Luci,
voci, fili sul fronte: la grande Guerra e il mutamento della percezione,
di Antonio Gibelli
1. Un'esperienza paradigmatica
La Grande Guerra appare sempre più come il grande spartiacque del nostro
tempo, specialmente per quanto concerne la trasformazione delle strutture
mentali, le forme della percezione e della comunicazione. In questo senso
possiamo parlarne come della "madre di tutte le guerre", anzi
come la madre - o meglio la levatrice - del mondo moderno. La storiografia
più recente le ha assegnato un ruolo centrale nell'avvento della modernità,
facendone una sorta di crocevia delle trasformazioni più significative,
oltreché un paradigma dell'esperienza di guerra nel Novecento (1). Anche
nelle drammatiche vicende del Golfo, la memoria è andata al di là delle
analogie più superficiali quando non decisamente fuorvianti - a quella
prima, gigantesca e stupefacente esplosione della modernità, a quella
prima terrificante affermazione del binomio tecnologia-produzione di
morte. Essendo stata la prima è anche quella che ha lasciato l'impronta
più profonda.
Su questo punto può essere opportuna una precisazione terminologica.
Mentre il concetto di "modernizzazione" suggerisce un processo,
anzi più processi che interagiscono e fanno sentire i loro effetti con
progressioni diverse, quello di "avvento della modernità" - che
in questa sede preferisco - allude a un evento. La modernità può essere
correlata alla guerra a patto di cogliere la dimensione speciale di
quell’evento.
La Grande Guerra segna l'avvento della modernità nel senso che la rende
manifesta, la offre dispiegata nelle sue valenze di spettacolo
terrificante, la fa penetrare nella testa della gente modificando in
maniera estesa e durevole la stessa percezione del mondo, le categorie
spazio-temporali e i fenomeni sensoriali. Attraverso la guerra la modernità
diviene essa stessa un evento. E attraverso la modernità la guerra
diviene essa stessa un formidabile medium di esperienza collettiva.
E’ chiaro che tutte le premesse dei mutamenti erano già presenti, molte
intuizioni delle loro valenze erano già state anticipate. Ma è solo la
guerra che dà forma attuale e presenta in maniera concentrata, violenta e
estrema il senso delle trasformazioni. Ne costituisce una sorta di
precipitazione e perciò si presenta come una lacerazione, uno strappo. In
questo senso il fattore della discontinuità diventa preminente. La sua
valenza paradigmatica discende dunque dal suo carattere di esperienza
limite, dalla sua dimensione "smisurata" (e come tale imprevista
e imprevedibile), dal ritmo accelerato che imprime al mutamento,
dall'estensione dei suoi effetti a livello di massa, dalla sua potente
influenza unificante.
Vorrei insistere brevemente su questo carattere unificante dell'esperienza
compiuta nel corso della prima guerra mondiale. Non c'è dubbio che le
articolazioni nazionali e le distinzioni sociali e di genere, e così
quella tra combattenti e popolazione civile rimangono un criterio di
orientamento e di analisi che non si deve eludere, come è stato ribadito
in termini critici a proposito della ricezione italiana di alcuni testi di
grande importanza sulla Grande Guerra (2). Direi di più: oggi - grazie
all'impiego sistematico di nuove fonti personali e private relative a
gente comune - siamo in grado di misurarci col problema del rapporto tra
storia generale e storia di singoli uomini: intendo di uomini qualunque,
che - incarnando un paradosso tipico della società di massa e del
Novecento - diventano protagonisti proprio mentre si fanno vittime e
comparse. Siamo cioè di fronte alla possibilità di costruire una sorta
di "prosopografia dal basso" nel contesto di singoli eventi, che
ripropone in termini inusuali la questione del posto della biografia nella
storia (3).
