i primi due paragrafi del
saggio di Gianni Oliva, Spirito di corpo:
media, associazionismo e autorappresentazioni della comunità militare
1. L'autorappresentazione dell'esercito nell'età liberale
La necessaria premessa al tema dell'intervento è un rapido accenno dell'autorappresentazione
dell'esercito nell'età liberale e ai linguaggi ai quali essa ricorreva:
è questo, infatti, il serbatoio di immagini e di stereotipi ai quali
attingerà il combattentismo tra le due guerre. 1 diversi corpi che
componevano l'esercito italiano durante la prima guerra mondiale (in gran
parte ereditati dalle tradizioni militari sabaude e in parte costituiti
dopo l'unificazione nazionale) (1), non erano soltanto la risposta alle
diverse esigenze tattico-strategiche e all'evoluzione tecnologica degli
armamenti: nella loro caratterizzazione come "corpo", dotato di
tratti peculiari e di specificità, essi costituivano un ventaglio di
"messaggi" indirizzati dalle forze armate al paese, un'autorappresentazione
riferita al modello di combattente, al tipo di guerra e di battaglia, alla
continuità della tradizione, al rapporto esercito-sicurezza, vita
militare-vita civile, esercito-monarchia sabauda.
Nella seconda metà dell'Ottocento e all'inizio del Novecento erano
soprattutto le immagini pittoriche a veicolare tali messaggi: le copertine
dei periodici più diffusi (in primo luogo L'Illustrazione italiana e La
Domenica del Corriere), le illustrazioni a corredo degli articoli, le
cartoline stampate dallo Stato Maggiore e distribuite tra i soldati per la
corrispondenza (2), i libri di testo delle scuole elementari (3)
ricorrevano spesso alle rappresentazioni militari, spaziando dai grandi
reparti in parata ai singoli gruppi impegnati in esercitazioni. Un tratto
comune a tutti i corpi era costituito dall'eleganza delle uniformi da
parata che, non a caso, riproducevano in forma laica la ricchezza e la
varietà degli addobbi sacri: luccicanti di fregi e di bottoni ottonati,
apparentemente tagliate su misura, slanciate nella foggia, ben completate
da berretti e cinturoni, esse costituivano l'immagine di uno status
sociale privilegiato, un segno di distinzione contrapposto alla sciatteria
degli abiti ordinari. La cavalleria, che alla seduzione dell'uniforme
aggiungeva la spettacolarità del galoppo, era forse il corpo più adatto
di ogni altro a veicolare questo messaggio sociale: è probabilmente
questa la ragione per la quale la stampa dedicava alla cavalleria uno
spazio proporzionalmente assai superiore alla sua consistenza numerica e
al suo effettivo ruolo militare nelle ipotesi strategiche di fine/inizio
secolo (4).
Se questo era il denominatore comune, altri elementi risultavano invece
specifici. I carabinieri, costituiti nel 1814 al ritorno di Vittorio
Emanuele I a Torino e preposti alla salvaguardia della monarchia e
dell'ordine interno, erano lo specchio della restaurata atmosfera
assolutista nella quale erano sorti: primo soldato dell'armata, tutore
della sicurezza e della legalità, il carabiniere reale costituiva
un'immagine di affidabilità, di organizzazione, di potere immediata e
percepibile da tutti. Nell'uniforme, nel portamento, nella cavalcatura,
nelle armi egli doveva esprimere distinzione e superiorità, essere a un
tempo la forza dell'ordine che incute timore e il soldato scelto del re
che suscita ammirazione: un'astrazione a simbolo dell'ordine sabaudo,
tanto più efficace quanto più si allontanava dal modello di
comportamento comune (Il Galateo del Carabiniere raccomandava infatti
«compostezza di movimento, uniformità di tratto e limitazione d'atti e
d'azioni», perché «chi è costretto pel suo ufficio ad agire in senso
di costrizione con il pubblico» non può «con esso pubblico esser
confuso»: di qui, ad esempio, il divieto di portare «baffi e spagnoline»
stabilito nel "Regolamento per le uniformi" del 1814 e l'invito
«a tenere lo sguardo sempre teso davanti a sé» durante il servizio di
pattugliamento) (5).
