1. Pietro Balsamo
(nato
a Margarita, classe 1894, contadino)
Io nel 1915 avevo vent'anni, ero in fanteria, 52° reggimento, Brigata
Garibaldi (..), sono stato al Col di Lana, Valle San Pellegrino, Val
Cordevole, le Tofane, sul fronte della 4° armata. Poi di lì abbiamo
fatto la ritirata di Caporetto, siamo venuti al Piave, Monte Pallone,
Monte Pertiga, Monte Grappa. Poi il 17 aprile ci hanno presi e portati
diretti a Bligny, a Verdun, perchè eravamo in subbuglio, c'era ribellione
tra noi, non volevamo più saperne della guerra.
Che cosa mi è passato per la testa quando era scoppiata la guerra del
'15? Eravamo innocenti totali, non sapevamo perchè facevamo quella
guerra, capivamo proprio niente. Ne parlavamo solo tra noi, tutta gente
che non avevamo scuole, che non leggevamo i giornali ...Io a scuola avevo
imparato l'alfabeto
e a coltivare i rapanelli e il prezzemolo, ho ancora quel libro sul quale
abbiamo studiato sei tra fratelli e sorelle, ecco è questo il libro, il
terzo che l'ha adoperato sono io, l'avevano fatto rilegare per me. Eh, la
guerra! sì, ce n'erano di imboscati, tanti. Chi faceva il bandito, chi
scappava in Francia. C'erano di quelli che si rovinavano la salute per non
andare in guerra: prednevano il decotto di tabacco, si mettevano delle
cose strane nelle orecchie. Ho dei compagni che si sono ammazzati al
fronte, quando le cose erano serie.
(pag.
8)
2.
Giacomo
Martinengo (nato a Margarita, classe 1884, contadino)
Poi è scoppiata la guerra. Ero già sposato, avevo tre figli. La guerra
per noi è stata un disastro, e per la campagna ha significato farsi un
po' di soldi. La gente di camapgna, nel 1915, ha capito che il prezzo
delle bestie incominciava ad aumentare e il prezzo delle painte anche.
Ecco, i proprietari di terra hanno capito questo, ed erano quasi contenti
della guerra. Ma poi hanno capito che dovevano mandare i figli in
guerra...
Un mio fratello si è tolto i denti, altri pochi di Margarita si sono
fatti togliere i denti, li avevano già gusti! Uno di Fossano si è
avvelenato con il piombo, è morto. Un altro, era meridionale, si è fatto
fare un'iniezione di petrolio, è diventato tutto storto, è finito in
galera.
Mi hanno richiamato nel 1916 e messo in fanteria. dopo tre mesi che ero in
trincea sono rimasto ferito al collo, una pallottola m'ha bucato da parte
a parte. Eh, quella guerra... Avessi avuto la forza li ammazzavo tutti io
gli italiani, tutti, non ci davano nemmeno da mangiare in trincea. Sul
colle Briccon, vicino a Trento, abbiamo fatta tanta di quela fame,
arrivava più niente, nemmeno i sigari e le sigarette. Che cosa dicevano i
miei amici contadini in trincea? Chi scriveva a casa di fare dire messe,
chi pregava, ognuno aveva 'l so trigu (il suo metodo come scaramanzia)
. Io bestemmiavo. Non era mica una guerra ..., niente vestiti, scalzi, i
piedi gonfi, pien'd pioi (pieni di pidocchi) , niente acqua da
bere, il mangiare una volta al giorno quando arrivava, quando
l'artiglieria non sbatteva giù i muli. Non si poteva alzare la testa se
no gli altri sparavano, tapun tapun, era dificile salvare la pelle.
(pag. 16-17)
3.
Giovanni
Toselli (nato a Peveragno, classe 1887, muratore)
Poi scoppia la guerra, che disperazione! Che cosa mi è passato per la
testa? Ma nemmeno un soldato era convinto di fare quella guerra, partivamo
tutti malvolentieri.
uno da sposare è diverso ... ha nessuno dietro. Noi avevamo famiglia,
dovevamo lasciare il lavoro. Solo qualcuno volontario voleva fare la
guerra, per fare carriera. Noi siamo andati in guerra per forza. Tanti qui
di Peveragno prendevano porcherie per non partire, e ne sono morti...
Partito il 31 luglio 1915, e tornato nel dicembre del '18. Sono stato
nella conca di Plezzo, con la brigata Aosta, siamo andati a occupare
Plezzo con la fanteria, noi alpini a far coraggio alla fanteria. Su a
Plezzo eravamo su una posizione avanzata che ci prendevano da tutte le
parti, quota 900, dall'alto ci buttavano giù le pietre, da una parte
sparavano col cannone a zero, e dall'altra ancora con le mitraglie. Non ci
arrivava più da mangiare, e sono venuto a pesare 45 chili. Anche un certo
Salimbeni di Pradleves, che pesava 86 chili, è venuto a trentasei chili.
C'era un certo bosniaco, un volontario, che viveva in una galleria nella
roccia da solo, e aveva cinque fucili e una mitraglia, e chiudeva sempre
il passaggio alle nostre corvèes di viveri. Allora il capitano mi ha
mandato a prendere quel merlo, mi ha dato diciotto uomini, ci siamo tolte
le scarpe, ci siamo fasciati i piedi nelle fasce mollettiere, abbiamo
montato un trucco e l'abbiamo sorpreso. Era un giovane, aveva per due mesi
viveri e munizioni. Uno l'ha preso per i piedi e l'altro per le braccia,
l'abbiamo buttato giù da un burrone, a momenti ammazza il nostro capitano
sotto, a momenti gli piomba addosso.
Poi è venuta la ritirata, la nostra divisione ha resistito due giorni
nella conca di Plezzo, i nostri 149 prolungati sparavano già verso le
retrovie, all'indietro, allora si salvi chi può, siamo scappati, nella
nostra vallata c'erano due metri di morti...
Eh, l'abbiamo vinta quella guerra, ma l'abbiamo anche perduta. La
statistica dice che sono di più i tubercolotici tornati dalla guerra del
'15-'18 che i morti di quella guerra. Io ho preso il gas iprite sul Montello, e come sono tornato a casa, dopo il primo giorno di festa, ero
già malato di polmonite, ho tribolato due anno. E mi è toccato
ricominciare dal principio e vivere su due giornate e mezzo di terra e il
resto in affitto perchè non trovavo lavoro come muratore, nessuno faceva
ancora costruire.
(pag.30-31)
4. Giuseppe
Daniele, nato a Cherasco, classe 1887, contadino
Ma poi è venuta la guerra, io ero di terza categoria come capofamiglia.
Hanno perduto '1 Ludin, una montagna, forse era del 1916, allora ci hanno
richiamati anche noi di terza e siamo andati a riprendere quella montagna,
'l Ludin. Poi al Crestarossa, altra montagna del Veneto, altra battaglia.
Poi l'Ortigara, nel Trentino, ah matot...', non so come sono riuscito a
togliermela, a mucchi i morti, hanno cominciato a salire in mattinata da
Bassano i tedeschi e ci hanno preso su un fianco, ne hanno fatto una
strage.
Che cosa pensavamo noi di quella guerra? Non avevamo nessuna voglia di
farla, per forza andare. A noi non interessava la guerra, noi eravamo
poveri diavoli, a noi non conveniva. Interessava a qualcuno per farsi i
soldi, ma non a noi. « Andiamo là a perdere tempo e ancora a farci
ammazzare», ecco che cosa ci dicevamo.
E’ sull'Ortigara che ho visto la guerra piú brutta. Là i colpi di
mortaio cadevano e facevano tremare la terra. Una notte siamo usciti dalla
trincea, ero con la 15° compagnia del battaglione Borgo San Dalmazzo.
Abbiamo raggiunto una valletta che era piena di morti. Abbiamo costruito
una lunga morena con i morti, abbiamo tolto i morti e ci siamo ammucchiati
al loro posto. Poi al mattino, alle sette, arriva l'ordine di partire
all'assalto. «Fuori», grida il capitano. «Prima esce lei, poi usciamo
noi», gli dicono i soldati. Le mitraglie dei tedeschi sparavano a gran
forza raso terra. Esce il capitano, esce la prima ondata di alpini, e
muoiono tutti. Io ho tardato un attimo: «Se ho da morire muoio qui», mi
sono detto. Poi la nostra artiglieria ha cominciato a bombardarci, e anche
i tedeschi hanno preso a bombardarci. I nostri ci bombardavano per farci
uscire dalla trincea, per spingerci all'assalto. Neh che guerra falsa! In
quel batibói (scompiglio) ne sono morti migliaia e migliaia. Mah! Quante
volte mi sono nascosto sotto i morti per ripararmi dalle schegge degli
shrapnel!
Com'erano i nostri ufficiali? Ce n'erano dei buoni e dei cattivi. I
cattivi ogni tanto li trasferivano di reparto perché se no i soldati li
ammazzavano. Il soldato stava sempre zitto, ma l'ufficiale cattivo aveva
paura di essere ammazzato. Non ci siamo mai ribellati, non eravamo mica
capaci di ribellarci. Non avevamo nemmeno piú fame in trincea, tanta era
la paura, tante erano le sofferenze. Avevamo sempre tanta sete. Oh, dell'Ortigara
mi ricordo sempre.
Poi una volta sono andato avanti con trenta esploratori, c'era stato un
combattimento e ne avevo visti a cadere tanti, a cadere giú come le
mosche. Siamo finiti in una buca, gli austriaci ci hanno accerchiati,
allora abbiamo alzato un fazzoletto, siamo caduti prigionieri. Anche gli
altri della mia compagnia sono caduti prigionieri.
1 primi giorni siamo vissuti con un mestolo di brodaglia. Poi in treno ci
hanno portati in Ungheria. Rape alla mattina e alla sera, nient'altro. Piú
niente pancia avevamo, ne sono morti tanti dei nostri, tutte le mattine
erano trenta o cinquanta i nostri morti: tanti morivano senza male, come
un pollastrino quando ha la malattia. Facevamo cuocere le bucce delle
patate, delle rape. Io vivevo a cicoria. Mi dicevo: «Cosí non posso piú
andare avanti».
Un giorno arriva l'ordine: «Chi vuole andare in Galizia? Occorrono
sessanta uomini a lavorare in una fattoria di millecinquecento giornate».
Allora mi sono trascinato in fila. L'indomani siamo saliti sul treno, un
giorno e una notte, siamo arrivati a Leopoli, vicino alla Russia. Lí sono
andato un'altra volta a chiedere la carità, l'avevo chiesta da piccolo la
carità e l'ho chiesta da alto, andavo a bussare alle porte delle case, mi
dicevano: «Ceta, ceta, aspetta, aspetta», mi davano una fetta di pane
nero o una patata.
