello inviava a Cadorna «un
riassunto degli avvenimenti per nulla allarmante», e alle 10,35 Cadorna
riteneva opportuno ordinargli di rinunciare ad «almeno» 200 pezzi di
artiglieria per trasferirli alla III armata! e tutto ciò dopo aver
raccomandato — un’ora prima — «la più oculata parsimonia» in
fatto di munizioni(123). Alle 12,15 Cadorna telegrafava al duca d’Aosta
insistendo ulteriormente sulla sua idea di un attacco nemico più contro
la III armata che contro la II.
Alle ore 13, nel consueto bollettino, Cadorna fece scrivere che durante la
notte «un violento bombardamento con largo impiego di proiettili a gas»
aveva segnato «l’inizio dell’atteso attacco», ma che verso l’alba,
dato il cattivo tempo, il fuoco nemico era scemato. Gli italiani, insomma,
non dovevano preoccuparsi: «Il nemico ci trova saldi e ben preparati»(125).
Tra le 18 e le 19 Gatti incontrò Cadorna in un salone del Comando
supremo, e lo trovò «tranquillo, sorridente», ignaro di quanto stava
accadendo ed ancora incerto sul fatto che il nemico intendesse attaccare
«sul serio» a Tolmino, o limitarsi ad un semplice «bluff»(126). Tutto
rinfrancato il col. Gatti andò a cena, trascorse un’oretta al
cinematografo e dopo lo spettacolo, «per pura curiosità», volle dare
un’occhiata alla sede del Comando. Scoprì che il vestibolo era
illuminato e pieno di ufficiali: le prime tragiche notizie erano
finalmente giunte(127).
Cadorna non capì le ragioni del successo nemico e
si ostinò a dire molto semplicisticamente che «quando vi sono dei
reticolati, [...] non si passa»(128). Il «cedimento morale» dei
combattenti gli parve l’unica spiegazione possibile, e infatti la
mattina del 25 ottobre, incontrando Gatti, gli disse molto chiaramente:
«L’esercito, inquinato dalla propaganda
dall’interno, contro cui io ho sempre invano lottato, è sfasciato
nell’anima. Tutto, pur di non combattere. Questo è il terribile di
questa situazione» (129).
Ritornò insomma alle tesi già sostenute in giugno ed in agosto nelle
lettere a Boselli, ed affermò ancora una volta che la colpa di tutto
doveva essere attribuita alla propaganda disfattista: «Esercito non cade
vinto da nemico esterno, ma da quello interno» telegrafò il 27 ottobre
al presidente del Consiglio(135) e l’indomani emanò il famoso
comunicato nel quale si lesse: “La mancata resistenza di reparti della
II armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente
arresisi al nemico, ha permesso alle forze austro-germaniche di rompere la
nostra ala sinistra sulla fronte Giulia. Gli sforzi valorosi delle altre
truppe non sono riusciti ad impedire all’avversario di penetrare sul
sacro suolo della Patria(131 vedi nota, è molto importante perché
riporta il testo di un volantinaggio austriaco).
Del resto […] gli stessi sbandati «razionalizzarono» la loro fuga
pretendendo di aver agito «deliberatamente» per punire «gli imboscati»
o per altre analoghe ragioni. Essendo informato di quelle voci, avendo
saputo che il nemico era riuscito inizialmente a sfondare solo su due
brevi tratti del fronte, ricordando infine che a Carzano, due mesi prima,
c’era stato un reparto cecoslovacco disposto a tradire, Cadorna concluse
che questa volta, a Plezzo ed a Tolmino, erano stati alcuni reparti
italiani a mettersi d’accordo col nemico(132) Il generale continuò ad
insistere sull’ipotesi del «tradimento» ancora in febbraio, allorché
dichiarò: «Io non ero presente [a Plezzo e Tolmino] e non posso dire
come le cose sono andate. Me le immagino così. Non ci può essere stato
un tradimento esteso; ma ci deve essere stato qualche tradimento parziale,
che ha aperto dei varchi»(133).