Strettamente legati a un messaggio di dinamismo erano invece i
bersaglieri, istituiti nel 1836 su progetto del capitano Alessandro
Lamarmora per disporre di «un corpo speciale per organismo fisico, per
spigliatezza e libertà di manovra, per maggiore potenza di armamento e
razionale rapidità di mosse nelle forme tattiche» (6). La loro comparsa
nel grigiore del Piemonte albertino aveva un effetto di rottura sul piano
dell'immagine: le piume al vento, il passo di corsa, l'originalità briosa
del portamento, la vivacità comportamentale alludevano immediatamente a
una nuova volontà politica, a un attivo inserimento del Piemonte sabaudo
nella scena internazionale: non a caso il battesimo del fuoco del Corpo
era la battaglia di Goito del 1848, durante la 1 guerra d'indipendenza, e
l'impegno bellico più noto la guerra di Crimea del 1855, a sanzione di un
legame di stretta interdipendenza tra bersaglieri e unificazione
nazionale. Sul piano dei messaggi, l'ardore del Corpo era un'anticipazione
della volontà risorgimentale e il "passo di corsa" trovava la
sua realizzazione storica nelle cariche dei '59 e del '70: una delle
tavole illustrate più famosa e ripetuta nelle pubblicazioni dell'età
liberale era infatti quella del XII battaglione bersaglieri che il mattino
del 20 settembre 1870 attraversa per primo la breccia di Porta Pia.
A un'idea di difesa rinviava invece il corpo degli alpini, costituito nel
1872 quando il processo unitario era ormai compiuto e serviva piuttosto il
consolidamento delle frontiere raggiunte. L'iconografia proponeva sempre
l'alpino in posizione di vigilanza: ritto su uno sperone di roccia, una
mano al fianco e un'altra a reggere il fucile, lo sguardo teso verso
l'orizzonte, il portamento saldo e vigoroso, egli era innanzitutto il
garante della inviolabilità dei confini, come confermavano i motti dei
reparti ("di qui non si passa", "vigilantes",
"vedette dei culmini"). L'impostazione pittorica, soffermandosi
sulla statuarietà dei corpi attraverso un abile gioco di prospettiva,
filtrava un messaggio rassicurante: l'alpino era un baluardo insuperabile,
vigile in ogni momento e con qualsiasi tempo. Il nemico non era mai
raffigurato direttamente, ma la sua impotenza era implicita nella
rappresentazione prospettica: se l'alpino era il dominatore delle vette,
chiunque avesse voluto attaccare avrebbe dovuto partire dal fondovalle,
esponendosi a rischi evidenti e con esiti scontati. Ne deriva un'immagine
tranquillizzante, funzionale alle esigenze propagandistiche dell'Italia
postunitaria.
In questa autorappresentazione risultava sostanzialmente marginale la
fanteria "regina delle battaglie" ma anche corpo di massa, nel
quale era inquadrata la stragrande maggioranza dei soldati: poiché il
simbolo è tale in quanto proietta il particolare nel generale (e non
viceversa), la fanteria non proponeva un messaggio proprio, e nelle
rappresentazioni si associava piuttosto ad alcuni momenti della storia
patria di cui era stata protagonista. Il fante ricorreva così nelle
immagini delle battaglie più significative (Goito, Palestro,
Castelfidardo, San Martino) come complemento del quadro storico, in una
generica allusione allo sforzo collettivo della vittoria.
La varietà di messaggi proposti dai corpi dell'esercito trovava una
significativa esemplificazione nelle pagine deamicisiane del Cuore.
