1.Le truppe si adattarono ai pericoli e ai
disagi della nuova guerra. L’adattamento forse più difficile, quello
che consisteva nell’accettazione di una guerra «lunga », fu reso
possibile dal fatto che le truppe continuarono sempre a credere in una
guerra breve. Se alla fine del 1915 l’esercito avesse saputo di dover
trascorrere in trincea non uno, ma ancora tre inverni, probabilmente
quell’adattamento non sarebbe stato possibile. Accadde invece che alla
fine del 1915 quasi tutti previdero la pace per la primavera del ‘16. In
primavera attesero la pace per l’autunno, in autunno per la primavera
successiva, e così di seguito, finché, nell’autunno del 1918, furono
ancora in molti a ingannarsi, pensando che la pace tanto attesa non
sarebbe giunta prima del 1919* .
Durante le prime settimane di guerra, le truppe non sapevano neppure come
dovessero essere scavati i ripari nel terreno** . Poi impararono a
costruire i più complessi sistemi di camminamenti e trincee, nei quali
condurre un’esistenza da talpe, in mezzo al fango e alla sporcizia,
sotto il tiro dei cannoni nemici e dei «cecchini»*** . Infine si
adattarono a trascorrere settimane o addirittura mesi a breve distanza dal
nemico poiché riuscirono a vivere la vita di trincea come se si fosse
trattato di un’esistenza «normale», priva di eccessiva tensione od
emozioni. Per quanto possa parere strano, infatti, proprio la monotonia
costituì la principale caratteristica della vita di trincea. Padre
Agostino Gemelli, direttore del laboratorio psicofisiologico del Comando
supremo, ne trattò diffusamente in una serie di articoli pubblicati nel
corso stesso della guerra: «La vita di trincea —scrisse—, ad
eccezione dei periodi di azione difensiva (i bombardamenti) od offensiva
(gli attacchi), è così monotona e scolorita che determina un
caratteristico fenomeno, una specie di restringimento del campo della
coscienza» . Gemelli descrisse il paesaggio uniforme sempre presente
davanti agli occhi dei combattenti, limitato dalla visibilità delle
feritoie: «Il cannone ha distrutto ogni germe di vegetazione; tra la
propria trincea e quella nemica non vi è che un tratto di terreno
sconvolto, più o meno ampio, di là e di qua i reticolati, paletti
contorti, qualche straccio che il vento agita goffamente. un deserto. Non
un movimento. Gli osservatori, le vedette conoscono il terreno punto per
punto, in ogni minuzia. Un ramo d’albero smosso, una palata di terra
fresca, un sasso cambiato di posto sono avvertiti come grandi novità. A
quando a quando, nelle giornate di tregua, romba d’un tratto un colpo
secco di fucile, che desta, come per eco, altri colpi; a quando a quando
il rabbioso chiacchierare delle mitragliatrici. Poi di nuovo silenzio di
morte» .
In un ambiente così squallido ed uniforme la vita non poteva non
immeschinire, facendo assumere un’importanza gigantesca e sproporzionata
alle piccole cose. «Il soldato in trincea — spiegò Gemelli — pensa
poco, perché vede assai poco; pensa sempre le stesse cose. La sua vita
mentale è assai ridotta e niente la alimenta. Il suo spirito lavora senza
oggetto», e diviene «preda dei sogni, delle leggende, delle voci -più
strane ed assurde, delle false notizie».
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note:
*Ugo Ojetti, addetto al Comando supreme, scrisse alla moglie il 25 ottobre
1918: «Comincio a credere che la guerra durerà fino a primavera».