Resta il fatto che mai un'esperienza collettiva aveva avuto in passato
effetti così radicalmente uniformi, agendo come potente riduttore delle
diversità e ammettendo inesorabilmente masse immense in giganteschi
meccanismi sovraindividuali incontrollabili. Ciò vale naturalmente in
maniera decisamente più forte se si fa riferimento in particolare
all'esperienza dei combattenti, che peraltro furono decine di milioni,
lasciando per il momento da parte quella della popolazione civile,
coinvolta nella guerra in maniera perlopiù indiretta (4).
Le fonti attestano questa formidabile capacità omologatrice della guerra:
su tutti i fronti si compiono esperienze simili (soprattutto in termini
strettamente percettivi, visivi, sonori e spazio-temporali), si parlano
gli stessi linguaggi, si usano metafore comuni. Dobbiamo ripeterci che i
modi in cui attraversarono l'esperienza di guerra un volontario
appartenente alla classe media tedesca e un contadino ligure furono
profondamente diversi? E tuttavia i connotati centrali di quella
esperienza furono comuni a entrambi. Vorrei dirla con un esempio che può
sembrare scandaloso: alcune pagine del diario di Carlo Verano, contadino
ligure appena alfabetizzato, possono essere sovrapposte come un calco ad
altre pagine, considerate tra le più alte della memorialistica di guerra
europea, come sono quelle di Nelle tempeste d'acciaio di Ernst Jungers
(5). Una stessa trama infuocata le percorre, come se il fragore dei
bombardamenti e la sovrumana potenza della tecnologia distruttiva passasse
direttamente dall'evento alla testimonianza indipendentemente dalle qualità
letterarie, dai presupposti culturali, dalla traiettoria ideologica del
testimone. La stessa coazione a testimoniare, e in particolare a scrivere
che sembra scaturire con tanta forza dalla vicenda della guerra accomuna
in maniera nuova e sorprendente intellettuali e gente comune. Tanto più
"grande" è la guerra, e tanto più sembrano sfumare le
differenze di esperienza tra coloro che ne vissero il trauma, tanto più
estesa sembra farsi l'area comune. E’ come se la grandezza dell'evento
omologasse i protagonisti e le vittime comprimendone le specificità
all'interno di un unico paradigma. Ho chiamato "officina" quella
della guerra anche per significare questo meccanismo di produzione
standardizzata di uomini nuovi.
Analogie, rimandi e un terreno comune di riferimento si ritrovano anche,
nel crogiuolo della guerra, tra esperienza della gente comune e linguaggi
delle arti figurative. Dal fotomontaggio al cinema, dal cubismo al
futurismo, le avanguardie anticipano e traducono in linguaggio artistico i
termini di un'esperienza percettiva, visiva e sonora, compiuta da milioni
di uomini sul teatro della guerra. Tecniche di avanguardia, nuove forme di
comunicazione e di rappresentazione rinviano all'esperienza dell'uomo
comune e affondano le radici nello stesso scenario. Come ha notato Kern,
si tratta di una "guerra cubista". La testimonianza della Stein
che gli suggerisce l'associazione combina un elemento distruttivo e uno
costruttivo, la distruzione e la creazione (6) . E la distruzione non è
solo quella metaforica del vecchio modo di vedere il mondo: è la
distruzione materiale del mondo stesso, fuori dell'uomo e dentro di lui.
Una distruzione operata dalla guerra.
La guerra spezza, lacera, confonde, scompone e ricompone, separa e
ricongiunge: paesaggio, natura, corpo, forma e figura, parole e cose,
spazio e tempo subiscono lo stesso trattamento. Cubista è ad esempio la
visione del corpo a pezzi, che si presenta insieme di fronte e di profilo,
senza distinzione tra interno e esterno, e in una spaventosa continuità
tra corpo e materia, uomini e cose, figura e sfondo: «Braccia, gambe,
teste fuoruscivano dalla scarpata; davanti alle nostre tane membra
strappate e corpi sui quali a volte erano stati gettati, per evitare un
continuo spettacolo di facce sfigurate, cappotti o teli da tenda» (7). I
manichini, le marionette dal volto umano di Grosz sono prima di tutto
personaggi del teatro di guerra. Un manichino è l'austriaco che vola per
aria «con le gambe e le braccia aperte, sollevato dall'esplosione di una
nostra granata», di cui ci racconta un diario (8). Moncherini, teste
sbilenche, espressioni raccapriccianti, risate di morte, volti con tre
occhi o con un occhio solo compaiono prima sui campi di battaglia che nel
disegno satirico. Un pilota cade dal cielo seguendo la traiettoria
dell'aereo distrutto «come un pezzo staccato dalla sua macchina» (9).