Una volta ho imbattuto in una casa dove c'era un medico, mi ha dato una
bella pagnotta di pane bianco, mi ricordo, l'ho baciata quella pagnotta
prima di mangiarla. Mi dicevo: «Oh, 'sta volta mi riprendo un po ». L'ho
mangiata, non mi ha nemmeno toccato le budella tanto ero vuoto. « Se
veniste in due a segare la nostra legna ... » mi ha detto il medico. « Sí
sí, io chiamo un mio compagno». Alla sera siamo andati là a segare la
legna, un'ora e mezza, e finito il lavoro ci ha dato una buona minestra di
orzo. E dopo la minestra una bella e buona polenta. Noi mangiavamo tutto.
Allora ci ha fatto preparare ancora una purea di patate. Iste, non
riuscivamo piú a tirare il fiato. Cristolu, avremmo mangiato fino a
scoppiare.
L'indomani siamo andati a lavorare per la prima volta alla fattoria. Là
c'erano delle pentole di patate bollite, e noi giú a mangiare. Un mio
amico aveva già la pancia gonfia, e io a dirgli: «Stai attento che crepi».
E’ rimasto lí con una patata in bocca, morto, si sono strappate le
budella, le nostre budella erano fini, sottili, patite.
Nella fattoria piano piano mi sono ripreso con le forze, ero contento, mi
sentivo rivivere. Poi è finita la guerra e il padrone della fattoria
voleva che restassimo là: «No io non ci sto in questi paesi, a mangiare
patate e cavoli». Ah, era brava gente, contadini, bravi sicuro. Mi
ricordo sempre, una volta ero seduto lungo una strada e mangiavo una
patata, è passata una donna, mi ha guardato, e si èmessa a piangere. Eh,
era piú duro fare della fame che fare la guerra! Tra i prigionieri i piú
smilzi resistevano, ma i piú grossi si sgonfiavano e morivano tutti.
Quando sono tornato a casa ho trovato la solita miseria: ero pulito, a
zero. Gli altri si erano fatti i soldi e noi a zero. Mia madre ormai era
sola, era vissuta di stenti, aveva tirato avanti con il mio piccolo
sussidio, l'avevano truffata col sussidio. La «Combattenti» era
d'accordo con il Distretto, avevano rubato cinquanta lire a mia madre, a
ogni madre di soldato avevano rubato cinquanta lire, l'ho proprio
constatato io quando sono tornato dalla guerra, e le ho pretese quelle
cinquanta lire. Cbe fregun... .
Ho subito ripreso a fare il manovale nelle cascine a una lira al giorno.
All'estate andavo col ferro a tagliare il grano, le giornate erano lunghe,
due lire al giorno, con due lire si comprava giusto una camicia. Lavorando
guadagnavo i soldi per comprare la crusca per i maiali, e mantenevo mia
madre. Poi sono riuscito a comprare una vacca, poi un'altra, ho affittato
un po' di terra, cudíu la lervaia (rispettavo la briciola). Nel
1924 mi sono sposato e ho avuto quattro figli.
(pag. 38-41)
5. Giovanni
Allinio, San Michele di Cervasca, classe 1895, contadino
A contarla in fretta sono andato da permanente nel 21° artiglieria da
campagna, con Michel 'd Cicu, Vincens 'd Magnet, Bepi e altri. Mio
fratello Trumlin era in America del nord, San Francisco di California, io
ero di terza categoria. Ventidue giorni a Piacenza, poi mi trasferiscono
al 63' fanteria a Salerno. Là divento l'attendente del maggiore
comandante. Ma un brutto giorno mi fanno la visita medica, mi vestono
subito per il fronte. lo sto piangendo quando arriva il maggiore: «Cosa
hai combinato? - mi dice, - ti avevo detto che in mia assenza non dovevi
lasciarti comandare da nessuno, non dovevi passare la visita medica.
Adesso non posso piú fermarti, devi andare al fronte». Però il maggiore
mi insegna bene: « Metti i sigari in un bicchiere d'acqua, fatti furbo,
fatti venire il cardiopalma ».
Raggiungo Monfalcone, poi il Monte Sei Busi, un affare, quanti morti...,
la terra della trincea era rossa come le tegole, argillosa, avevamo sempre
la faccia sporca. Vado due volte all'assalto, uno spavento cosí... Gli
austriaci erano a pochi metri. L'aiutante maggiore ci dice: «Coraggio,
che all'una si va all'assalto. C'è il caffè e poi c'è l'assalto». Ma
Dio Signore, dopo la prima golata il caffè non va piú giú, sentiamo già
bum, è l'Italia che apre il fuoco, il Monte Sei Busi che diventa una
grande fiammata. I tedeschi urlano: «Urrà, urrà». Buttano i razzi e si
vede un ago per terra. Noi stesi fuori della trincea facciamo i morti. Poi
il razzo si spegne e avanziamo di due metri. I reticolati mi imprigionano
la giacca, ho le mani che sanguinano come una capra. Questa è la guerra
della fanteria! Eh, era tremendo andare all'assalto; « Siamo già tutti
morti», ecco cosa pensavamo in quei momenti. Piangevamo. Solo i piú
anziani, come Maté 'dla Bibia, non si disperavano tanto, loro erano già
piú stagionati, piú scaltri. A noi il cuore saltava.
Allora ho incominciato a chiedere visita, mangiavo un sigaro e bevevo un
bicchiere d'acqua. E’ cosí che ho ottenuto sei mesi di convalescenza.
(..) Ma dopo un mese e mezzo che ero a casa sono venuti i carabinieri a
cercarmi, ho dovuto raggiungere Salerno. Là il mio maggiore mi ha di
nuovo voluto come attendente, mi ha fatto dichiarare inabile al servizio
al fronte. Accompagnavo i suoi due bambini a spasso, tenevo la casa
pulita, servivo sua moglie.
(pag. 101-02)
6. Bartolomeo
Ristorto, San Michele di Cervasca, classe 1893, contadino
Quando ho avuto diciotto anni ho pensato di andare nei carabinieri. Mio
padre mi ha detto: «Ah, è mica il tuo mestiere». Allora ho pensato di
andare in America, e mio padre: «Va', ma io i soldi non te li do».
Sempre lavorando di qua e di là è arrivato il tempo che sono partito da
soldato, era il 10 settembre del I9I3- Mio fratello era già sotto, era
caporalmaggiore degli alpini in Tripolitania. Mi hanno messo nei
granatieri a Roma. [... I.
Il I7 maggio del 1915 sono arrivato a Palmanova, sempre con il 1°
Granatieri. Era già da un po' che predicavano la guerra. A noi ci
sembrava di andare a nozze, noi non ,sapevamo che cosa era la guerra.
[...I. Poi dalle parti di Cividale viene a passarci in rivista D'Annunzio,
un poeta.
Dall'altra parte del fiume, proprio di fronte a noi, c'era una garitta con
gli austriaci della dogana. Il mattino del 24 maggio arriva un capitano
tutto armato e ci dice: «Ragazzi, da stassera a mezzanotte la guerra
incomincia. Sentirete un colpo da 305 sparato da Palmanova, è il segnale
della guerra». Allora io grido agli austriaci della dogana: «Cosa fate lí?
Aspettate che vi facciamo prigionieri?» E loro mi rispondono: « Dove
vuoi che andiamo? Se abbandoniamo il posto ci arrestano». (..) .
Poi siamo arrivati a Monfalcone, tutte le luci erano ancora accese, gli
austriaci non credevano che noi arrivassimo presto cosí. L'indomani
mattina, con il mio comandante di battaglione, Manfredi, siamo andati a
occupare una collina. Ma la nostra artiglieria si è messa a sparare con i
149, non ho poi mai piú visto la nostra artiglieria a sparare bene cosí,
ne ha ammazzato un bel numero dei nostri! E come se non bastasse, il
comandante dell'artiglieria è poi venuto ad aggredire il nostro
comandante di battaglione, a fargli la colpa di non averlo avvertito della
nostra avanzata. Allora il mio comandante di battaglione ha tirato fuori
la pistola e voleva ucciderlo, e anche il comandante dell'artiglieria ha
impugnato la pistola e voleva uccidere il mio comandante di battaglione!
Dopo sei mesi siamo saliti sul Sei Busi. Lí sono andato diverse volte
all'assalto. (..). Poi sono caduto prigioniero ad Asiago, perché gli
ufficiali del Sabotino ci hanno tradito. (..) Appena dopo la cattura
incontro un caporalmaggiore di Trento, vestito da austriaco, che mi chiede
in regalo una delle mie stellette. Mi dice: «Non voglio sapere che cosa
fai a casa di professione, ma ascolta me. Dichiara che fai il contadino,
anche se sei un maestro. Se non vai a lavorare in campagna ti spetta la
fame. In campagna invece una patata o un uovo riuscirai sempre a
rimediarlo». Era il 31 maggio del 1916.
Alla sera ci chiudono in un forte. L'indomani riprendiamo il cammino, la
gente di Trento ci sfotte, ci grida: « Italiani avanzate, state occupando
Trento ». Poi c'è un bel paese, un posto di villeggiatura. Lí un
generale tedesco con il chiodo ci parla in italiano, ci dice: «Italiani,
la guerra pér voi è finita. Fate il vostro dovere da prigionieri come lo
facevate in tempo di pace».
In un campo di concentramento vicino a Vienna restiamo fermi quaranta
giorni. Poi con due russi e dodici italiani mi trasferiscono in un paese
poco lontano. Una fame, parlavamo solo di mangiare. Lí nel nuovo paese
arrivano i padroni con il sindaco, e ogni padrone deve scegliere un
prigioniero. Il padrone che mi sceglie è un vedovo con tre figlie, la piú
vecchia delle figlie è gobba. Ho appena raggiunto la sua casa che ci
sediamo tutti attorno al tavolo, io non capisco una parola, loro parlano
ed è come se balbettassero. Poi una delle ragazze sparisce, e ritorna con
tre uova sbattute e un pezzo di pane, oh cristu! Appresso un bel bicchiere
di vino. Poi mi dice: «Tu nicht rauch? » ma io non capisco. Allora si
mette un dito in bocca, sparisce di nuovo, e ritorna con un pacchetto da
cento sigarette.
Dopo cinque mesi incomincio a capirli già nel parlare. Come la Russia ha
fatto quel bataclan (sconvolgimento), quando in Russia c'è stata la
rivoluzione, gli austriaci hanno preso le truppe dal fronte russo e le
hanno mandate sul fronte italiano. Allora arriva una lettera al mio
padrone, che se mi lascia libero mandano a casa suo figlio. lo sono deciso
a scappare per la campagna, ma il mio padrone mi dice: «No, no, non
finirai in un campo di concentramento, non avere paura. lo so già chi ti
prende». Alla sera arriva uno, un consigliere del paese, un uomo di
settantadue anni che ha cinque figli sotto le armi. Sua moglie tiene il
letto da molti anni. Ha una figlia del mio tempo. Vado con lui, è un
brav'uomo, mi paga tre corone al giorno, e poi mi regala altri soldi di
premio. Io lo dico, gente brava come questa io non l'ho mai piú trovata.