In mancanza di spiegazioni più convincenti la tesi del tradimento fu
accolta da moltissimi. Bissolati ritenne che il tradimento dovesse a
ragione essere sospettato nella zona del Vodil(134). A metà novembre,
alla Camera, il ministro della Guerra gen. Alfieri affermò in un suo
discorso che le voci di tradimento non erano fondate, ma il presidente
Orlando, in un gruppo di amici, continuò ad ammettere che per spiegare
Caporetto nulla poteva essere escluso, neanche il tradimento(135).
Fra gli stessi soldati in ritirata, impressionati dagli episodi
apparentemente contraddittori ai quali avevano assistito, si diffuse la
voce che Cadorna avesse fatto fucilare trenta generali, e nei corridoi di
Montecitorio si raccontò che un deputato aveva scorto alla stazione di
Bologna due generali in stato di arresto(136).
Soltanto in un secondo tempo Cadorna si rese conto
che l’ipotesi del tradimento non poteva reggere e, interrogato dalla
Commissione di inchiesta, preferì negarla recisamente(137). La relazione
della Commissione affermò che quella ipotesi non aveva alcun fondamento,
e la documentazione portata alla luce dal 1919 ad oggi non ha fatto che
confermare i giudizi della Commissione stessa(138).
Più dura a morire, viceversa, fu l’idea che a Caporetto i fanti
avessero attuato uno «sciopero militare». Secondo
l’opinione di molti, infatti, il 24 ottobre, sull’Isonzo, non ebbe
luogo una vera e propria battaglia, perché la maggior parte della II
armata «scioperò», si rifiutò cioè di combattere, invocando la pace e
mettendosi in marcia verso le retrovie. L’ipotesi dello sciopero presentò
il vantaggio sia di richiedere minori dimostrazioni che non quella del
tradimento, sia di potersi agevolmente combinare con la stessa ipotesi del
tradimento (soltanto alcuni reparti si erano «accordati» col nemico e il
resto delle truppe aveva poi scioperato) e con quella delle vere e proprie
cause militari (gli austro-tedeschi avevano conseguito dei successi
locali, ma il grosso della II armata si era rifiutata di contrattaccare,
mettendosi in sciopero). In ognuno di questi casi, comunque, ci si
rifiutava di riconoscere nelle qualità dell’avversario la prima ragione
della sconfitta. Bissolati fu di questo parere, allorché affermò
che dopo la Bainsizza si era diffuso tra gli italiani «uno spirito di
negazione, di volerla fare finita, di scioperare», e precisò anzi che in
tutta la vicenda di Caporetto era possibile ritrovare «la psicologia
dello sciopero, perfino con le astuzie insegnate in tanti anni di pratica
socialista»(139). Ma anche Capello non ebbe un’opinione molto diversa,
quando definì Caporetto «una falla morale»(140). Ci
fu addirittura chi immaginò che gli austrotedeschi avessero fatto il
vuoto davanti a loro perché, avanzando, «portavano seco grandi
stendardi, col ritratto del Papa e gridavano: — Fratelli italiani,
facciamo la pace!»(141).
L’interpretazione «moralistica» di Caporetto
come sciopero militare nacque per ignoranza degli avvenimenti ma poté
diffondersi perché molti ebbero interesse a non ricercare la verità:
Cadorna e Capello, innanzi tutto , perché avrebbero dovuto
riconoscere i loro errori; il nuovo Comando supremo
perché avrebbe dovuto ammettere le colpe di Badoglio; molti interventisti
perché avrebbero tolto un marchio di infamia ai neutralisti considerati,
con la loro propaganda, i responsabili della disfatta; molti neutralisti
perché ritenevano che quella interpretazione della disfatta costituisse
la più evidente conferma della volontà di pace delle masse italiane. Molti
studiosi preferirono non indagare a fondo perché avrebbero disturbato «i
potenti», e ferito un malinteso orgoglio nazionale: affermare
infatti che gli austro-tedeschi avevano sfondato le linee soltanto perché
la propaganda «disfattista» o gli errori dei generali italiani avevano
aperto le porte all’invasore, significava in sostanza togliere a
quest’ultimo gran parte del merito.