Prende forma e vita nelle trincee «l'uomo meccanico dalle parti
cambiabili» dell'estetica futurista, cui il caucciù vulcanizzato delle
protesi facciali restituisce un sorriso artificiale (10). Cubista, o
espressionista o surrealista è la faccia verde dell'uomo colpito dai gas,
o quella dei cadaveri coperti di argilla incrostata (11). Cubista è
infine la compenetrazione, la confusione di oggetti che propone un mondo
oltre la superficie unidimensionale e oltre le distinzioni rassicuranti
dell'esperienza comune. Cito ancora da Junger, ma è questo un luogo
comune davvero universale delle scritture di guerra:
Sul pavimento giacevano cassetti, biancheria, busti, libri, giornali,
comodini, pezzi di vetro, bottiglie, carta da musica, gambe di sedie,
gonne, cappotti, lumi, tende, scuri e porte scardinate, merletti,
fotografie, quadri, album, casse sfondate, cappelli da donna, vasi da
fiori e carta da parati in una confusione indescrivibile (12).
La stessa spaventosa confusione, con in più la contaminazione tra vivo e
morto, organico e inorganico, regna naturalmente nelle trincee, nei
camminamenti e nella testa della gente: discariche di un mondo andato in
frantumi, polverizzato, letteralmente esploso.
2. Vedere il mondo per la prima volta
Si può dunque partire da questa intuizione: gli uomini nel corso della
guerra vedono il mondo per la prima volta. Ovvero, vedono per la prima
volta un mondo nuovo. Come dice la Stein nella testimonianza citata: «Il
Novecento è un secolo che vede la terra come non l'ha mai veduta
nessuno». Non si tratta solo della visuale aerea che suscita questa
considerazione, ma appunto dell'andare in pezzi di tutto il vecchio mondo.
Ho citato altrove altre testimonianze, colte e popolari, che traducono il
senso di questo sgretolamento e di questa apparizione del nuovo. Anche su
questo punto la ricorrenza è significativa. Sgomento e meraviglia, senso
di un mutamento accelerato, vertiginoso e irreversibile percorrono
diffusamente ogni tipo di scritture e memorie di guerra. Un soldato scrive
pressappoco: un vecchio di ottant'anni non ha visto nella sua intera vita
tutto quello che ho visto io in due ore (13). Due ore è la durata di un
film (almeno oggi). La straordinaria intensità e l'accelerazione
innaturale, si direbbe cinematografica, delle immagini vengono colte
immediatamente dai protagonisti. Il nuovo mondo appare nella sua
dimensione artificiale, nel suo cambiamento arbitrario di ritmo. Come
nella Montagna incantata, ai ritmi lentissimi dell'attesa negli anni
prebellici, quasi fuori del tempo, quasi senza "storia",
subentra (sono le ultime pagine del romanzo) l'improvvisa accelerazione
degli eventi di guerra, che tutto inghiotte e confonde, persino
l'identità del protagonista. La guerra è allora come il precipizio e
l'abisso che inghiotte il Titanic, mutando in tragedia la sua celebrazione
della modernità (14).