Il mio nuovo padrone si chiama Vosna Leopold, e sua figlia.Anna. (..).
Il 3 novembre 1918, con un carro carico di fieno, sto andando verso
Vienna. Un soldato che porta a spalle un sacco di patate mi chiede di
poter salire sul carro. Mi dice « Krieg fertig, la guerra è finita».
A Vienna dormo come al solito nell'osteria. Sento a dire che gli italiani
sono già.a Gratz. L'indomani mattina vado a scaricare il fieno e poi
prendo la strada del ritorno. Il fiume che attraversa Vienna è il
Danubio. C'è un ponte, c'è la ferrovia, e poi una grossa caserma. Sento
che i soldati austriaci stanno rompendo tutti i vetri della caserma. Poi
vedo un soldato austriaco che arriva sulla piazzetta, tiene un maggiore
per il collo, il maggiore sanguina dal viso. «Oh cristu, - mi dico, -
'sta volta ci siamo». «Plasmi steno, plasmi steno, - mi grida il
soldato, - fermati, fermati». Io ho i due cavalli che tirano, stento a
fermarli. Quel soldato mi porge un fucile, mi dice: «Signori tutti kaput.
Ci hanno fatto fare la guerra. Noi eravamo amici e ci hanno mandati al
massacro. Li ammazziamo tutti i signori ». Vuole che io prenda il fucile,
vuole che mi unisca ai ribelli per fare la rivoluzione. Ma io scappo via,
li faccio di corsa i diciassette chilometri che mi separano dal paese.
Come arrivo al paese incomincio a gridare: «Fioi (ragazzi), c'è la pace.
E’ finita la guerra, non togliete piú le patate». Arriva il sindaco e
ci dice: «Ragazzi, siete in piena libertà. Non abbiamo piú né esercito
né niente. Ascoltate me. Nelle campagne tutti sparano, ammazzano di qua e
di là. Restate ancora qui con i padroni per qualche giorno ». Il 10
novembre è festa. Organizziamo un ballo con la gente. (..). Poi decidiamo
di partire. Io sono già lungo la strada quando mi raggiunge Anna, che mi
dice: «Volevo ancora salutarti, mia madre ti manda dodicimila corone per
il viaggio ».
A Vienna saremo centomila i prigionieri liberi. La città è deserta, non
si vede un solo borghese, tutte le persiane sono chiuse. [... I.
Raggiungiamo Lubiana, e dopo venti giorni arriviamo a Trieste.
Il 24 dicembre torno a casa con quindici giorni di licenza. Dico a mio
padre: « Vúghes? (vedi). Se andavo in America invece di passare questi
anni sul Carso... E intanto mi sono salvato per grazia di Dio, e sono
tornato a casa carico di pidocchi. Se andavo in America potevo avanzare un
po' di soldi, non di pidocchi».
Finisce la licenza e devo raggiungere Fiume. La città è di nessuno, c'è
D'Annunzio, ci sono i francesi, tutti vogliono Fiume. Lí siamo italiani
contro italiani. Vede la politica com'è? Di sera facciamo le ronde, poi
arriva il plebiscito. Allora il nostro colonnello Dina, un milanese, un
brav'uomo, ci dice: «Domani mattina andrete a bloccare quella strada, non
alzate le baionette, ma se non si fermano li picchiate nelle gambe».
L'indomani arrivano dieci navi di italiani, di borghesi, che gridano: «Viva
l'Italia». I soldati fiumani hanno un nastrino con su scritto « italiani
o morte ». Quando la faccenda di Fiume finisce il colonnello Dina ci
dice: « Io ho fatto tutta la guerra, sono rimasto ferito sul Sabotino.
Per conto mio chi ha fatto la guerra siete voi, dal soldato al sergente».
Ci regala cinquanta lire a ciascuno, ci dice: «Ricordatevi dei colonnello
Dina».
A casa mi aspetta la solita vita.
(pag. 11-118)
7. Giuseppe
Bruna, nato a Vignolo, classe 1898, contadino
Avevo nemmeno diciotto anni
non mi facevo ancora nemmeno la barba, e mi chiamano a fare il soldato
negli alpini. Vado a finire a Ala di Trento, sul Monte Sugno, in guerra,
di rincalzo. Eh, la guerra! Tra noi dicevamo: « Non andiamo mai piú a
casa, la guerra non finirà mai piú, è la fine del mondo, che il diavolo
si porti via tutto». Se potevamo avere un fiasco di vino in tre o
quattro, «Sa, beviamo una volta», e cercavamo di dimenticare. Noialtri
avevamo l'interesse della guerra? Gli ufficiali ci parlavano della patria.
Noialtri quando potevamo avere la licenza e venire a casa la patria era
quella lí. [..]
Poi è venuto l'armistizio, ero a Feltre con la 59' divisione, alle tre
del pomeriggio è arrivato un portaordini con la bandiera bianca. Vicino a
una chiesa c'era l'hotel, la mensa degli ufficiali tedeschi. Siamo saliti
al secondo piano con le corde, abbiamo portato abbasso la pianola, poi due
giorni di festa. Arrivavano i camion pieni di fiaschi di vino, nemmeno con
la baionetta si riusciva a tenere indietro i soldati; «La guerra è
finita», gridavamo, e ballavamo tra soldati, una gran festa, una festa
come la nostra patronale.
Poi quaranta giorni a raccogliere nei campi le armi abbandonate, le
munizioni, i cappelli di ferro, tutta la porcheria. Poi mi hanno spedito a
Fiume contro D'Annunzio. D'Annunzio aveva conquistato Fiume con i suoi
arditi e veniva da noi a rubare i cavalli e le artiglierie che noi
dovevamo difendere, tre miei amici sono morti lí, contro D'Annunzio. La
guerra era finita e D'Annunzio faceva il caporione, faceva come
l’imperatore di Fiume. Tra noi dicevamo: «Ma cristu, la guerra è
finita e quel rompiballe di D'Annunzio ci fa ancora sparare addosso».
(pag. 119)
8. Giovanni
Battista Giraudo, Vignolo, classe 1893, contadino
(..) Lavoro quattro anni al cemento. Poi scoppia la guerra, i giornali che
stampano a San Francisco «Il Popolo» e «L’Italia» dicono che noi
italiani dobbiamo rimpatriare. Combiniamo in tre o quattro, il viaggio è
pagato, ci diciamo: «Torniamo in Italia, sarà mica la fine del mondo».
Ho diecimila lire di risparmi.
Nell'agosto del 1915 ci imbarchiamo, saremo tremila sul bastimento, siamo
venuti quattrocentomila italiani dall'America a fare la guerra in Italia.
Napoli è tutta imbandierata per il nostro arrivo. Il 4 settembre sono già
arruolato a Genova nelle salmerie. Nel gennaio del 1916 sono già a Cívidale
con il 1580 reggimento della brigata Liguria, poi sugli altipiani di
Asiago, poi al Pasubio, poi sul Monte Corno. (..). Mah, eravamo carichi di
pidocchi, mangiavamo un po' di risetta' con la torreggiana, una porcheria.
Dovevamo fare il nostro dovere, se non andavamo avanti gli ufficiali ci
sparavano. Infine il 4 novembre del 1918 la guerra finisce e torno libero.
Ma a casa non c’è lavoro. Allora vado di nuovo in America.
(pag. 126)
9. Giovanni Caranta,
nato a Desertetto di valdieri, classe 1896, contadino
Se
ho fatto la guerra del 'I5? Eh,
ne ho fatto io dei sacrifici per l'Italia!
Trenta mesi di linea. Mi
hanno chiamato avevo diciannove anni.
Prima col 2° alpini, battaglione Argentera; poi al 6°
alpini con il battaglione sciatori Monte Pasubio, e poi al Cividale dell'8°
alpini. Cercavamo solo di salvarci.
La prima volta che sono andato in linea era il 28 maggio del 1916,
sul Trentino, sul Monte Fiore, c'era la ritirata mentre Asiago
bruciava. Noi eravamo quattro
battaglioni su una posizione in alto, loro sette divisioni, quattromila
uomini contro sessantamila, li abbiamo tenuti. Del mio battaglione
Argentera eravamo duecentoventisette fucili in linea, otto giorni dopo
siamo andati a riposo in ventidue, il resto tutti morti e feriti.
Eh, in guerra ammazzano!
E l'Ortigara? Volevano farci
prendere quella montagna con centocinquanta uomini.
E allora avanti. Era
un'ora prima del giorno, «compagnie affiancate, poi plotoni, poi squadre
sparpagliatevi e andate avanti». lo sono arrivato addosso a uno che ha
fatto un grido, era un austriaco che aveva ancora piú paura di me, ho
fatto 'n girabarachin' [Una giravolta (una capriola)], mi ha
sparato ma non mi ha colpito.
E sul Monte Fiore? Abbiamo avuto un
attacco serio, l'indomani c'era la nebbia, siamo poi usciti a contare gli
austriaci morti, erano piú di trecento. In
questo attacco ero vicino a un mio amico di Valdieri, Audisio.
E' arrivato un colpo di artiglieria che mi ha coperto di terra.
Audisio mi ha dissotterrato, ero ferito alla testa, il sangue che
colava. Sono andato all'infermeria e mi hanno messo 'n tacun' [Un
rappezzo]. Nell'infermeria c'era il capitano Nasali Rocchia steso su una
barella, e accanto il capitano Giordanengo di Roccavione che lo toccava,
che gli diceva: «Oh, povero Nasali. Te
l'avevo detto che non ci salvavamo piú qui».
Discorreva con Nasali morto!
L'indomani sera hanno portato anche il capitano Giordanengo morto, erano
andati sette volte all'assalto alla baionetta sul Monte Fiore. C'era un caporalmaggiore di Carrú che gli dicevano Patríssio.
Giordanengo gli fa: «Patrissio, salta fuori». «Capitano, che
salti fuori lei, poi salto fuori io».
Il capitano esce e cade subito colpito.
Eh, la guerra era piú pericolosa per l'uflisialità, sí
perché gli ufficiali erano piú
controllati, tutti chiedevano: « Dov'è il tenente?» Il soldato poteva
anche nascondersi due o tre giorni che nessuno lo cercava.
Uh, lí sul Monte Fiore sono rimasti trentotto ufficiali tra morti
e feriti in due mesi che siamo stati nel Trentíno.
Che cosa pensavamo di quella guerra?