C’è da aggiungere inoltre che molti furono indotti ad attribuire
importanza preminente alla crisi morale dell’esercito perché la rotta,
il panico, il caos non sembravano ed in effetti non erano cause
sufficienti a spiegare tutto ciò che accadde nelle file dell’esercito
tra l’Isonzo e il Piave. L’immensa folla in grigioverde rovesciatasi
d’improvviso nelle strade del Veneto non manifestò solamente la propria
impotenza verso un avversario più agguerrito, ma cercò anche di
esprimere la sfiducia verso un’impresa che sembrava diventare ogni
giorno più insostenibile ed assurda. Agì infine
un vero e proprio meccanismo di proiezione (come dicono gli psicologi),
perché in quell’ottobre 1917 moltissimi erano stanchi, scontenti,
sfiduciati, e trovarono quindi naturale proiettare la loro crisi sulle
truppe, attribuendo ad un fatto «morale» la causa essenziale della
sconfitta. Bissolati dichiarava a tutti di
volere farsi «saltare le cervella e ammetteva il fallimento della sua
politica(142): «E’ finita per noi. Noi dobbiamo scomparire. Noi siamo
stati coloro che hanno fatto il sogno della più grande Italia. Abbiamo
voluto creare un’Italia militare. Abbiamo errato. Costruivamo sul vuoto.
Gli italiani non erano preparati. Noi ci facevamo illusioni: noi abbiamo
con questo trascinato l’Italia a questo punto. Perciò dobbiamo ora
pagare, e scomparire(143).
Inviò un messaggero a Giolitti, con la notizia della rotta e
l’invocazione di «fare qualcosa per sostenere lo spirito pubblico»(144).
Telegrafò agli altri ministri prospettando l’eventualità di cedere il
potere ai neutralisti(145 ). Il presidente Orlando, preoccupato per
l’ondata di polemiche destata in Italia dagli avvenimenti, telegrafò ai
prefetti ed agli uffici di censura per impedire le discussioni sulla
guerra, specialmente — disse — se esse tendevano ad incolpare i
partiti della situazione creatasi(146). Ma di fronte al pericolo tutti i
cittadini, anche i più indifferenti, presero a discutere con eccitazione:
«le recriminazioni contro il governo e contro il Comando supremo furono
violentissime»(147). C’era chi, ritenendo ormai sicura la sconfitta, si
consolava immaginando che gli italiani avrebbero costituito la nazionalità
più numerosa e più forte in seno all’impero asburgico(145). A Milano
«qualche signore la cui prudenza stava in ragione diretta dei danari
disponibili, accusando le difficoltà del riscaldamento, prese il volo per
la riviera»(149). Ma il senatore Franchetti,
fraterno amico di Sonnino e sincero interventista, si uccise il 4
novembre, senza immaginare che esattamente un anno più tardi. sarebbe
stata celebrata la vittoria. In quei giorni anche Mussolini era «prostrato»,
e nei suoi discorsi «passava subitamente dall’espressione
dell’ira e dai propositi di lotta a una tristezza mortale», dichiarando
che gli sarebbe piaciuto morire(150).
Mancava quella serenità degli spiriti che sola poteva consentire di
ritrovare il filo degli avvenimenti al di là delle ingannevoli apparenze,
e non erano disponibili i dati, le informazioni precise, i documenti in
base ai quali compiere un’analisi obbiettiva. Ai
primi di dicembre, tuttavia, Bissolati, reduce dal fronte e da
colloqui ed incontri con vari generali italiani, dimostrò che la verità
avrebbe potuto farsi strada. In un colloquio con Malagodi, difatti, narrò
che fra il 4 e il 6 dicembre erano stati persi il Sisemol e le Melette,
circa 10.000 prigionieri e una sessantina di cannoni, ma riconobbe che le
fanterie austro-tedesche avevano potuto conseguire quel successo «per la
loro superiorità tattica»: «Indubbiamente — aggiunse il
ministro — nella guerra gli austro-tedeschi vanno applicando sempre
nuovi metodi, ai quali preparano accuratamente i loro soldati, specie i
soldati scelti, arditi, anzi arditissimi [..] essi hanno anche la
specialità, che a noi manca, della azione di piccoli nuclei. Con questi