Descrivendo una parata militare in Piazza Castello a Torino, l'autore
coglieva gli elementi attraverso cui i corpi si legittimavano di fronte
all'opinione pubblica: lo slancio seducente della cavalleria, «con gli
elmi al sole, con le lance erette, con le bandiere al vento, sfavillando
d'argento e d'oro»; la saldezza composta degli alpini, «i difensori
delle porte d'Italia, tutti alti, rosei e forti, coi cappelli alla
calabrese e le mostre d'un bel verde vivo, color dell'erba delle loro
montagne»; il dinamismo dei bersaglieri, «coi pennacchi sventolanti,
come un'ondata d'un torrente nero, tra squilli acuti di tromba che
sembravan grida d'allegrezza»; l'anonimato gravido di storia della
fanteria, «la brigata "Aosta" che combatté a Goito e San
Martino, la brigata "Bergamo" che combatté a Castelfidardo,
compagnie dietro compagnie, migliaia di nappine rosse che parevan
ghirlande lunghissime di fiori color di sangue» (7) . 2.
La rappresentazione della guerra
A partire dal 1915, quando la guerra diventava realtà vissuta
coinvolgendo in forme dirette o indirette l'intera popolazione, i messaggi
acquisivano una valenza nuova: l'attitudine offensiva o difensiva dei
singoli corpi, che aveva avuto centralità sino a quando la guerra si era
presentata come ipotesi, perdeva importanza di fronte al problema più
urgente di rappresentare l'atteggiamento dei combattenti (e, di
conseguenza, della nazione) verso il conflitto. L'immagine proposta dai
media non poteva veicolare un tipo di combattente eroico e astratto,
troppo lontano dalla sensibilità delle masse, ma doveva ricorrere a un
modello di soldato modesto, che condividesse lo scarso entusiasmo della
popolazione nei confronti della guerra e, nel contempo, ne sollecitasse
l'impegno, allontanando disfattismi o tentazioni di rifiuto. Per un tale
processo di identificazione erano da escludere sia il mito del
bersagliere, che implicava profonda motivazione al combattimento, sia
quello della cavalleria, in palese contrasto con la realtà della guerra
di trincea, sia infine quello del fante, per la già ricordata difficoltà
a trasformare in simbolo un elemento generale. Tra gli stereotipi diffusi
negli anni precedenti l'unico che si prestava all'operazione era l'alpino,
non tanto per la sua funzione di difensore dei confini (l'obiettivo della
guerra, d'altro canto, non era la difesa) quanto per i tratti
comportamentali che potevano essergli credibilmente attribuiti: la
rassegnazione, il senso del dovere e del sacrificio, l'obbedienza, la
resistenza alla fatica e ai disagi, il rispetto dei superiori. Reclutati
tra una popolazione di montagna socialmente tranquilla, «conservatrice,
cattolica e monarchica, caratterizzata da una piccola proprietà contadina
poverissima ma incapace di ribellarsi» (8), gli alpini riflettevano nella
propria immagine di combattenti i caratteri dell'ambiente da cui
provenivano: nessun alpino aveva voluto la guerra e nessuno aveva
manifestato con gli interventisti, ma una volta iniziate le ostilità
avevano obbedito con disciplina senza porre domande, proiettando nella
vita militare i tratti della vita civile: «Perché gli alpini sono tanto
disciplinati? - scriveva Pietro Jahier - Perché loro padrone è la
montagna che è autorità assoluta. Dall'alto viene, indiscutibile, il tuo
bene e il tuo male. Perché gli alpini sono così rassegnati? Perché
considerano i mali della società come i mali della natura: son mali
eterni e imprevedibili i mali della natura e a nulla vale la ribellione»
(9). Dalla tarda estate 1915 sino a Caporetto (10) il modello di
comportamento più diffuso della guerra italiana, accettato e proposto
dagli stessi mass media ufficiali, era così il combattente obbediente e
sicuro, forte soprattutto nella difensiva, che bestemmiava la guerra e chi
l'aveva voluta, ma accettava con rassegnazione il destino e gli ordini di
superiori spesso amati: il modello del soldato-alpino, nel quale poteva
agevolmente riconoscersi la massa dei fanti-contadini che della guerra
erano protagonisti involontari.