Pensavamo che la guerra era la rovina, le guerre non sono per il
benessere ma per la distruzione. Io
sapevo già quasi come adesso. Ma
il novantanove per cento dei contadini non sapeva, non capiva: il basso
popolo era innocente al completo, non sapeva nemmeno da che parte leva il
sole, senza istruzione e senza niente come fare... La bassa gente cercava
solo di salvarsi la quello è un istinto.
(pag.
172-73)
10.
Giovanni Giraudo,
nato a Valdieri, classe 1885, contadino
Poi è venuta la guerra del
'15. Io non volevo farla quella guerra. In
America era una babilonia, non sapevano dove trovarci.
C'erano i manifesti di chiamata ma ben pochi si presentavano.
Si presentava qualche meridionale che voleva tornare a casa con il
viaggio di ritorno pagato. Bisognava
non avere bisogno di carte, di documenti dagli uffici, poi era quasi
impossibile che ci trovassero.
(pag. 184)
11.
Lorenzo Blua, nato a
Desertetto di Valdieri, classe 1884, contadino
Negli anni della guerra 19I5-18
ero là. Non volevo farla quella
guerra. Hanno fatto un censimento
di tutti gli italiani, io il questionario l'ho compilato presso la mia mina
[miniera], ho dichiarato che se l'Italia mi chiamava non avrei
risposto, c'era troppo pericolo nella traversata, per l'acqua, per i
bastimenti. Piuttosto parto sotto
la bandiera degli Stati Uniti. Cosí
ho ricevuto una cartolina verde, mi avevano assegnato alla seconda classe
come volontario, e non alla quinta classe degli stranieri. Ma poi le mine hanno fatto ricorso dicendo che se partivano
tutti i minatori il tonnellaggio del carbone sarebbe diminuito, e ci hanno
esonerati.
(pag.192)
12.
Giuseppe Bruno, nato
a Chiotti di Valloriate, classe 1893, contadino
Sono rimasto in Francia fino
al 1913, quando sono partito da coscritto. Ho dovuto fare tutta la guerra del '15, con il 2°
alpini, battaglione Borgo San Dalmazzo. Ho
combattuto sul Monte Ludin, Monte Nero, Rombon, San Michele,
Santa Maria, Santa Lucia, Smerle...[Merzli]. Nei giorni della ritirata di
Caporetto sono caduto prigioniero a Cividale, ci hanno mandati a Linz,
poi a Innsbruck, dove mangiavamo soltanto patate e barbabietole. Lavoravamo ad aggiustare la ferrovia. Settecento grammi di pane da dividere in
sedici soldati, avevamo
fabbricato delle bilance per fare le razioni. Di millecinquecento che eravamo ci siamo salvati quattrocento.
[..] Poi la guerra è finita, sono tornato a piedi in lialia. A Piacenza ho preso il treno per Cuneo, poi ho raggiunto Valloriate.
A Valloriate incontro una donna che mi chiede di che borgata
sono. «Sono di Chiotti », le dico. «Ne sono morti due stamattina di
Chiotti, sono morti di spagnola». «E chi sono?» «Tita Ciot e sua
figlia». Mi sono messo a
piangere disperato, sono entrato nell'osteria a bere qualcosa... Poi mi
sono incamminato verso casa. Mio padre aveva sessantadue anni e mia sorella ventidue, erano lí
morti. Mia madre era a letto
malata, anche mio fratello era a letto malato.
Soltanto la moglie di mio fratello era in piedi, con i tre bambini. Dopo due
giorni anche mio fratello è morto. Mia cognata è tornata a
casa sua portandosi via i bambini.
lo sono rimasto solo con mia madre.
(pag.195)
13.
Pietro Bruno, media Valle Stura, 1896, contadino
Poi è venuta la guerra.
Io ero negli alpini, battaglione Argentera.
Siamo partiti con la tradotta da Borgo San Dalmazzo, eravamo tutti
brilli, gli ufficiali ci avevano offerto da bere.
Scaricati a Cividale, abbiamo raggiunto a piedi Caporetto.
Da Caporetto vedevamo che sul Monte Rosso era un fuoco solo, non
capivamo come lassú potesse vivere della gente.
Tra noi ci dicevamo: «Andiamo lassú, moriremo tutti».
Mah, la guerra è una brutta bestia!
Nel 1916, sul Monte Fiore, il capitano Giordanengo di Roccavione è stato
un uomo. Il maggiore gli dice: «Tu
prendi la compagnia, la 122, e la porti lassú ». Giordanengo gli
risponde: «I miei uomini hanno tutti una mamma. Io i miei uomini non li porto lassú». Allora il maggiore ha mandato la 117. Sono morti quasi tutti.
Noi, giovani e vecchi, piangevamo a vedere quei disastri.
E sull'Ortigara? Gli austriaci
erano sull'alto, il terreno era scoperto. Andavamo
all'assalto in pieno giorno. Tra i
reticolati degli austriaci c'erano i varchi, e gli austriaci lí non
sparavano, volevano che infilassimo quei varchi e ci arrendessimo.
Finita un'ondata, morti quelli, avanti gli altri.
Mah! Erano matti a mandarci così al massacro.
Avevamo un tenente terribile, un lombardo.
Un mio compagno mi dice: «Stanotte sono di vedetta, lo ammazzo».
L'ha aspettato, con un colpo di moschetto l'ha buttato giú, l'ha
ammazzato. Si è poi giustificato
cosí: «Non mi ha detto la parola d'ordine, io ho sparato».
Non è successo niente.
Durante gli assalti noi avevamo l'ordine di sparare fino a distanza
ravvicinata. Poi dovevamo
andare all'arma bianca e scannarci con le baionette.
Ma prima di arrivare alla lotta corpo a corpo un po' scappavano
loro e un po' scappavamo noi, eh... Sul Monte Fiore una notte siamo andati
undici volte all'assalto, gli austriaci erano tutti ubriachi.
Una volta mi hanno mandato con una corvée a fare la pulizia in una
trincea. Era piena di morti, cento
e più morti, una gamba qua e un braccio là.
Abbiamo preso quei morti, li abbiamo buttati giù dal burrone.
La guerra era queste cose qui.
Poi è arrivato il disastro di Caporetto. Sono
rimasto ferito a una gamba. Da
Serpenizza, trascinandomi, ho raggiunto il Tagliamento.
Ho visto saltare il ponte con sopra la popolazione, erano
quattrocento i profughi, sono tutti morti. Gli austriaci erano a duecento metri. Un mio amico mi ha preso a spalle, e a nuoto mi ha portato
sull'altra sponda.
Dopo la ritirata di Caporetto sono tornato al fronte, in linea.
Un giorno arriva l'ordine: «Bruno Pietro e Luchese Bartolomeo si
presentino al comando». Ci
presentiamo al comando, siamo una trentina di soldati, tutti alpini.
Un tenente degli arditi ci dice: «Voi siete tutti volontari, tutta
gente pronta ad andare all'assalto». Ci
smistano nelle retrovie. Venti
giorni di istruzione. Dobbiamo
saltare un largo fosso pieno di acqua profonda, dobbiamo strisciare sul
terreno mentre le mitraglie sparano delle pallottole vere
a filo delle nostre schiene. Non
pochi dei miei compagni restano feriti. Poi
ci mandano a Schio, al Campo Jolanda. Abbiamo
i maglioni neri, con sullo stomaco la testa da morto.
Abbiamo il pugnale. Abbiamo
ancora il cappello alpino. La paga
è di dieci soldi al giorno. Non
sappiamo piú cosa dirci. L'unico
vantaggio è che mangiamo bene. Per
la prima azione partono sessantatre camion di arditi.
Ne tornano indietro ancora tre! La
legge è questa: prendere la trincea in mezz'ora o in due ore, o morti o
vivi. Quando andiamo all'assalto siamo mezzi ubriachi, i liquori danno il
coraggio nella testa. Liquori a
volontà, purché andiamo avanti. [... ].
Alla fìne del 1917 resto ferito alla testa da due schegge di shrapnel
(granate a pallottole, sparate da cannoni con spoletta a tempo).
Cinquantadue giorni di ospedale a Novara, poi mi danno un foglio
con la proposta di quindici giorni di convalescenza.
Devo presentarmi all'ospedale militare di Torino.
Mi presento a Torino, dove mi dicono: «Il tuo reparto è stato
formato in zona di guerra, tu sei un ardito.
Devi tornare in zona di guerra, là ti daranno la convalescenza». Mi mandano a Mestre. Da
Mestre mi spediscono a Verona, al 6° alpini. Da Verona mi spediscono a Treviglio. Nessuno mi vuole. Sono ormai
tredici mesi che non torno a casa, tredici mesi di trincea.
La testa mi fa male. Prendo
il treno per Cuneo, torno a casa. L'indomani
la testa mi fa piú male del solito, arriva il medico di Borgo e mi dice:
«Guai se ti muovi di lí, devi stare a letto».
Passano due mesi. Come fare
a presentarmi? Se mi presento mi
fucilano. Nessuno mi ha cercato. Scappo
in Francia, a Grassa, dai miei vecchi padroni.
Poi finisce la guerra, viene l'amnistia, forse siamo ottantamila i
disertori. Mi presento al console
di Tolone, torno in Italia. Mi
processano, mi condannano a due anni, poi mi assolvono.
Mah! Sul Rombon avevo visto
fucilare due contadini che erano rientrati al reparto con ventiquattro ore
di ritardo. Il colonnello aveva schierato sei soldati, e i due poveretti
erano lí a pochi passi. «Sparate», aveva ordinato il colonnello, ma il
plotone di esecuzione aveva sparato all'aria.
Allora il colonnello ne aveva presi altri sei: «Sparate o sparo io
a voi». E avevano sparato! Se i comandi non facevano così ne sarebbero rimasti ben pochi al,
fronte.
(pag. 198-200)
14.
Giuseppe Antonio Bruno, nato a Demonte, frazione Cornaletto,
classe 1892, contadino
Poi
è scoppiata la guerra del 1915. C'era qualcuno che cantava, eravamo in
tanti, ci facevamo coraggio. Io
pensavo: « Per essere un buon guerrigliero non devo farmi uccidere ».
Sapevo che il nemico era arrabbiato e che se fosse venuto in casa nostra
saremmo diventati suoi schiavi. [...]. Sono stato sotto l'Altissimo, poi
sul Monte Plava, poi a Campomulo, e sul Carso, a Doberdò e nel Vallone
Rosso. [...]. Quando è venuta la ritirata dal Carso sono arrivato fino al
Piave. Io avevo due cavalli
da salvare, Argira, il cavallo del mio padrone, del tenente lzzo, e
Torasia, il mio cavallo, Il tenente Izzo mi aveva detto: «Guarda, Bruno.