U.Ojetti, Lettere alla moglie, pag. 60
**Cfr. A.Monti, Combattenti e silurati, pp.46-47, ove si legge: “Le
trincee erano state costruite durante la mobilitazione occulta da
lavoratori borghesi, sotto la direzione del genio militare. Erano delle
buche profondamente scavate nel terreno per una lunghezza di cinque metri
all'incirca e per la larghezza di un metro. Vi si penetrava per una scala
a pioli colocata in posizione assolutamente verticale nell'apertura che
affiorava al livelo del terreno, e quando s'era dentro ci si trovava
nell'oscurità più completa, le feritoie erano inservibili sia perché
mancavano di campo di tiro, sia perché erano troppo alte per tiratori in
ginocchio, e troppo basse per tiratori in piedi. Gravava sul capo il tetto
fatto di travicelli assai sottili, sostenenti uno strato di terra che non
avrebbe fermato, non dico il più piccolo proiettile d'artiglieria, ma
neppure una pallottola di fucile. Una tana, una orribile tomba!”
** Il termine cecchino fu un neologismo della grande Guerra che stette ad
indicare il tiratore scelto austriaco. Secondo alcuni si trattava di un
diminutivo di «Cecco», da «Cecco-Beppe», come era comunemente chiamato
durante la guerra in Italia l’imperatore Francesco Giuseppe. L’Ojetti,
tuttavia, udì per la prima volta il termine «cecchino» con una sola
“c”, pronunciato da alcuni soldati romani i quali gli spiegarono che
esso era diminutivo di «cieco», poiché i tiratori austriaci dovevano
chiudere un occhio per prendere la mira. Cfr. U. Ojetti, Lettere alla
moglie,
2.Di regola, in trincea, la notte era
movimentata e il giorno tranquillo. Di notte, infatti, bisognava restare
all’erta: perché i soldati uscivano di pattuglia, perché il nemico
poteva tentare una sorpresa, perché le tenebre favorivano un eventuale
passaggio di disertori. «Nessuno in guerra poteva chiudere gli occhi al
sonno prima che dalle balze d’oriente sorgesse l’alba»[1] .
Di giorno, invece, si faceva poco o nulla. Non c’era la sveglia, e chi
voleva poteva continuare a dormire. Le prime linee erano piene di uomini,
ma su di esse regnava un assoluto silenzio. La distribuzione dei viveri
costituiva l’unico avvenimento della giornata[2].
Finiva per accadere che le più grandi preoccupazioni del soldato
riguardassero «in modo esagerato e quasi esclusivo» i suoi bisogni
materiali, come notò Gemelli. «Un nonnulla del rancio o dei servizi lo
preoccupa e lo turba» . Fenomeni analoghi si verificavano anche presso
gli altri eserciti e Georges Bonnet spiegò come anche sul fronte francese
la maggior parte dei poilus fossero assai meno occupati che nella vita
civile: «d’une manière générale — disse — on se laisse vivre».
Al fronte non soltanto si lavorava poco ma, secondo Bonnet, si cercava
anche di lavorare il meno possibile, al punto che l’ozio costituiva per
molti il solo elemento che consentisse di paragonare la vita militare a
quella civile senza troppi rimpianti[3].
Il gen. De Bono, il futuro «quadrumviro» della marcia su Roma, dichiarò
nelle sue memorie che «la trincea era considerata più una pena che un
dovere; poiché nessuna forza animatrice era in gioco nei lunghi giorni in
cui vi si doveva permanere»[4]. Il gen. Capello, comandante del VI corpo
d’armata, affermò, in una relazione del gennaio 1916, che uno degli
effetti più caratteristici della logorante vita di trincea consisteva in
una «forte depressione dei poteri volitivi, estrinsecantesi con incuria
nella persona, con l’apatia più spiccata anche per quanto può
concorrere al miglioramento del proprio benessere, e con un torpore
intellettuale»[5].