I toni della propaganda mutavano nel 1918, quando la rotta di Caporetto
poneva in termini diversi il problema della guerra e dell'atteggiamento
dei combattenti. La leggenda secondo la quale Caporetto avrebbe suscitato
subito nuove energie, come il cosiddetto "colpo di sperone a un
cavallo di razza", è soltanto una leggenda patriottica, perché la
ripresa fu graduale e contrastata (11): nell'ultima fase del conflitto il
soldato italiano continuava a combattere con disciplina, fedeltà e una
certa efficienza (anche per l'esperienza accumulata e la relativa
disponibilità di mezzi), ma senza particolare aggressività né
entusiasmo. In questa situazione si può comprendere l'interesse del
Comando Supremo a proporre un'immagine nuova di combattente, tanto
bellicoso e determinato quanto l'alpino era stato obbediente e rassegnato,
contrapposto a quanto si era veicolato nel 1915-17.
Il modello era offerto dagli arditi, i reparti d'assalto costituiti
nell'estate 1917 presso la 2° Armata per iniziativa combinata del
generale Capello e del tenente colonnello Bassi: si trattava di un corpo
scelto, autosufficiente in campo tattico, reclutato tra gli elementi più
motivati e aggressivi, addestrato a ripetere l'assalto in ogni sua fase
sino all'acquisizione di un automatismo inteso come specifica
professionalità. I reparti d'assalto del campo di Sdricca «non erano
stati creati e sviluppati a integrazione della fanteria, quanto in
contrapposizione implicita ma evidente alla massa dei combattenti (..) Ad
esempio, la partenza per un'azione al fronte veniva accolta con
manifestazioni di gioia inconsuete e persino scioccanti in un esercito che
ormai aveva perso l'entusiasmo delle prime battaglie» (12). Si trattava,
in sostanza, di un modello positivo di combattente, che alla riluttanza
guerriera della massa contrapponeva una convinzione ostentata e che
proclamava il desiderio di fare la guerra e di farla bene.
Legittimato dai primi successi sulla Bainsizza, l'ardito offriva alla
propaganda ufficiale gli elementi necessari per la creazione di un mito
destinato a diffondersi rapidamente nel paese. L'assaltatore lanciato
contro i reticolati austriaci con il pugnale tra i denti e le bombe nel
tascapane veicolava un messaggio visivo di aggressività che si completava
con un particolare rituale, il grido "A noi" come forma di
saluto e di esaltazione di gruppo al posto del tradizionale "lp, ip,
ip, urrah", il mistico saluto collettivo con il pugnale snudato e
sollevato al cielo al posto del formale "presentat'arm", il fez
nero al collo. Attorno all'immagine del soldato audace si costruiva la sua
fama di terribilità: l'ardito non era «né l'eroe senza macchia e senza
paura, né il soldatino tutto patria e famiglia della tradizione
oleografica, ma l'eroe terribile, ricco di qualità così spiccate da
divenire vizi, l'accoltellatore di nemici, il soldato a cui erano concessi
strappi alla disciplina, ostentatamente animoso verso il carabiniere, il
simbolo tradizionale della legge e dell'ordine» (13). Come scriveva
Mussolini su Il Popolo d'Italia nell'aprile 1918, «l'ardito èl'uomo
votato alle imprese più arrischiate che ha cancellato dal proprio
vocabolario la parola "impossibile": egli si getta allo
sbaraglio, celere come il fulmine, inesorabile come il destino. Proiettile
umano lanciato a una meta certa, egli non conosce ostacoli. Al momento
fissato, sull'orlo della trincea nemica, si rizza e precipita: le bombe a
mano scoppiano spaventosamente e attraverso il fumigare acre, soffocante
delle polveri, guizza con sinistro lampeggio il pugnaletto inesorabile»
(14).