nuclei, formati di plotoni di otto o dieci uomini, con mitragliatrici
leggere, essi praticano il metodo della infiltrazione; vale a dire si
insinuano qua e là, cercando di arrivare ai nostri fianchi e perfino a
tergo, nascondendosi fra le rupi, i cespugli, profittando di ogni
vantaggio del terreno». Proprio ciò che era accaduto a Caporetto,
dunque. Ed infatti, soggiunse Bissolati: «Io credo di essere riuscito a
ricostruire la storia della nostra grande disfatta. Anche allora credo che
l’abile tattica delle infiltrazioni abbia avuto la parte più importante
dal punto di vista militare. Ci fu un bombardamento formidabile,
spaventoso, durante il quale le truppe nemiche, in piccoli plotoni con
mitragliatrici, si arrampicarono da tutte le parti nelle sinuosità del
Colbricon, avvicinandosi più che potevano alle nostre posizioni; poi,
cessato il bombardamento, si presentarono alle trincee ed alle bocche
delle caverne e cominciarono così le rese e gli sbandamenti. Con questo
metodo è soppresso, si può dire, lo spazio che interveniva fra il
bombardamento e l’assalto delle fanterie, durante il quale le truppe che
si erano riparate dal bombardamento potevano uscire dalle caverne,
guarnire le trincee e prepararsi a ricevere gli assalitori. Si raggiunge
così di nuovo l’elemento della sorpresa; ed il metodo è assai
efficace…. Naturalmente entrarono poi in gioco altri fattori per
determinare una così grave débacle. C’era la stanchezza della guerra,
una sorda ribellione e volontà di piantar lì e di ritornare a casa.
L’attacco produsse un panico, il quale rafforzò e mise in piena azione
questo sentimento; le cose allora si aggravarono; il loro aggravamento
estese il panico, finché avemmo la valanga(151).
Alcuni giorni più tardi Bissolati ripeté a Malagodi
che il suo primitivo giudizio sulle responsabilità del disastro era
alquanto modificato, che le colpe del Comando erano forse maggiori che non
apparissero da principio, sembrandogli fuor di dubbio che esso si fosse
lasciato ingannare quanto al luogo dell’attacco (152). Ed anche
Amendola, il 16 febbraio, comunicò che precise informazioni accentuavano
senz’altro la responsabilità del Comando, «attenuando assai quella dei
soldati, specie al principio»(153). Nelle sue memorie il sen. Albertini
ammise con molta franchezza che al «Corriere della Sera» ed a lui
sfuggirono per molto tempo tutte le cause militari della catastrofe(154).
E la verità continuò anche in anni a noi più vicini a farsi strada con
fatica, tanto che ancor oggi si pretende spesso di parlare delle «cause
militari» di Caporetto riferendosi quasi esclusivamente ai dissidi fra i
generali italiani, o al famoso silenzio delle artiglierie di Badoglio,
senza precisare quali furono i metodi impiegati dal nemico.
note:
1-Sulla battaglia di Caporetto esiste una letteratura
vastissima, della quale si potrà trovare un’ampia ed accurata rassegna
in A. MONTICONE, La battaglia di Caporetto, Roma 1955, pp. 11-40. Negli
ultimi anni sono stati pubblicati numerosi scritti e documenti intorno
alla battaglia, oltre alla attesissima relazione dell’Ufficio Storico
dello Stato Maggiore, ampiamente utilizzata nelle pagine che seguono.
Desideriamo segnalare al lettore fra l’altro il bel volume di M.
SILVESTRI, Isonzo 1917 cit.; A. GATTI, Caporetto cit.; L. CAPELLO,
Caporetto, perché? cit.; R. SETH, Caporetto, Milano 1966. Sulla tattica
impiegati dagli austro-tedeschi durante la battaglia si veda il saggio di
G. VASILE, L’infiltrazione (Genesi - Evoluzione - Considerazioni), in «Rivista
Militare», novembre 1968, pp. 1366-81.
2 Cfr. L. CADORNA, La guerra alla fronte italiana cit., p. 464.
3 Ibid., p. 465.
4Ibid., p. 469.
5Ibid., pp. 467-68.
6 Ibid., pp. 469-70.
7Cfr. O.MALAGODI, Conversazioni della guerra cit., p. 168 (conversazione
con Amendola deI 15 ottobre 1917) e A. SOFFICI, La ritirata del Friuli, in
Opere cit., pp. 241-45.
8Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 369.