Devi fuggire. Porta in salvo il mio cavallo ». Nella ritirata ne ho viste di
tutti i colori, la strada era un formicaio, c'erano quattro colonne, degli
sbandati a piedi, delle carrette, delle trattrici, dei reparti un po'
inquadrati e dei cavalli. Sono
anche svenuto durante la ritirata. Ho
perduto il mio cavallo. Ma Argira
l'ho portato al di là del Piave, l'ho consegnato al mio tenente! [...].
(pag.
202-03)
15.
Andrea Marino, nato a Vinadio, classe 1885, contadino
Poi
è venuta la guerra, ero sposato con due figli, ho dovuto lasciare la
moglie con padre e madre e le masnà (i bambini), e partire.
La gioventú non voleva mica andare in guerra, anche qui se
sbriiíavu per nen pasé abil (si sbrogliavano per non
passare abili), e poi cosa fare, piú che partire.
La guerra.... vedevamo solo un gran massacro!
Andare a rubare la terra a uno e all'altro, la guerra ce l'hanno
fatta fare solo per far ammazzare la gente..., ob povre mi!
(Oh, povero me!) Noi abbiamo fatto quattro province e
poi gli altri ce le hanno mangiate, quelli che hanno poi perduto la guerra
del I940.
Io sono rimasto ferito a Tolmino a una gamba, quattro anni mi sono tenuto
quella scheggia nella gamba. Mio
fratello Onoré è rimasto ferito da una bomba a mano agli occhi, era
negli alpini, è tornato cieco completo, gli hanno poi dato una piccola
pensione. L'altro mio fratello
Pietro era in fanteria, è rimasto prigioniero a Caporetto nella ritirata.
Io ero con il battaglione Val Cenischia del 4° alpini.
Al momento di Caporetto ero a Serpenizza, siamo saliti sul Monte
Stol, poi scesi a Nimis, noi sul Serpenizza eravamo trincerati che se non
c'era il tradimento giammai ci vincevano, ma lolí l'ban falu a spres (Ma
quella cosa lì [la ritirata] l'hanno fatta apposta), ci hanno
fatti scendere a Nimis, lí ho visto passare il re con la macchina e via
scappava, quaranta giorni avanti e indietro, soldati, popolazione tutti
mischiati, uh, cose 'dl'aut mund, cose 'dl'aut mund (cose
dell'altro mondo). Abbiamo
passato il Tagliamento per tempo, poi hanno fatto saltare il ponte, con
bestie uomini donne bambini di tutto, cose dell'altro mondo.
Le guerre le fanno solo per distruggere.
Dopo Caporetto l'impressione era che fosse tutto finito.
A Bassano ci hanno riordinati, e poi mandati sul Grappa, sul
Salarolo, prima di Natale, e appena montati lassú siamo andati all'attacco
quattrocento soldati e sette ufficiali, e ritornati in tredici. [..].
Finita la guerra ancora grazie poterci ritirare a casa, d' cansun
l'han disse (delle canzoni [promesse di miglioramento di vita con la
vittoria in guerra]), promesse tante, e poi niente.
Aspetto ancora adesso la polizza del cavalierato di Vittorio
Veneto, qui c'è solo un maresciallo che l'ha ricevuta.
Finita la guerra ho ripreso la mia vita di prima.
(pag.
211-12)
16.
Pietro Bagnis, nato a Pianche (Vinadio), 1890, contadino
La
guerra '15-18? Quello che ho
passato, munsu...(signore). Già mio nonno mi aveva parlato tanto
della guerra, lui era della classe 1828. Delle
volte, quando era nella stalla, io gli dicevo: «Nonu, cunteme 'n po la
storia 'dla guera» (nonno, raccontami un po' la storia della guerra),
avevo cinque o sei anni e credevo che fossero storie, favole. Mio nonno mi
diceva: «Povero te, a Pastrengo, San Martino, Solferino, c'era la
cavalleria ungherese, la piú trista quando veniva alla carica, faceva dei
flagelli... » Piangeva mentre raccontava, come faccio io adesso che
ripenso alla mia guerra.
Il 25 maggio 1915 sono partito da
Nizza, per presentarmi soldato. Sono partito a la ventura, lasciando in Francia la moglie e il
figlio Luigi che aveva due anni. Mia
moglie, con Luigi in braccio, è ancora venuta a salutarmi a Cuneo,
altroché piangere, avevo la speranza di ritornare presto ma sapevo che
andavo in guerra e mi disperavo. Tra
noi soldati dicevamo: «Andiamo al fronte, in breve tempo la vinciamo,
facciamo presto e torniamo a casa ». Non eravamo istruiti, ci facevamo
delle illusioni.
Quindici giorni a Cuneo, poi subito al fronte con il 33° reggimento
fanteria, e poi con il 74°. Noi
non capivamo niente, andavamo al comando come un gregge, «tu mi comandi e
io obbedisco». Siamo andati
diretti a Oslavia. Là nelle
trincee c'era un fango, una sporcizia, si faceva tutto nella trincea,
pisciare, tutto. Gli austriaci
erano a centoventi metri e gridavano: «Italiani, venite avanti se volete
tabacco, venite avanti se volete sigarette».
E noi ben zitti. Le prime
cinque pagnotte non le ho assaggiate, il pane veniva ancora dall'ínterno,
era marcio. La carne puzzava, una
puzza, una schifosità, eravamo nel fango e nei pidocchi, ecco che cosa
era la guerra. [..]. Poi siamo andati sul Sabotino.
Da Gorizia e da Monfalcone sparavano sulle nostre posizioni. Un mattino hanno incominciato a bombardare forte; «Qui siamo
perduti», ci siamo detti. Nella
galleria c'erano gli ufficiali, noi
eravamo obbligati a restare in trincea. C'era
uno di San Rocco di Bernezzo, ci dice: « Fióí (figlioli),
siete contenti che recitiamo il rosario?» Abbiamo detto il rosario mentre
le bombe scoppiavano. Eh, quel
giorno ne sono morti tanti. [] E
sugli altipiani di Asiago, a Cima Undici, a Cima Dodici?
Il 24 maggio 1916 ci siamo schierati per un'azione, tutto il
reggimento. E' venuto il prete, ci ha detto: « Ragazzi, vi do la
benedizione papale, fra qualche minuto qualcuno di voi non sarà piú vivo
». Dieci minuti dopo scendevano già le barelle dei morti e dei feriti, e
noi,sempre avanti, sempre su contro i plotoni dei tedeschi affiancati.
Siamo rimasti quarantotto ore nella neve fino al ginocchio, mezzi
congelati, eh, chi non ha fatto la guerra non lo crede.
E quando mi hanno preso prigioniero, ferito sul campo di battaglia, sul
Montebello di Asiago? La prima
medicazione da parte dei tedeschi è stato un colpo con il calcio del
fucile nella schiena, un austriaco mi ha puntato la baionetta contro la
fronte e un altro mi ha dato il colpo nella schiena.
Ero ferito a una gamba e a un braccio.
Un mio compagno mi ha preso a spalle, mi ha portato assieme agli
altri feriti. Eh, mica per niente
avevo pianto quando ero partito per la guerra, sapevo che cosa era la
guerra. Noi soldati cosa capivamo? Ci
hanno portati a combattere, si combatteva senza sapere perché, si
combatteva per vincere e tornare a casa, tornare a casa era l'entusiasmo
del nostro pensiero. Se abbiamo
vinto è perché abbiamo avuto un eroismo noi soldati.
In quella guerra ho conosciuto gli austriaci e i tedeschi.
La crudeltà, l'inumanità di quel nemico era spaventosa.
Li odio ancora adesso i tedeschi. lo che cosa avevo fatto a loro?
Il tuo governo ti ha mandato contro di me, il mio governo mi ha
mandato contro di te... Era gente crudele, senza umanità.
Da ferito mi hanno portato a Innsbruck, poi tre mesi e mezzo all'ospedale
in Ungheria, ci trattavano peggio dei cani.
Infine mi hanno portato vicino a Víenna, a lavorare alla ferrovia.
Ricevevo qualche pacco da casa, lenticchie. castagne secche, pane
di segala arrostito. I pacchi
arrivavano mezzi marci, quando arrivavano.
Il 4 novembre 1918, appena avuta la notizia dell'armistizio, abbiamo
detto: «Adesso comandiamo noi». Siamo
partiti a piedi da Vienna, duecentoquaranta
chilometri per arrivare a Trieste, partiti in quarantuno e arrivati in
cinque. A Trieste ci hanno
chiusi nel porto, con i carabinieri di sentinella, e niente da mangiare.
Eravamo migliaia e migliaia. Tutte
le mattine passava l'autoambulanza a ramazzare i morti, ce n'erano sempre
venticinque o trenta. [..].
(pag.
219-221)
17.
Giovanni Battista Ponzo, nato a Canosio, 1888, muratore
La
guerra? Io ho tirato il
numero a Prazzo. Ero del 2° genio
zappatori, a Casale Monferrato. Dopo
cinquanta giorni di istruzione sono partito per il fronte.
Eh, eravamo forzati. Non
pensavo più di salvarmi. Carso,
San Gabriele, Monte Santo, Castagnavizza, Gorizia, San Michele, San
Martino, Monte Cucco... Ho lavorato un anno e mezzo a scaricare le
gallerie del San Michele, erano piene di torpedini, un lavoro pericoloso,
da disperati. [..].
Nel 1917, sul San Michele, era andato al massacro l'11° bersaglieri.
Un anno dopo i morti erano ancora tutti là, allo scoperto.
Nelle trincee i morti erano in piedi, uno teneva su l'altro.
E tutte le parti di ferro erano verdi per via del gas iprite, le
stellette, i chiodi delle scarpe, i bottoni delle giubbe... A Castellavizza
ho visto un grande prato tutto coperto di grigioverde.
Avevano tentato di conquistare la collina, l'ban barbaie
tuti (li hanno rubati [ammazzati] tutti), erano alpini, tutti
morti. Sí che faceva piacere quel
prato di morti, uno accanto all'altro!
E la ritirata di Caporetto? Arrivati
a San Víto del Tagliamento c'erano due ponti.
Uno squadrone di cavalleria insisteva per passare sull'altra
sponda. Allora un capitano ha
puntato la pistola contro il comandante dello squadrone, voleva
che i cavalieri attraversassero il fiume a guado, erano sette le colonne
che tentavano di passare: colonne di camion, uomini, muli,
artiglierie, profughi, una gran confusione.
Il ponte è poi saltato con lo squadrone di cavalleria
sopra, gli austriaci erano a trecento metri.
E sopra le nostre teste volavano gli aeroplani. «Non andiamo piú
a casa, è la morte», pensavamo. [..].
Un giorno, a Bassano del Grappa, ho visto un reggímento di alpini che
saliva verso le linee, erano tutti fiulinot, tutti giovani.