«Il poeta vede le cose come fosse la prima volta - ha scritto Musil in un
suo celebre appello a testimoniare rivolto ai soldati nel corso della
Grande Guerra -: ogni soldato che si renda imparzialmente conto di quanto
vede, diventa poeta» (15). E i soldati si trovarono tutti nella posizione
descritta da Musil: testimoni di una potente trasformazione che investiva
la realtà esterna e quella interiore. Un intero mondo appariva ai loro
occhi per la prima volta. E’ lo stesso Musil a insistere sul carattere
smisurato dell'esperienza allora compiuta dagli uomini, un'esperienza ai
limiti dell'impossibile, tale da lacerare le coordinate sensoriali e
concettuali impiegate per accoglierla, fino a mettere in dubbio le
possibilità di memorizzarla. Sofferenza e meraviglia, orrore e stupore si
mescolano nelle testimonianze dei soldati di fronte alla sovrumana potenza
della guerra moderna. Il senso dello spettacolo affiora nel contesto della
ripugnanza e della paura. La guerra moderna presenta al massimo grado
quelle valenze di spettacolo che sono proprie delle grandi catastrofi,
naturali e tecnologiche, e che non sono incompatibili con l'orrore:
l'affondamento di transatlantici e corazzate, i terremoti, le eruzioni
vulcaniche (16).
Quali similitudini possono dunque soccorrere per esprimere la grandezza
terrificante di questo spettacolo? Una notte di bombardamenti richiama
spesso nelle testimonianze dei soldati una notte di fuochi artificiali. Ma
la dimensione della sagra paesana è lontana da quella del bombardamento
notturno: per intensità, per durata, ovviamente anche per le minacce alla
vita che quest'ultima contiene. Così, quasi sempre, nell'enunciare il
paragone contemporaneamente se ne prendono le distanze, attraverso
l'ironia. Solo in termini ironici la sagra paesana può essere accostata
al bombardamento. Nella prosa di un soldato il fuoco del bombardamento
assomiglia a quello che si accende nella festa religiosa (il
"triduo") salvo che non ci si può avvicinare, pena il rischio
della vita, come si fa con quello (17). Come ha sostenuto Fussell,
l'ironia è categoria fondamentale nel racconto della guerra in quanto
esprime la sproporzione tra l'esperienza vissuta e le categorie
concettuali e linguistiche, ma potremmo dire emotive e esistenziali, entro
le quali dev'essere compresa, sistemata e riferita. La prima guerra
mondiale appare insomma come un'esperienza "incompatibile".
3. Tecnologia, percezione, comunicazione
Le trasformazioni percettive e sensoriali che si verificano nel contesto
della guerra vanno considerate in relazione alle trasformazioni delle
tecnologie visive, sonore e comunicative. Qui entra in campo il discorso
dei media. Dentro la guerra si amplifica e si socializza la rivoluzione
delle comunicazioni che si è compiuta tra Otto e Novecento. La guerra
serializza e estende a milioni di uomini il nuovo modo di vedere, sentire,
comunicare. La guerra non inventa il cinematografo, ma ne estende l'uso e
la fruizione e insieme offre un esempio di esperienza
"cinematografica", ossia di un'esperienza che sembra trovare nel
linguaggio cinematografico la migliore forma di espressione. Esiste
insomma una sorta di sinergia e di potenziamento circolare tra esperienza
compiuta nelle trincee e sui campi di battaglia, paesaggi visivi e sonori
che si disegnano per effetto delle artiglierie e nuovo modo di vedere e di
sentire che si afferma anche grazie alle tecnologie di riproduzione e di
rappresentazione della realtà.
Numerose e potenti novità si sono affermate nel periodo prebellico nel
campo della comunicazione, producendo effetti cumulativi. Le tecnologie
della comunicazione, le forme di trattamento del suono e della luce si
sono fatte più complesse e diversificate, più ricche e artificiali, e
nel loro insieme modificano lo sguardo della gente comune. La guerra
mostra agli uomini un mondo pieno di immagini e di suoni, e in cui le
luci, le immagini e i suoni hanno cambiato natura. Nuovi sono intanto i
fenomeni in termini quantitativi: di intensità, numero e frequenza.