9 A.CAVACIOCCHI, Il IV corpo d’armata alla battaglia di Caporetto, 24-25
ottobre 1917, [dattiloscritto], p. 98, in MILANO, Risorgimento, b. 8.
10 A.OMODEO, Lettere cit., p. 229 (lettera dell’8 ottobre 1917).
11Cfr.A.CAVACIOCCHI, Il IV corpo d’armata alla battaglia di Caporetto
cit., pp.97-98.
12Cfr.Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 383.
(..)
46 E. ROMMEL, Infanterie Greift an:
Erleibnisse und Eri abrungen, Potsdam 1937, p. 230.
47 Cfr. Le dichiarazioni dei gen. Krafft von Dellmensingen a Luciano
Magrini in L.MAGRINI in L.ALBERTINI, Venti anni di vita politica cit.,
parte II, vol. III, pp. 9-10.
Ibid., pp. 9-10 e 102-03 e A. CABIATI, La battaglia dell’ottobre 1917
cit., p. 34.
Relazione ufficiale Caporetto, t. 3’, p. 232.
50 Cfr. A. CABIATI, La battaglia dell’ottobre 1917 cit., p. 115.
51 Cfr. Relazione ufficiale Caporetto, i. 3’, pp. 224-27.
52 Cfr. ibid., pp. 224-29.
53 A. GATTI, Caporetto cit., pp. 259-60 (alla data deI 24 ottobre 1917).
54 Cfr. A. LUSTING, Fisio patologia e clinica dei gas da combattimento
cit., p. 10;
55 F. WEBER, Tappe della disfatta cit., pp. 147 e 163-64.
Ibid., p. 159.
56 La sera del 23 ottobre il ten. Weber, quando conobbe il piano di
operazioni e seppe che i suoi commilitoni avrebbero dovuto procedere lungo
i fondivalle rimase interdetto e preoccupato. Cfr. ibid., pp. 155-56.
57 Cfr. A. GATTI, Caporetto cii., pp. 261 sgg.
58R. ALESSI, Dall’isonzo al Piave cii., p. 140.
59 Cfr. A. GATTI, Caporetto cit., p. 267.
60 Cfr. F. Foch, Memorie, milano 1931, p.345
61 Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, p.114
62 Cfr Relazione ufficiale Caporetto, t. 3°, pp. 257 sgg.
(..)
123 L’ordine era stato dato da Cadorna
in previsione di uno sforzo prolungato e «senza perdere di vista necessità
assicurare forte accumulo di munizioni per operare ventura primavera».
Cfr. Relazione ufficiale Caporetto, t. 30, pp. 320-22.
124 Ibid., p. 323.
125 Inchiesta Caporetto, vol. 1, p. 132.
126 A. GATTI, Caporetto cit., pp. 257-60 (alla data del 24 ottobre 1917).
127 Ibid., pp. 260-62.
128 Cfr. O. MALAGODI, Conversazioni della guerra cit., p. 285.
129 A. GATTI, Caporetto cit., p. 264 (alla data del 25 ottobre 1917).
130 L. CADORNA, Pagine polemiche cit., p. 180.
131 Inchiesta Caporetto, voI. TI, p. 545. A Roma il governo decise
immediatamente di non rendere pubblico tale testo. e modificò il primo
periodo nel modo seguente: La violenza dell’attacco e la deficiente
resistenza di taluni reparti della Il armata hanno permesso alle forze
austro-tedesche...» (ibid.). Ma il comunicato originale era già stato
diffuso all’estero dal Comando supremo attraverso una sua stazione
radiotelegrafica. Sull’argomento cfr. L. CADORNA, Pagine polemiche cit..
p. 254 e L. ALEERTINI, Venti anni di vita politica cir., parte II, voI.