Che pena che facevano. Davanti
avevano la banda musicale, e loro dietro che piangevano, ragazzini di
diciotto anni, andavano sul Grappa, è un bell'ossario il Grappa [..].
(pag.
235-36)
18.
Giacomo Andreis, nato a Marmora, classe 1891, contadino
Nel
1912 sono tornato dall’America, nel 1915 sono partito da soldato.
La guerra l'ho fatta con il 244' fanteria. Eh, la guerra ci ha
rovinati. Ci avevano promesso la polis
(la polizza premio)
di mille lire, in quei tempi là con la polis avremmo comprato
quattro vacche!
Andavamo all'assalto, non capivamo più niente, le punture ci
avvelenavano, eravamo come i cani arrabbiati.
Passavamo sui morti senza fare un fiato.
Erano le punture che 'n balurdíu 'l servel (che
ci intontivano il cervello), andavamo avanti come ubriachi a infilzare la
gente nelle baionette.
Sul Piave ero così stufo che marcavo sempre visita, io ero anche un po'
carogna, allora mi hanno legato per molti giorni al palo dei reticolati.
Gli austriaci erano a meno di cento metri, mi vedevano perché era
di pieno giorno, ma non sparavano. Gli
austriaci erano più educati di noi, pensavano: «Quello lì legato al
palo è contrario al suo esercito, è un punito, così non spariamo». [..].
Eh, la patria era poco o niente per noi. Il
mangiare era solo come Dio voleva, eravamo carichi di pidocchi.
Dormivamo nel fango con il telo da tenda sotto, senza paglia né
niente. La guerra è la rovina
delle popolazioni. Quando sono
tornato a casa per quattro mesi non ho potuto dormire, tutte le notti mi
svegliavo di soprassalto, mi pareva di sentire l'allarme e le bombe e
l'assalto.
(pag.
239-40)
19.
Giovanni Tolosano, nato a Marmora, classe 1889, contadino,
bottaio
Nel
1915 sono partito per la guerra con il 32° fanteria.
Ci hanno portati oltre Udine, al fronte.
Là un reggimento era stato decimato, eravamo disperati. «Siamo
arrivati in un bel posto», ci dicevamo, e le gambe tremavano.
Siamo andati all'arma bianca. Un
austriaco con un colpo di fucile mi ha rotto la baionetta.
Allora ho buttato via il fucile, ho preso quell'austriaco per il
collo, ma era un uomo forte, sono stato un bel momento per perdere, poi
l'ho rovesciato su un fianco, è passato il mio amico Fantone, allora gli
ha sparato un colpo in testa. Eh,
gli austriaci a noi non ci avevano mica fatto niente, ma i nostri comandi
ci facevano andare. Prima degli
assalti ci distribuivano l'anice, partivamo sempre un po' storditi.
Un'altra volta, era il 21 ottobre 19I5, alle dieci del mattino, il
capitano ha tirato il sorteggio, quale dei quattro plotoni della compagnia
doveva uscire per primo. Il
nostro tenente era ricco, con un bell'orologio e gli anelli di diamanti.
Ci dice: «Se muoio non lasciate poi che gli austriaci mi prendano
l'orologio e gli anelli». Esce
per primo, e cade morto. Esce il
sergente maggiore e va avanti. Esce
il sergente e cade morto. Esce il
primo soldato e cade morto. Esce il
secondo soldato e cade morto. Adesso
tocca a me, sono tutto agitato, mi preparo bene, salto fuori dalla
trincea, vado avanti tra le pallottole, poi mi stendo dietro a una piccola
pietra. Per forza uscire dalla
trincea, il maggiore era là con la rivoltella puntata che ci obbligava a
uscire uno dopo l'altro. Sono
dietro alla piccola pietra quando sento un colpo nella spalla e poi un
altro colpo nel piede; «Oh pover mi, sun fotu» (Oh povero me,
sono fottuto), mi dico. Sto
lì ben disteso perché le pallottole fischiano.
Sono su un punto un po' defilato, in un avvallamento, era lí il
gabinetto della compagnia. Ho
la faccia proprio dentro a una merda, ho la faccia coperta di mosche, sono
tutto nella merda ma non mi muovo, tre ore resto li senza muovere.
Sento che urlano: « Urrà, urrà», vanno all'assalto.
Sento il sangue alla spalla e al piede, e resto tre ore sempre lì
con la faccia nella merda. Con il
buio tento di trascinarmi all'indietro, il terreno è coperto di morti,
saranno piú di duecento i nostri morti. Mi
trascino fino alla trincea, vedo una bottiglia, bevo, è urina.
La trincea è vuota, i nostri sono tutti fuori, avanti, o morti o
vivi, hanno conquistato la trincea degli austriaci. La gamba destra gonfia
a vista d'occhio, continuo a perdere sangue.
Arriva un portaferiti, gli chiedo di aiutarmi, mi risponde: «L'ordine
è di portare giú solo i morti».
Hanno paura che puzzino i morti, vogliono sotterrarli. Poi arriva un colonnello, cammina lungo la trincea, impugna una
rivoltella, va a vedere se ci sono dei soldati nascosti, mi vede, grida:
«Cosa fate qui?» «Signor colonnello, sono ferito, fate il favore,
fatemi portare via ... » «Non possiamo, aggiustati come puoi, l'ordine
è di ricuperare solo i morti». Eh,
la guerra è cosí, se non ci fossero gli ordini severi scapperebbero
tutti!
Allora mi trascino giú rotolando lungo la montagna, sono tutto inzuppato
di sangue, c'è piú di un chilometro dal posto di medicazione, è tutto a
pietre, a scalini, a salti, rotolo, un po' resto intontito, poi riprendo a
rotolare, infine faccio un salto di quattro metri e cado come morto
proprio nel posto di medicazione.
Un tenente medico ordina di medicarmi, mi bendano alla meglio, resto lì
su una barella fino all'indomani. Poi
con la barella mi portano a Plava, due chilometri piú in basso. A
Plava concentrano i feriti alla stazione ferroviaria. Lí ci sono anche i pezzi dell'artiglieria e i nostri ci
hanno messo sopra la croce rossa. Ma
gli austriaci se ne accorgono, incominciano a bombardare, noi feriti
saremo trecento tutti ammucchiati, ne restiamo vivi trentaquattro.
Nella notte ci portano verso Florian. [..]. Poi arriviamo a
Udine, nel campo contumaciale, saremo cinquemila adesso i feriti.
In uno stanzone al primo
piano sono sette o otto i medici che operano, c'è anche il dottor Lerda
di Torino. C'è una finestra
spalancata, e sotto nel cortile c'è un camion.
I medici tagliano braccia e gambe, e le buttano dalla finestra, le
buttano sul camion perché non puzzino.
La mia gamba è sempre piú gonfia, nessuno si cura di me, dopo
cinque giorni mi trascino al posto di medicazione, mi guardano se no
morivo. [..].
(pag.
242-244)
20.
Daniele Mattalia, nato a Elva, classe 1897, contadino
A
diciannove anni sono partito da soldato con l'artiglieria alpina, 1° reggimento.
Sono andato sull'Ortigara, con i pezzi da 65 Skoda, sparavamo anche
a zero con quei pezzi. Cosa pensavamo di quella guerra?
Ne capiu 'n diau bele giúst (Ne
capivamo un diavolo bello giusto), ne capivamo niente.
I'eru 'd rascasun (Eravamo
ragazzini).
Vivevamo come le talpe, se alzavi la testa le pallottole
arrivavano come la tempesta. Mesi e
mesi sempre là nella stessa tazza era lì che era dura.
Proprio una bella giovinezza. Il
24 giugno 1917 sono rimasto ferito, pesavo ancora cinquantanove chili.
Che cosa era per noi la patria?
In quella guerra eravamo ancora abbastanza patriottici.
Ma era triste quella guerra. Ho
visto il 6° alpini che andava all'assalto, andavano lo stesso come le
capre quando vanno al sale. Andavano...
Saltavano fuori dalla trincea dicendo il rosario!
(pag.
254-255)
21.
Spirito Magno Rosso, nato a San Pietro di Monterosso, classe
1896, contadino
Poi
nell'autunno del 1915 sono partito da soldato con il 1° alpini, e nel
1916 sono andato al fronte sul Pal Piccolo e sul Pal Grande, e
infine nel Trentino, sul Monte Maio. Sono
rimasto ferito sul Cimon, tredici ferite avevo quando sono caduto
prigioniero. Dopo due mesi di
ospedale a Posen, in Engadina, mi hanno trasferito a Mauthausen.
Infine tramite la Commissione Americana e Svizzera mi hanno
restituito all'Italia come grande invalido.
Che cosa era per me la patria quando ero al fronte? Era la mia famiglia, la nostra casa e basta.
(pag.
271)
22.
Pasquale Roggero, nato a La Morra, classe 1890, contadino
Poi
la guerra del '15, una guerra che ha rovinato le famiglie contadine, di
certe famiglie ne sono partiti tre, noi eravamo quattro sotto le armi, in
campagna non c'erano più braccia, toccava alle donne lavorare per gli
uomini... Eh, i giovani non volevano partire per la guerra.
Un nostro parente diceva: «Mi voi vene malavi, mi voi
vene malavi» (io voglio ammalarmi), aveva una pleurite e l'ha
trascurata, non mangiava piú, fumava a gran forza.
E' morto a casa, è morto per non andare a morire in guerra!
Chi si faceva togliere i denti, chi beveva i decotti di paglia: «Per
morire là muoio a casa».
Come la pensavo io? La pensavo come
la gran parte dei contadini, non volevo la guerra.
La sità i'era piasà diferent, (la città [la gente della
città] era sistemata in modo differente, era un'altra cosa) in città la
pensavano diversa. Sono stato
sul Carso, in faccia a Gorizia, vite cattive: poi sul Trentino, sul Sabotino
quasi un anno al comando di Badoglio, istu, i camminamenti pieni
d'acqua, pioveva sempre... La guerra dell'ufliciale era diversa dalla
guerra del soldato: l'ufficiale aveva un'altra situazione familiare,
un'altra paga, e la carriera. Bella carriera ho fatto io, mi sono rovinato
la salute, sono tornato a casa che sembravo morto, non mi hanno piú
conosciuto. L'hanno menata lunga
per darci poi questa piccola pensione di Vittorio Veneto!
Io non ho mai sparato in guerra. Perché
sparare? A volte mi davano l'ordine
di sparare, quando ero di vedetta: piantavo il calcio del fucile per terra
e sparavo al cielo, poi ascoltavo che la pallottola tornasse giú, lú
cunus nen chiel li, perché maselu.. (non
lo conosco quello li, perché ammazzarlo..). Sono rimasto ferito
sul San Míchele, schegge nel fianco, nella schiena, in un piede. Uscito dall'ospedale sono tornato al fronte e mi hanno preso
prigioniero, sono finito in Austria nelle baracche a fare una gran fame, a
vivere di rape e cavoli.