L'intensità stessa degli eventi sonori e visivi cui la guerra sottopone
il combattente è superiore a ogni esperienza precedente, tale da
provocare una effrazione dolorosa, e insieme una percezione dissociativa e
frammentaria. Il numero delle immagini che entrano nell'universo mentale
dell'uomo moderno è enormemente più grande che nel passato. In un
racconto di Rigoni Stern, la contemplazione di due sole stampe basta a
riempire l'immaginario in una notte invernale sull'altipiano d'Asiago
(18). Nel corso di una proiezione cinematografica, le immagini che
scorrono sullo schermo sono centinaia in pochi minuti: «Milioni di
immagini, milioni di brevissime negative in cui erano state scomposte,
ritraendole / le azioni degli attori / per renderle quante volte si
voleva, in uno svolgimento rapidamente scintillante, all'elemento del
tempo» (19). «Un uomo moderno - scrive Leger - registra impressioni
sensoriali cento volte di più di un artista del secolo diciottesimo». E
ancora: «Le poche persone della classe operaia che si era soliti vedere
nei musei restare a bocca aperta di fronte a una carica di cavalleria di
M. Detaille o ad una scena storica di M.J.P. Laurens, non si vedranno
più: sono al cinema» (20). Anche i figli di Tonle nel racconto di Rigoni
"restano a bocca aperta" di fronte alla scena di caccia
riprodotta dalla stampa. Essi vedono la rappresentazione come realtà,
laddove i combattenti vedranno la realtà come rappresentazione.
Nel mondo che la guerra spalanca di fronte agli occhi della gente comune
ci sono le immagini meccaniche riproducibili in grande serie (la
fotografia), le immagini meccaniche in movimento disposte in sequenze,
ritmi e distanze innaturali e verosimili insieme (il cinema); ci sono
mezzi di conservazione e amplificazione del suono (il grammofono,
l'altoparlante elettrico), mezzi di produzione di luce artificiale così
potenti da eguagliare la luce naturale e da sovvertire il rapporto
notte-giorno (i razzi, i riflettori), mezzi di trasmissione istantanea del
suono a distanza (il telefono). Ma ci sono anche le cartoline illustrate e
i manifesti murali che ripetono i loro messaggi all'infinito nelle strade
e nelle piazze. E poi ci sono le parole scritte a mano, i segni tracciati
sulla carta con lapis e penna: segni meno caldi, meno diretti della parola
orale, più artificiali, più misteriosi, più "liberi" perché
capaci di muoversi a distanza nello spazio e di sopravvivere nel tempo,
così come il grammofono assicura la sopravvivenza dei suoni, quindi la
loro ricezione a distanza nello spazio e nel tempo. In questo senso la
scrittura, che nel corso della guerra diviene più che mai pratica di
massa, partecipa degli stessi connotati di modernità propri delle nuove
forme di comunicazione visiva e sonora. E’ una forma di comunicazione
che va oltre la naturalità della comunicazione orale.
Questi messaggi irrompono nell'universo percettivo della gente comune
operando lo sfondamento dell'immagine tradizionale del mondo. La
rivoluzione percettiva e comunicativa che si verifica è caratterizzata in
primo luogo dall'integrazione e dal primato dell'elemento artificiale su
quello naturale, della tecnologia sulla biologia, e con ciò da un'inedita
mescolanza tra vivo e morto. L'idea della natura, come mondo compatto che
esiste al di fuori dell'uomo e determina tanto la sua visione delle cose
quanto i ritmi della sua vita, si disintegra.