I combattenti che possedevano istruzione e cultura soffrivano più degli
altri per questa decadenza intellettuale. «Davvero che i nostri cervelli
si impigriscono nell’esercizio unico e limitato del compito giornaliero,
sempre eguale, e sempre terra terra», lamentava Giacomo Morpurgo in una
lettera del 16 gennaio 1916 (6) «L’indifferentismo m’ha invaso e non
mi preoccupo di nulla», confessava Gaetano De Vita in una lettera scritta
in quello stesso anno (7). Non un contadino di una valle sperduta, ma un
uomo politico nazionalista di primo piano come Gualtiero Castellini
scriveva dal fronte, fin dal 15 luglio 1915: «Niente posta, niente
notizie, un lento inebetimento per cui non si vive che della piccolissima
guerra delle nostre trincee. E' strano come sono diminuito
d’intelligenza. Ho rarissime nostalgie e percezioni da uomo che sa
ragionare e scrivere» (8). Il 30 ottobre 1915, dieci giorni prima di
essere ucciso in combattimento, lo scrittore Giosuè Borsi, ufficiale
volontario, scrisse alla madre: «Siamo in ozio da due giorni, mentre
continua il duello delle artiglierie, e intanto meniamo la vita più
seccante del mondo, quella delle trincee» (9). In un’altra lettera del
settembre, Borsi aveva già spiegato quale fosse lo stato d’animo dei
soldati sulla linea del fronte: «Siamo a pochi passi dal nemico, e la
guerra sembra lontanissima. S’inganna di molto chi crede che in prima
linea di fuoco, almeno lì, la guerra si veda. Chi si figura grida,
fucileria, si è fatto della guerra un’idea fantastica e convenzionale,
diversissima dal vero. Un’azione decisiva è molto più di questo, è un
macello infernale, uno sterminio, un orrendo uragano di ferro e di fuoco,
da cui si esce sbalorditi ed esterrefatti come da un cataclisma; ma
un’azione decisiva è rara, avviene soltanto nelle grandi avanzate, ed
è il risultato ultimo di una lunga e completa preparazione, che alle
volte dura dei mesi e di cui a noi non giungono che vaghi e rari indizi:
[. . .] un lavoro immenso, dalle linee colossali, che è compiuto con una
maestosa e terribile lentezza di settimane e settimane, e che ci sfugge
appunto per la sua vastità, sebbene ci viviamo in mezzo(10)
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1- A.GARAVENTA, In Guerra con gli
alpini, Milano 1935, p.48.
2- M. QUAGLIA, La Guerra del fante, Milano 1934, p. 77.
3- G.BONNET, L’ame du soldat, Paris 1917. Per la somiglianza degli stati
d’animo in ogni guerra di trincee, cfr. per la guerra civile spagnola
G.ORWELL, Omaggio alla Catalogna, Milano 1964.
4- E.DE BONO, La Guerra come e dove l’ho vista
5- L.CAPELLO, Per la verità, Milano 1920, p.199
3.Neppure le azioni difensive ed
offensive scuotevano il soldato dall’apatia e dal fatalismo nei quali
era immerso. Anzi, secondo le osservazioni di Gemelli, l’insensibilità
affettiva, l’apatia sentimentale, crescevano molto durante le azioni. Più
volte gli ufficiali avevano riferito di essersi stupiti perché,
conducendo le truppe all’assalto, erano restati insensibili vedendo
cadere i soldati che amavano 18. Il prof. Giulio Cesare Ferrari, fondatore
della « Rivista di psicologia », esaminò il fenomeno in un saggio del
luglio 1915. All’attacco — gli aveva confessato un soldato — «si
perde la testa, non si è più che macchine» 19. Nella stessa epoca un
sottotenente di Carrara scrisse al «Corriere della Sera »: «Io non so
più che diavolo subentri nei cuori, ma è certo che si è di una durezza
speciale. Vedi cadere colpiti per non rialzarsi soldati e colleghi, e vedi
altri balzare in piedi per scendere giù, agitando le braccia ferite, o
premersi un fianco o l’addome in mille posture di persone straziate, e
te ne rimani li, tranquillo, con solo un senso di noia per tutto quel
frastuono, per tutto quel turbinio. E ti scappa come detto verso gli
avversari: E smettetela un po’, noiosi! Se ripenso alla mia sensibilità
di quando ero borghese, non so come capacitarmi del mutamento» 20
A maggior ragione, apatia e fatalismo si manifestavano sotto l’infuriare
dei bombardamenti nemici, quando non restava che attendere, nella più
assoluta e passiva immobilità, il cessare del fuoco nemico: «Se le
facoltà individuali intorpidiscono nella monotona trincea — scrisse il
Marpicati — e il campo della coscienza si riduce a un cerchio minimo,
durante il bombardamento il fenomeno più generale nella massa è
addirittura l’arresto nel lavorio mentale. Si sta li; si accompagna con
tutto il nostro essere il sibilo e lo schianto dei proiettili; ma non si
pensa a nulla; l’orologio del cervello è fermo»
Da principio la guerra era stata combattuta con slancio, e il Ferrari
aveva riferito nella «Rivista di psicologia» le conversazioni da lui
avute con i primi feriti, affermando addirittura che tra di essi si
manifestava un «entusiasmo lirico per la bellezza dell’assalto». Lo
studioso aveva concluso, sulla base di quelle conversazioni, che
nell’esercito: « L’annuncio di prepararsi per l’assalto è accolto
sempre con gioia, anche se si sa che è in quei momenti che le
mitragliatrici fanno strage» 22.