III, pp. 144-45. Il telegramma di Orlando all’ambasciatore italiano a
Parigi è in ACS, Min. Interno, Gahinetto, U/J. Cifra, Telegrammi in
partenza, anno 1917, n. 26955. Il 29 ottobre gli austriaci lanciarono
sulle truppe italiane migliaia di manifestini, nei quali si poté fra
l’altro leggere: «In questo momento, così critico
per la vostra nazione, il vostro generalissimo, che insieme a Sonnino è
uno dei più colpevoli autori di questa guerra inutile, ricorre ad uno
strano espediente per scusare lo sfacelo. Egli ha l’audacia di accusare
il vostro esercito, il fiore della vostra gioventù, di viltà, quello
stesso esercito che tante volte si è slanciato per ordine suo ad inutili
e disperati attacchi! Questa è la ricompensa dei vostro valore! Avete
sparso il vostro sangue in tanti combattimenti, il nemico stesso mai vi
negò la stima di avversari valorosi. E il vostro generalissimo vi
disonora, vi insulta per discolpare se stesso!». Inchiesta
Caporetto, voI. I, p. 232. Sull’indignazione suscitata in Italia dal
comunicato di Cadorna, cfr. O. MALAGODI, Conversazioni della guerra cit.,
p. 171 (conversazione con Orlando dei 29-30 ottobre 1917). Osservazioni in
proposito si possono leggere anche in Inchiesta Caporetto, vol. II, pp.
547-48.
132 Lo riferì Luigi Albertini il 2 novembre, dopo una visita al Comando
supremo, cfr. infatti O. MALAGODI, Conversazioni della guerra cit., p.
175.
133 Ibid., p. 285 (conversazione con Cadorna del 25 febbraio 1918), ma cfr.
anche ibid. pp. 211-12 (conversazione con Cadorna deI novembre 1917) e F.
MARTINI, Diario cit., p. 1053 (alla data deI 19 novembre 1917).
134 Cfr. O. MALAGODI, Conversazioni della guerra cit., p. 191
(conversazione con Bissolati dei 13 novembre 1917) e p. 184 (conversazione
con Amendola del 6 novembre 1917).
135 Cfr. l’intervento di Alfieri alla seduta deI 13 dicembre 1917 in
CAMERA DEI DEPUTATI, Comitati segreti sulla condotta della guerra cit., p.
114, nonché F. MARTINI, Diario cit., p. 1050 (alla data deI 16 novembre
1917).
136 Cfr. A. STANGHELLINI, Introduzione alla vita mediocre, Milano
1924, p. 149; R. ALESSI, Dall’Isonzo al Piave cit., p. 144 (lettera del
25 ottobre 1917); A. VALORI, La guerra italo-austriaca cit., p. 383; F.
MARTINI, Diario cit., p. 1050, (alla data del 16 novembre 1917).
137 Cfr. Inchiesta Caporetto, vo1. IL, p. 532.
138 Ibid, pp. 530-33.
139 0. MALAGODI, Conversazioni della guerra cit., p. 191 (conversazione
con Bissolati del 13 novembre 1917). Cfr. anche Inchiesta Caporetto, voI.
II p. 484.
140 Cfr. L. CAPELLO, Caporetto, perché? cit., p. 347.
141 0. MALAGODI, Conversazioni della guerra cit., p. 177 (conversazione
con Tedeschi del 2 novembre 1917).
142 Cfr. V. E. ORLANDO, Memorie cit., p. 269 ma anche A. GATTI, Caporetto
cit., p. 285 (alla data deI 31 ottobre 1917).
143 Ibid., p. 295 (alla data del 1 novembre 1917).
144 G. GIoLITTI, Memorie della mia vita cit., p. 545.
145 Cfr. il telegramma citato a p. 454.
146 Cfr. ACS, Min. Interno, Gahinetto, Uff. Cifra, Telegrammi in partenza,
anno 1917, n. 26940.
147 Cfr. A. VALORI, La guerra italo-austriaca cit., p. 363.
148 Cfr. C. GALLI, Diarii cit., p. 288.
149 O. CIMA, Milano durante la guerra cit., p. 147.
150 E. MUSSOLINI, Mio fratello Benito, Firenze 1957, p. 81.
151 0. MALAGODI, Conversazioni della guerra cit., pp. 228-29
(conversazione con Bissolati dell’8 dicembre 1917).
152 Cfr. ibid., p. 248 (conversazione con Bissolati deI 3 gennaio
1918).
153 Ibid., p. 279 (conversazione con Amendola del 16 febbraio 1918).
154 L. ALBERTINI, Venti anni di vita politica cit., parte II, vol. III, p.
181.
da Piero Melograni, Storia
politica della grande guerra, ed Universale Laterza, Bari 1977, vol
primo
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