In questa chiave di lettura, il soldato del reparto d'assalto ben si
prestava a essere riferimento e modello nel clima di mobilitazione
patriottica dell'ultimo anno del conflitto, rispondendo al bisogno
dell'opinione pubblica e della massa dei combattenti di trovare appoggio
in un mito positivo di soldato vittorioso: «Il ruolo politico degli
arditi, assaltatori veloci ed efficienti, tutti votati all'offensiva e
alla vittoria, capaci di imporsi consisté nel rappresentare un
combattente di tipo nuovo, che fosse di stimolo all'Italia del
dopo-Caporetto» e, nel contempo, «servì a recuperare quel volontariato
politico morale che l'esercito aveva scarsamente apprezzato nel 1915, ma
di cui ora scopriva l'importanza» (15) 1.
Tra i corpi di nuova costituzione vanno ricordati soprattutto gli Alpini,
istituiti nel 1872.
2. Uno studio esaustivo sulle cartoline militari dell'età liberale non è
ancora stato fatto: qualche elemento di interesse si trova tuttavia in N.
Della Volpe, Le cartoline illustrate, SME, Rorna, 1980.
3. Sui messaggi militari nei libri di testo delle scuole elementari, cfr.
M. Colin, "Mythes et figures de l'heroisme militaire dans l'education
patriotique des jeunes Italiens (1860-1900)", in Actes de la journée
d'études franco-italianes, Editions de l'Université de Caen, Caen, 1984.
4. L'Illustrazione italiana dedicava alla cavalleria 21 copertine su 29
nel 1877, 16 su 25 nel 1878, 19 su 26 nel 1879.
5. G. Grassardi, Il Galateo del Carabiniere, Torino, 1879, p. 18.
6. Associazione Nazionale Bersaglieri, Cronaca e storia del corpo dei
Bersaglieri
1836-1986, Torino, 1986, p. 13.
7. E. De Amicis, Cuore, edizione a cura di Luciano Tamburini, Einaudi,
Torino, 1972, pp.
339-41.
8. G. Rochat, G. Massobrio,
Breve storia dell'esercito italiano dal 1861 al 1943, Einaudi, Torino.
1978, p. 94. Gli alpini erano l'unico corpo a godere dei reclutamento
regionale: le essenze di impiegare le truppe in servizio di ordine
pubblico avevano infatti indotto i responsabili militari a formare i
reggimenti di fanteria con reclute provenienti da due diverse regioni e in
servizio in una terza (cfr. al riguardo P. Pieri, Le forze armate nell'età
della Destra, Giuffré, Milano, 1962).
9. P. Jahier, Con me e con gli Alpini, La Voce, Roma, 1920, p. 132.
10. Indichiamo come momento di inizio di questa forma di propaganda la
tarda estate 1915 perché nelle prime settimane di guerra perdura il clima
di mobilitazione dei "radioso maggio": saranno gli esiti
negativi delle "spallate sull'Isonzo" a indurre i media a
proporre il modello del combattente-alpino, solido e rassegnato.
11. Cfr. P. Melograni, Storia politica della grande guerra, Laterza, Bari,
1969, . 459 ss.
12. G. Rochat, Gli arditi della grande guerra, Goriziana, Gorizia, 1990,
p. 38.
13. Ibidem, p. 75.
14. Uno qualunque [pseudonimo di Benito Mussolini], "Fiamme
nere", in Il Popolo d’Italia, 5 aprile 1918.
15. G. Rochat, op. cit., p. 74.
da Guerra e mass media.
Strumenti e modi della comunicazione in contesto bellico, a cura di
Peppino Ortoleva e Chiara Ottaviano, Liguori Editore, Napoli, 1994
|