L'elettricità trasforma le notti in giorni. Il sorgere della luna può
essere scambiato con il salire di un razzo. La chimica degli esplosivi
polverizza le montagne modificando il paesaggio. Il senso del tempo si
disancora dalle matrici biologiche, naturali o semplicemente tradizionali
fondate sui binomi ciclici notte-giorno, giovinezza-vecchiaia, tempo di
lavoro-tempo di riposo. Nella fotografia un evento si può scandire e
fissare in sequenze separate: per esempio la distruzione progressiva di un
forte sotto i bombardamenti (21). Oppure si può moltiplicare
all'infinito, rifrangere in angolazioni e dettagli. Nel cinema gli eventi
sonori si separano da quelli visivi, le sequenze naturali della vita si
possono invertire, il prima e il poi sono intercambiabili, la realtà
assume l'evidenza di un sogno e il sogno si incarna in immagini reali. La
visione appare prodotto di una scomposizione e di una successiva,
arbitraria ricomposizione, ossia di un montaggio. Il grammofono ci fa
sentire la voce di un assente, persino di una persona già morta, come la
fotografia ci mostra l'immagine di chi non c'è più, dell'istante già
trascorso. Allo stesso modo il telefono ci porta la voce di un assente, ci
fa sentire una voce dell'aldilà (22) . Ma può pure accadere di ricevere
una lettera l'ultima - da una persona già morta, ed è quanto capita
spesso ai congiunti dei soldati. Anche nella comunicazione epistolare il
messaggio raggiunge il destinatario in assenza dell'emittente. E anche
nella comunicazione verbale l'avvento della modernità si manifesta come
l'aggiunta di un supporto tecnico alle possibilità naturali-biologiche.
E’ l'artificio della scrittura che va oltre la natura della parola
orale. Anche qui il mezzo tecnico, prolungando le capacità del corpo e
sostituendosi a esse, richiede al corpo un adattamento progressivo,
l'assunzione di un habitus speciale, cui gli illetterati alludono quando
lamentano la difficoltà di "tener la penna in mano" e si
scusano del "male scritto" (23).
E’ tutto questo che ho chiamato "nuovo paesaggio mentale". Ed
è con questo patrimonio di esperienze sconvolgenti che milioni di uomini
si inoltrano nei percorsi urbani degli anni venti, verso il XX secolo.
Nella notte dei nostro secolo, illuminata da improvvisi bagliori e
percorsa dalla misteriosa presenza di voci e suoni artificiali, piena di
oscure minacce per l'integrità fisica e per l'identità di immense masse
di uomini.
1. Intorno a questo nodo ruota il mio
recente lavoro, L'officina della guerra. La Grande
Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati-Boringhieri, Torino,
1991, di cui qui
riprendo le argomentazioni, e al quale mi permetto di rinviare anche per
gli essenziali riferimenti al dibattito storiografico. In particolare il
capitolo quarto del libro ("Un nuovo paesaggio mentale") è
dedicato ai mutamenti indotti dalla guerra nelle forme della percezione:
non riprenderò quindi tali aspetti in modo analitico, lirnitandomi a
qualche accenno.
2. Mi riferisco in particolare a P. Fussell, La Grande Guerra e la memoria
moderna, Il Mulino, Bologna, 1984 e a E.J. Leed, Terra di nessuno.
Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale, Il
Mulino, Bologna, 1985, e al dibattito sollevato da questi testi: cfr. G.
Rochat, "La grande guerra negli studi di Fusseli e Leed", in
Rivista di storia contemporanea, n. 2, 1987. Resto convinto che
l'importanza di entrambi i testi stia precisamente nella proposta di un
paradigma interpretativo nuovo, che mostra la sua efficacia anche laddove
ricerche analitiche (per paesi, settori sociali, fonti diverse) ne
suggeriscano non solo una migliore articolazione, ma addirittura una
parziale rettifica o smentita.
3. Per il concetto di "prosopografia dal basso", cfr. C.
Ginzburg, C. Poni, "Il nome e il come: scambio, ineguale e mercato
storiografico", in Quaderni storici, n. 40, 1979; per la discussione
sugli usi della biografia, cfr. G. Levi, "Les usages de la biographie",
in Annales, n. 6, 1989. Un esempio efficace di applicazione della
prospettiva biografica grazie all'uso sistematico di fonti
"soggettive" come gli epistolari dei combattenti, è dato dal
volume di recente pubblicazione: F. Croci, Scrivere per non morire.