Nel 1916 ero sul Carso, di fianco al San Míchele, dopo due
mesi di trincea non ne potevo più, Il mangiare e il bere arrivavano
all'una dopo mezzanotte, quando arrivavano: una sete tra quelle pietre...
E non veniva mai nuvolo, mai una
goccia di pioggia. «Se scappo di qui ... », mi dicevo.
Mi danno una licenza di quindici giorni, torno a casa e riprendo a
vivere. Ero d'accordo con i
miei amici rimasti al fronte, loro mi spedivano delle cartoline in
franchigia, se c'erano dei combattimenti mettevano i saluti e poi un po'
di puntini, se i combattimenti erano brutti mettevano una fila di puntini,
era un codice tra noi per capire, io avevo anche fatto così con loro
quando erano in licenza. Mi
arrivano tre o quattro cartoline con lunghe file di puntini, scade la
licenza e dovrei tornare al fronte. Mio
fratello Minot' mi porta alla stazione di Bra, col cavallo.
Ma come vedo il treno torno a casa, arrivo a casa prima dei
cavallo... L'indomani la stessa cosa: « Vadu a la mort, vadu
a la mort» (vado alla morte, vado alla morte), dico a Minot.
Salgo sul treno, ma scendo subito dall'altra, e me ne torno a casa.
A casa, mia madre si dispera e mio fratello anche, mia madre
piange, la licenza è scaduta e rischio di finire male.
Allora dico ai miei di casa che è meglio se vado alla stazione da
solo. Vado alla stazione ma non
parto, e non torno a casa: resto nascosto presso gli amici. Quando finalmente mi sento deciso di partire sono ormai passati
molti giorni. Ad Asti vedo una fila
di soldati attaccati uno con l'altro con le catene, li fanno salire su un
vagone, li portano al fronte. Con
un treno e l'altro arrivo fino a Modena, poi prendo una tradotta che mi
porta al fronte. Arrivo in linea
che sono ormai trascorsi quarantasette giorni, il mio reparto è impegnato
in un'azione, non mi succede niente, mi confondo nella confusione.
(pag.
291-92)
23.
Giulio Cesare Mascarello, nato a Barolo, classe 1895,
contadino, vinificatore
Ho assistito alle lotte tra interventisti e neutralisti, 'd patele
'dla furca (delle botte da forca). Io
ero neutralista. Poi la mia classe
di terra deve andare sotto le armi nell'agosto del I9I5. Per sfuggire al
servizio militare - in quei tempi si diceva che la guerra sarebbe durata
soltanto tre mesi - mi metto d'accordo con un padrone pescatore, preparo i
documenti, così passo nella classe di mare di cui è previsto il richiamo
nel gennaio 1916.
Infine mi arriva la cartolina precetto, devo presentarmi a La
Spezia. Cinquanta sessanta giovani
nelle mie condizioni non dormono piú a casa ma dormono nelle chiatte del
porto, non si presentano alle armi, risultano irreperibili, aspettano che
la guerra finisca. Nessuno mi
cerca, vivo anch'io tranquillo un paio di mesi, non mi presento.
Un brutto giorno con una retata arrestano tutti quelli che
dormivano sulle chiatte.
Allora mi presento a La Spezia. In
una caserma saremo cinquemila seimila uomini.
Un bel giorno riesco a farmi assegnare nei «semaforisti».
Mi mandano a scuola sei mesi, poi mi destinano all'Isola di
Sant'Antioco, nel sud della Sardegna, perché ero schedato come
neutralista. Là ci incontriamo trentatre schedati, tutti neutralisti,
anarchici, socialisti. Il nostro
maresciallo è anche lui schedato perché ha sposato una tedesca.
Viviamo da papi, nessuno ci disturba.
Poi mi trasferiscono a Brindisi. [..] Nel 1919 mi congedano.
(pag.
297-98)
24.
Angelo Fantino, nato a Monforte, classe 1897, contadino
Nel
1915 sono partito da Parma con l'artiglieria pesante, con i pezzi
da 149, e sono andato al fronte. Eravamo
dei bambini. Siamo scesi dalla
tradotta vicino a Cormons, siamo andati sul Sabotino.
Non sapevamo nemmeno dove erano gli otturatori dei nostri pezzi. Allora sono venuti dei graduati anziani dalla Val Lagarina a farci
istruzione, ci raccontavano della vita dura di guerra, e noi credevamo che
ci contassero delle balle, invece erano verità. [..]
Sull'altipiano di Asiago noi abbiamo sparato venti minuti di seguito nel
culo degli alpini. Li abbiamo fatti
andare avanti per forza, mancavano i collegamenti, tutte le linee
telefoniche erano strappate. Quando
il mio capitano si è accorto dello sbaglio si è messo a urlare
disperato. Lì c'era un cappellano militare che ha detto soltanto: «Speriamo
in Dio... » «Quale Dio? - gli ha urlato il mio capitano - il tuo Dio che
non ha compassione di quattordici milioni di madri che chiedono che i loro
figli tornino a casa? Il tuo Dio...
Vergognati». Il cappellano è
scappato via. Quello che hanno di
bello i preti è che quando hanno da stare zitti stanno zitti. Da lì mi sono fatto il concetto: «Guarda qui da chi siamo
comandati, qui siamo condotti da una potenza occulta, sí 'd póli leie
niente perché sun pí fort che 'l brus (qui non puoi fargli
niente perchè sono più forti del formaggio forte) ». Loro
approfittano della guerra per comandare, per fare i loro interessi.
Tanto è vero che a Caporetto il mio capitano diceva: «Qui comanda
padre Semeria, altroché Capello». Padre
Semeria era il capo dei cappellani. Nei giorni di Caporetto, dalla
Bainsizza sono arrivato a Modena. Quarantadue
giorni di ritirata, è sempre piovuto, andavamo nei campi a raccogliere
rape e cavoli. Prima mangiavamo i
cavalli, poi dopo il Tagliamento non abbiamo piú trovato niente. C'erano le colonne di uomini donne bambini, e gli austriaci
vestiti da soldati italiani che ci sparavano nei fianchi.
L'impressione era che la guerra fosse finita.
Possiamo ringraziare quelli del '99, il '99 si é preso tante di
quelle batoste, è riuscito a fermarli al Piave.
Sono andato fino a Modena da sbandato, poi mi hanno di nuovo acciuffato.
Giravano delle pattuglie che se ti prendevano da sbandato facevano
solo che spararti. C'erano i caproni, i carabinieri, che fucilavano, oh
ne ho viste delle fucilazioni. [..]
(pag.
302)
25.
Dante Cane, nato a Magliano Alfieri, classe 1899, contadino,
esercente
Se
ho fatto il militare? Salandra,
Sonnino, tutti quei delinquenti borghesi, hanno chiamato sotto le armi il
'99 prima del '98. Il 10 giugno
1917, non avevo ancora diciotto anni, mi presento a Torino, in corso
Vittorio, alla Caserma La Marmora. Mi
mandano nel canavesano, alla 3 a batteria, a fare istruzione.
Io ero già antimilitarista, non volevo saperne della guerra.
Il rancio faceva schifo che nemmeno i maiali lo mangiavano, acqua e
cavoli e patate, andavamo nella cascine a rubare la frutta per
toglierci la fame. Scrivevamo a
casa di mandarci un po' di pane. Arrangiandomi,
passando da un reparto all'altro, collezionando punizioni, sono sempre
riuscito a schivare il fronte. [..]
Che cosa ne pensavano i contadini della guerra?
Chi poteva cercava un posto in fabbrica a Torino e si imboscava.
C'era chi mangiava i sigari e si rovinava la salute.
Uno del 1895, malato, non si curava per paura che lo dichiarassero
abile: è morto a casa! Ogni
cinquanta contadini c'era una testa calda, un entusiasta. Certo il morale della gente era basso: arrivavano i mortuori (annunci
mortuari), uno era caduto prigioniero, l'altro era disperso..
(pag.
312)
26.
Giuseppe Bassignana, nato a Murazzano, classe 1896, contadino
Il
disastro era già cominciato con la guerra del '15. Se ho fatto quella
guerra? Sicuro, la guerra l'hanno
fatta i contadini, d'altri non c'era nessuno.
Ero nel 201° fanteria, brigata Sesia.
Adesso sono «cavaliere». Che
cosa pensavano i contadini? Pensavano
a niente, pensavano solo a scappare, a salvare la pelle, o di andare in un
reparto che non combatteva. 'L
cuntadin l'é ignurant a ses dubie (il
contadino è ignorante a sei pieghe).
Non dico che non ci fosse patriottismo tra i contadini, gli ufficiali
ci facevano sempre un po' di morale, ma poi la morale non bastava più
perché le cose andavano male, eravamo sempre in trincea, mal vestiti, mal
nutriti, faceva paura, 'n lasíu 'd prúcbe, de strapasine' (Ci
facevano delle sgridate, delle paternali), quando c'è stato Caporetto che
cosa ci hanno detto..., «Vigliacchi, traditori, avete venduto il fucile,
avete venduto la mamma», ma ogni sorta di bestialità!
lo la prima volta che sono andato in trincea era l'inizio del 1916, sono
stato due mesi senza posare le giberne, non le mutande, le giberne.
Dopo gli ufficiali ci hanno detto: «Adesso potete slacciare le
giberne». Poi la Russia ci ha
salvati. La Russia prima era
ferma, gli austriaci che erano in trincea lungo il fronte russo erano
tutti giardinieri, piantavano i fiori, intanto i russi erano sempre fermi,
non muovevano. Quando i russi sono
venuti un po' avanti il nostro fronte si è alleggerito perché hanno
tolto i tedeschi per mandarli contro i russi: così abbiamo respirato un
po', siamo andati nella zona di Gorizia, abbiamo partecipato alla sua
liberazione, il 31 agosto sono stato ferito, ho ancora qui la
ferita nella gamba, sono stato novantacinque giorni allospedale, il
periodo piú bello della mia vita di soldato, poi quaranta giorni
di convalescenza, così mi sono salvato un po' di guerra.
Quando è arrivata la ritirata di Caporetto io non ero già più
mitragliere, ero zappatore lungo la strada tra Plava e il Monte Santo. Una sera sentiamo sulla nostra destra un fuoco di fucileria
furioso. Cosa sarà?