Qualche tempo dopo Gemelli replicò al Ferrari dicendo che poteva dirsi
vero proprio il contrario. Naturalmente esisteva una minoranza di
individui entusiasticamente disposti al sacrificio, che andavano
all’assalto anche con gioia, ma per quanto riguardava gli individui
normali, soggiungeva Gemelli, prima di compiere un’azione pericolosa, il
soldato di frequente o brontolava o si abbandonava alle critiche; ciò non
significava che il soldato rifiutasse di accettare il sacrificio della sua
persona, tutt’altro; ma il coraggio del soldato non era necessariamente
un coraggio-attivo, un coraggio-emozione, giacché « per andare
all’assalto basta molte volte [. . .] che il soldato compia regolarmente
ciò che compiono gli altri, che accetti passivamente la sua condizione »,
che abbia, in altre parole, un coraggio-passivo. «questo lo stato
d’animo della maggioranza dei soldati, i quali fanno ciò che debbono
fare, ma si limitano al puro necessario» 23
18 A.
GEMELLI, Il nostro soldato cit., p. 86.
19 G. C. FERRARI, Osservazioni psicologiche sulla nostra guerra, Bologna
1916, pp. 12, 24 e passim.
20 Cit. ibid., p. 12.
21 A. MARPICATI, La proletaria. Saggi sulla psicologia delle masse
combattenti, Firenze id., p. 22.
22 G. C. FERRARI, Osservazioni psicologiche sulla nostra guerra cit., p.
14.
23 A. GEMELLI, Il nostro soldato cit., p. 91.
4.A giustificazione delle tesi esposte
dal Ferrari si deve qui ricordare come egli scrivesse sulla base di
informazioni raccolte nei primissimi tempi della guerra, quando le
condizioni morali dell’esercito si presentavano ancora assai buone. I
giudizi del Ferrari mutarono sensibilmente con il trascorrere dei mesi. In
uno scritto pubblicato nel marzo 1916 anch’egli constatò
l’affievolirsi degli entusiasmi e specificò che nei primi tempi, quando
un ufficiale chiedeva dieci uomini per un’operazione rischiosa se ne
offrivano volontari venti: «Oggi mi si dice che questo non avvenga più,
almeno nelle stesse proporzioni, per cui l’ufficiale designa quelli che
ritiene più adatti o un gruppo di soldati»24
Anche gli studiosi, dunque, confermarono il mutamento intervenuto nello
spirito delle truppe, ma occorre dire che proprio grazie a questo
mutamento la guerra poté essere proseguita. L’ardore garibaldino,
infatti, era scomparso e la guerra sembrava ai combattenti non troppo
diversa da un lavoro che occorreva in qualche modo portare a termine, o da
una calamità naturale che bisognava necessariamente accettare. Nonostante
ciò i soldati continuavano a combattere: il fatto è che essi potevano
continuare a combattere proprio perché l’eccitazione garibaldina era
svanita e la guerra cominciava ad essere vissuta come un evento che
rientrava in una « eccezionale-normalità ». Esisteva una assoluta
incompatibilità tra l’entusiasmo delle prime giornate e le avvilenti
condizioni della guerra presente, e chi avesse preteso di conciliare
l’inconciliabile avrebbe presto finito col logorare se stesso. I soldati
impararono a risparmiare le forze, a sopravvivere e quindi a combattere
distaccandosi il più possibile dai loro sentimenti ed affetti,
rinunciando alla loro personalità. «Il soldato cessa di essere lui; —
scrisse Gemelli — il suo io è un altro; la vita che egli conduce come