Lettere dalla Grande Guerra del soldato bresciano Francesco Ferrari,
Marietti, Genova, 1992, che inaugura una collana dal titolo "Fiori
secchi. Testi e studi di scrittura popolare".
4. Mi pare utile ricordare che il concetto di "guerra totale" ha
diversi significati, non tutti applicabili alla prima guerra mondiale: in
questo caso, tranne per alcune eccezioni (territori in prossimità dei
fronti, territori invasi e così via), il dato dominante - abbondantemente
segnalato dalle testimonianze dei combattenti - resta quello della
radicale alterità e incomunicabilità della loro esperienza ai civili,
almeno in termini di percezioni visive e sonore della guerra guerreggiata
e di convivenza quotidiana con la morte. La maggioranza
delle popolazioni civili non ebbe un'idea esatta di cosa la guerra fosse
davvero, fece fatica a immaginarla, non la vide e non la senti, ebbe
insomma di essa un'esperienza indiretta: nulla di paragonabile a quanto
avvenne nella seconda guerra mondiale a motivo della sua natura diversa
(si pensi ai bombardamenti aerei e alla caduta della separazione tra
militari e civili, fronte e fronte interno), e poi in relazione alla
diffusione del mezzo cinematografico e televisivo. Non c'è bisogno
peraltro di sottolineare come il problema del rapporto tra chi vive
direttamente la guerra e chi la "vede rappresentata" sia pure in
diretta (come èaccaduto nei primi bombardamenti di Bagdad nella guerra
del 1991) si riproponga comunque anche nell'era della televisione.
5. Si veda ad esempio la somiglianza tra i paragoni citati in epigrafe,
ripresi appunto da E. Jiinger, Nelle tempeste d'acciaio, Guanda, Parma,
1990, p. 107, e dal diario di Carlo Verano (sulle caratteristiche di
questo testo e del suo autore si veda L'officina della guerra, cit., p.
218). Verano ripropone il paragone tra il bombardamento e l'ambiente di
una cucina con pentole in ebollizione in più di un passo. Va notata la
singolare incongruenza tra le dimensioni degli eventi paragonati: il
repertorio delle immagini cui si fa ricorso per rievocare le vicende
trattate sembra in entrambi i casi inadeguato e insufficiente.
6. Cfr. S. Kern, Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e
Novecento, Il Mulino, Bologna, 1988, p. 367
7. E. Junger, op. cit., p. 110.
8. Citato in L'officina della guerra, cit., p. 171.
9. E. Junger, op. cit., p. 151.
10. Cfr. L'officina della guerra, cit., p. 185.
11. Scrive Carlo Verano nel suo diario: «Avevo paura del Gas terribile
perché vidi tanti miei compagni essere in un burrone in trincea e nessuno
più non si salvò tutti erano neri e verdi in faccia». Dell'argilla
incrostata sui volti dei cadaveri parla E. Júnger, op. cit., p. 228.
12. Ibidem, p. 106.
13. La citazione esatta è la seguente: «E possibile raccontarvi tutto
cuello che passo e che o passato un vechio di utantani une dubio che a
passatto e visto cuello che o passatto e visto .Mé in 2 ore» (lettera
dei soldato Domenico Bignotti, cit. in T. Cavalli, Isonzo infame. Soldati
bresciani nella guerra '15-'18, Edizioni del Moretto, Brescia, 1983, p.
169).
14.Alla vicenda del Titanic, per le sue valenze simboliche oltreché per
le sue implicazioni in merito alla simultaneità della comunicazione, e al
romanzo di Mann rivolge molta attenzione il volume di Kern citato. il
rapporto tra il massimo della velocità e la sua riduzione a zero
nell'immobilità e nell'istantaneità della morte sembra essere poi il
motivo dominante delle tavole dedicate alla vicenda dal pittore Fiavio
Costantini. Significativamente, alcune di queste sono scomposte in una
sequenza, d che evoca le procedure tipiche della fotografia e del cinema.
Senonché, a differenza del cinema, qui la scomposizione traduce il
movimento in immobilità e non viceversa. Le sequenze immote e mute
segnano l'avvicinarsi inconsapevole al fatale iceberg, sono cariche
dell'attesa inquieta della catastrofe, così come le giornate immobili,
senza tempo del Berghof precedono e preparano l'esplosione finale.
15. R. Musil, "Kameraten arbeitet mit!", in Tiroler Soldaten
Zeitung, 6 agosto 1916, ora tradotto in La guerra parallela, Reverdito,
Trento, 1987, p. 21
16. Il paragone tra guerra moderna e catastrofi naturali è un tema
ricorrente nella pubblicistica dell'epoca. Ne ho trovato tracce abbondanti
in quella di tipo medico-psichiatrico, attenta alle conseguenze
traumatiche di tali eventi. Altamente emblematica della relazione tra
guerra e catastrofi naturali e della loro comune componente spettacolare
è una circostanza relativa al primo film italiano di propaganda uscito
dopo l'entrata in guerra Sempre nel cor la Patria!.. di Carmine Gallone
(settembre 1915): per rendere lo scenario delle devastazioni dovute ai
bombardamenti, parte del film fu girata nella zona tra Avezzano e
Tagliacozzo (Abruzzo) colpita da un tremendo terremoto all'inizio
dell'anno (V. Martinelli, "I sogni di Momi. Il cinema italiano e la
Grande Guerra", in Cinegrafie, n. 4, 1991, pp. 130-131).
17. Cfr. T. Cavalli, op. cit., p. 43.
18. M. Rigoni Stern, Storia di Tonle, Einaudi, Torino, 1978, pp. 19-20.
19. T. Mann, La montagna incantata, Dall'oglio, Milano, 1982, p. 350. Nel
lungo passo dedicato dal romanzo all'esperienza dei cinematografo
ricorrono più volte termini e espressioni che richiamano la
frammentarietà, la velocità e l'alto numero delle immagini:
«avvenimenti affrettati», «guizzante, mutevole» «guizzava via sulla
tela [... ] una quantità di vita spezzettata, piacevole, affrettata» e
così via. Il soldato Giuseppe Capacci utilizza spesso il paragone coi
cinematografo per rendere i dinamismi e gli improvvisi cambiamenti di
scena che si verificano nel tumulto della battaglia (cfr. G. Capacci,
Diario di guerra di un contadino toscano, a cura di D. Priore, Cultura
Editrice, Firenze, 1982).
20. Riprendo le citazioni da S. Kern, op. cit., pp. 150-151, che
naturalmente dedica molte pagine al cinema, e ricorda fra l'altro come gli
effetti di velocizzazione fossero dovuti anche al problema tecnico della
differenza di velocità tra la ripresa e la proiezione.
21. Trovo l'immagine in L. Barzini, Al fronte (maggio-settembre 1915),
Treves, Milano, l@91-. pp. 224-232.
22. Anche per questo legame tra presenza e assenza, vicinanza e
separazione, vita e morte nell’esperienza del telefono, mi riferisco a
S. Kern, op. cit., pp. 271-272
23. Il problema dell'adattamento alla scrittura non è che un indizio
della trasformazione antropologica conseguente all'introduzione di nuove
forme di comunicazione. Il problema del rapporto tra oralità e scrittura
presenta anche questo versante. Altrove mi sono occupato delle
testimonianze scritte di "illetterati" in cui è palese
l'intreccio tra bisogno di oralità e dolore della lontananza. La
scrittura manifesta in questi casi la propensione contraddittoria e
insoddisfatta a stabilire un contatto fisico, diretto e personale con
l'interlocutore, che le è per definizione precluso (cfr. il mio
"Bisogno di oralità e dolore della lontananza nelle lettere di
illetterati", in Indizi, n. 1, 1992).
da Guerra e mass media.
Strumenti e modi della comunicazione in contesto bellico , a cura di
Peppino Ortoleva e Chiara Ottaviano, Liguori Editore, Napoli, 1994
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