soldato è una parentesi nella sua vita; essa non è la sua vita, ma
un’altra vita alla quale annette scarsa importanza; quindi egli vive
estraneo a se stesso»
I soldati capaci di compiere un’analisi del loro io e dell’ambiente
che li circondava intuivano facilmente il nesso esistente tra questa
diffusa condizione psicologica e le possibilità di sopravvivere e
combattere. Secondo l’ufficiale alpino Eugenio Garrone quella «calma
preparazione al distacco dalla vita », che costituiva « uno degli stati
d’animo più strani» da lui notati al fronte, diventava per l’appunto
«una delle fonti più grandi di serenità e d’energia, una delle forze
più intime e convincenti»
Distacco dalla vita, spersonalizzazione, fatalismo diventavano addirittura
delle doti. Il veterano non si faceva troppe illusioni, era distaccato e
disincantato, aveva esperienza e si era adattato alle circostanze. Se non
si offriva volontario quando venivano ordinate azioni pericolose, era
perché non voleva forzare il destino o perché aveva sperimentato
l’inefficacia di tanti gesti eroici, dei quali si era così spesso
abusato nei primi tempi, anche nel corso di azioni insignificanti 27. Ma
quando l’ufficiale gli ordinava di uscire dalla trincea per andare a
collocare i tubi di gelatina sotto ai reticolati nemici, usciva anche lui
con gli altri, facendosi il segno della croce, ma badando anche alla
pelle. I più abili e fortunati, capaci di colpire il nemico risparmiando
se stessi, impararono il mestiere delle armi, esercitandolo come era
necessario esercitarlo nella nuova guerra. Gli imprudenti, i novellini,
coloro che non ebbero il tempo (o la volontà) di adattarsi alla guerra
furono raramente di qualche utilità: continuarono a combattere come si
era combattuto ai primi tempi, e andarono allo sbaraglio compromettendo
talvolta, oltre alla propria, anche la vita dei compagni e la riuscita
stessa delle azioni.
«Anche la guerra è un fatto di prudenza ed è certo che i soldati più
vecchi — scrisse con qualche enfasi un “vecchio” soldato, il pittore
e scrittore Luigi Bartolini — hanno la pellaccia più dura. Non muoiono
più. All’attacco ci vanno e balzano quand’è silenzio da esser sicuri
che non incomincia la sparatoria tanto presto, intorno. O se cantano le
mitragliatrici si fermano in tempo, si buttano come morti, a terra: si
rialzano quando il macinino da caffè sta zitto. I novellini soldati
vanno, invece, alla baraonda; li diresti — a osservarli attentamente da
un osservatorio di linea — vogliosi di far presto, prima che si può a
buttar via la vita non ancora acciaccata dagli strapazzi. Il torto loro è
d’essere sicuri di morire alla prima battaglia»
24 G. C. FERRARI, Osservazioni
psicologiche sulla nostra guerra cit., p. 14.
25 A.GEMELLI, Il nostro soldato cit., p. 103.
26 G. e E. GARRONE, Ascensione eroica, Milano 1919, p. 165.
27 A. GEMELLI, Il nostro soldato cit., p. 92.
28 L. BARTOLINI, Il ritorno sul Carso, Milano 1930, pp. 136-37, opera
ripudiata dall’autore. Cfr. [A. F. FORMIGGINI Chi è? Dizionario degli
italiani d’oggi, Roma 1936, p. 64.
da Piero Melograni, Storia politica
della grande guerra, ed Universale Laterza, Bari 1977, vol primo
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