Sarà un attacco? Intanto arrivano gli aeroplani a bassa quota. Ma quello lì
è tedesco? Ma quello lì è
austriaco? Sono passate due automobili
scoperte piene di generali, andavano verso le retrovie, uno dei generali
aveva quattro righe, era il Re. Al
mattino ci arriva un ordine come se niente fosse: «Raggiungete il vostro
reggimento che si trova a Caporetto». A Plava era già una cosa
spaventosa. Sul ponte un carreggio dopo l'altro, abbiamo superato il
ponte passando lungo il parapetto. Siamo
saliti sul Monte Curaro, c'erano le trincee bell'e fatte e blindate,
avessero voluto i nostri lì resistevano.
Ma c'era stato il tradimento, questa era la voce del soldato.
Un po' oltre Monte Curaro abbiamo incontrato i francesi che erano
appena arrivati con i loro cannoni da 105, i francesi ci dicevano:
«A Roma? A Roma? » E noi a loro:
« Paris? Paris? » Non erano
ancora arrivati i francesi e già ci prendevano in giro.
Poi abbiamo incontrato l'II°' reparto di assalto che ci ha
insultato: lì c'erano gli arditi, i balengu, i prepotenti, più
che tutto i balengu. Quando
il fronte era ancora fermo noi in trincea stavamo bravi e i tedeschi
anche, eravamo tutti contadini tanto da una parte come dall'altra, e
l'avevamo capita che non aveva senso ammazzarci tra noi.
Allora arrivavano gli arditi, í balengu, a agitare le
acque, a creare il subbuglio. Eh
già che l'avevamo capita, perché quando facevamo dei prigionieri
vedevamo che era povera gente ignorante come noi, gente che non capiva
niente come noi.
La ritirata di Caporetto è stata un grande disastro. I nostri ufficiali
che ci gridavano: «Vigliacchi, avete buttato le armi ... » lo l'avevo
conservato il fucile, l'avevo in mano. E i nostri ufficiali?
Il mio colonnello si era messo una benda su un occhio, fingeva di
essere ferito, viaggiava a cavallo, e col frustino cercava di colpirci
perché camminassimo lesti. Oh, ci
trattavano male i nostri ufficiali, eravamo solo contadini, i contadini
non hanno mai contato niente.
(pag. 323-24)
27.
Lorenzo Boeri, nato a Serravalle Langhe, classe 1891, contadino
Sono
arrivato a casa nel febbraio del 1914. Nel maggio del 1915 ero a casa che
lavoravo nei campi, mi è già arrivata la cartolina del richiamo.
Mi sono presentato a Borgo San Dalmazzo, dove mi dicono: «Domani
si parte per il fronte». Ma io volevo ancora vedere una volta padre e madre.
Chiedo il permesso, mi dicono «no».
Allora parto a piedi, e arrivo a piedi a Serravalle, settanta
chilometri a piedi! A casa ho paura
che vengano i carabinieri a cercarmi, ogni tanto scappo nelle rive a
nascondermi, resto a casa quattro giorni, poi torno a Borgo.
Ma il mio reparto è già partito per il fronte.
Un caporale mi accompagna a Udine, hanno paura che scappi di nuovo.
Mi mandano sul Sabotino, dove dobbiamo andare all'assalto. [..] Poi ci
portano sul Carso, dove resto ferito. Quaranta
giorni e più di ospedale. [..] Poi vado sul fronte di Gorizia.
Oltre Gorizia c'è il cimitero, andiamo all'assalto contro il
cimitero, spalanchiamo il portone e ci infiliamo dentro.
Le altre compagnie invece sono passate sui fianchi del cimitero,
sono già avanti. C'è il muro di cinta da superare, è alto tre metri.
Dal portone non possiamo uscire
tanto sparano. Vedo un tavolo nella
sala mortuaria, mi infilo là sotto. Poi
sento un bruciore nella schiena, dico a un mio amico: «Guarda un po' cosa
c'è». Lui guarda e mi dice: «C'è
un buco che passano due dita». Sento
caldo sulla pancia, mi slego i pantaloni, la pancia è inondata di sangue.
Una scheggia ha trafitto il tavolo, e si è infilata nel mio
fianco, tra due costole. Lascio che
il combattimento si calmi, poi mi trascino fino al posto di medicazione.
Lì infilano una pinza nella ferita, estraggono un bel pezzo della
mia giacca, il buco è grosso come una noce, la scheggia me la tolgono poi
a Novara.
Altro periodo di ospedale, poi mi mandano sul Grappa. Lí è brutta, ístuna. Gli
austriaci sono a cinquanta metri ma sono bravi. Da venti giorni non assaggio più il vino, dico al mio
caporalmaggiore: «Lasciami andare indietro, allo spaccio», lo spaccio è
come fosse da qui a Bossolasco. Sono
quasi arrivato allo spaccio che incontro il cappellano. «Dove vai? » mi
chiede. «Cribbiu, siamo lassú che abbiamo sete, vado a prendere
un fiasco di vino a pagamento». Tira
fuori la pistola da quel suo bagagiun', (fondina) a
me il sangue dà il giro, se avessi il fucile due schioppettate gliele
darei, e poi tornerei in linea e mai piú nessuno saprebbe che sono stato
io... [..]
Eh, eravamo tutti stufi di quella guerra. L'ufficiale
andava avanti e tu dovevi andargli appresso pei 'dle fee'
(come delle pecore). Gli
ufficiali stavano bene. Il mio
capitano aveva nella sua baracca una tedesca, una friulana vestita da
soldato. Sí, ne morivano anche
degli ufficiali, se non va l'ufficiale non va il soldato. [..]
Disertori? Sí, ne ho conosciuti
tanti. C'era una squadra di
disertori qui, in queste zone, nei boschi.
Uno di questi disertori una notte è entrato in una casa, Marieta
era sola con sua madre, quel disertore della bassa Italia ha buttato una
mano sulla bocca di Marieta perché non gridasse, Marieta gli ha morso un
dito, gliel'ha portato via al completo. Sempre questo disertore ha poi
ammazzato quella fiulina (ragazzina) che andava a messa a La
Cerretta, lì dalla Pedaggera verso Roddino, li c'erano dei boschi.
Il disertore l'ha abbracciata, l'ha trascinata 'n na riana, (in
un valloncello) era una bella matota,
(ragazza) le ha fatto quello che ha voluto, poi le ha messo na
súca' (un ceppo) sulla testa.
Eh, qui c'era la ghenga dei disertori, erano una quindicina.
La popolazione non li tradiva, i disertori aiutavano le famiglie
contadine nei lavori, i carabinieri li temevano i disertori. [..]
Mah! Con la guerra hanno
massacrato tanti di quegli uomini per prendere due montagne... Quando è
finita la guerra avevo ventinove anni, nove anni li avevo passati da
soldato. Ero già vecchio, ho
ripreso a fare il contadino.
(pag.
331-333)
28.
Giovanni Montanaro, nato a Serravalle Langhe, classe 1892,
contadino
E’
arrivato il capitano, un toscano, Aschini si chiamava, è poi morto sull'Ortigara.
Il capitano ci ha fatti partire subito, ottanta chilometri a piedi
fino a Barricate, a Campigoletto abbiamo dormito nella neve, siamo
arrivati sull'Ortigara senza aver mangiato, lassù c'era solo delle
damigiane con della roba forte, roba che ci stordiva, che ci bruciava
dentro.
Eh, l'Italia è furba, l'Italia manda sempre i suoi soldati sotto sotto.
Gli austriaci erano a trenta metri dalla nostra trincea, li
sentivamo a parlare. Piú sulla
sinistra i nostri si scambiavano le pagnotte con gli austriaci.
Noi eravamo come rimbambiti, ci avevano fatto delle punture per
renderci piú forti, non sei piú né una persona né niente.
Eh, a chi deve combattere, al soldato semplice, la guerra non interessa.
La guerra interessa a chi è seduto, a chi capisce che cosa
avviene. Noi non capivamo niente,
noi cercavamo solo di non morire. Non ci interessava ammazzare gli austriaci, ma bisognava ammazzarli
perché se vengono avanti ammazzano te. Chi capita in quel giro è disgraziato. Io non sono piú un bambino, ho ottant'anni.
Dico che chi ha avuto qualche vantaggio dalla guerra sono tutti
quelli prediletti, magari nascosti nei buchi, ma gli altri senza un nome
sono niente. Il merito era sempre
dei capi, mai dei bocia, di quello che portava 'l buiò..(attrezzo
per portare a spalla la calce, si intendono così i lavori umili)
E Caporetto? criste... Alla Catena dei Sei Monti, verso Gana, era
crollata una galleria seppellendo molti soldati.
Noi eravamo sotto un ponte quando arriva un colonnello senza una
mano, del 60 alpini, e ci dice: «Ragazzi, venite con me». Io credevo che ci portasse al trenino di Vicenza.
Va, va, va, camminiamo come da Alba a qui, una trentina di
chilometri, ci ha portati sul Grappa. Lí sono arrivati gli arditi, più di quattrocento: salivano da
Bassano con i camion, sono andati all'assalto al Losalone.
C'era il buco di una bombarda, era pieno d'acqua: mi sono nascosto
là dentro; « Se vado in fondo annego », mi dicevo, poi sono riuscito a
tirarmi fuori, ero largo come un armadio, pieno di acqua e di fango.
Gli arditi erano in gamba, tutti volontari, truppe d'assalto:
facevano gli assalti e poi a riposo, ma tanti non andavano più a riposo!
Gli alpini erano il corpo più disgraziato, sei sempre in trincea,
sempre sempre, ad aspettare i conducenti che ti portino il vino acido.
Sul Grappa sono rimasto ferito ai piedi, al braccio, a una mano.
Avevamo quelle punture che ci facevano restare come scemi.
E se non andavi avanti ti sparavano nella schiena.
Se erano tanti i morti? Oh povra
masnà... (oh, povero bambino). Sotto l'Ortigara c'era un piano
di morti... E' meglio cambiare discorso, se no vengo matto.
C'era chi si stufava della guerra e disertava.
Tutti eravamo stufi, come rimbambiti.
Gli ufficiali avevano le balle piene anche loro.
Conosco un capitano che si è sparato, che si è ferito a una mano
per farla finita... C'era il soldato che si sparava una schioppettata in
una gamba pur di andare lontano dal fronte. [..]
Qui nella Langa saranno stati cinquanta i disertori, e avevano ancora
tutti dei soldi. Aiutavano la gente
nei lavori di campagna, aiutavano le donne che avevano i mariti al fronte,
le tenevano allegre... La gente dava da mangiare ai disertori, anche perché
aveva paura. Alla Pedaggera le due
figlie 'd Minúciu le hanno trovate morte: portavano da mangiare nei
boschi, chissà chi le ha ammazzate.
(pag. 339-341)
29.
Alessandro Scotti, nato a Montegrosso d'Asti, classe 1889,
esponente del partit dei contadini d'Italia
La
guerra del '15. Ero interventista ero sottotenente degli alpini.
Appartenevo a una famiglia di patrioti.
Mio padre era stato bersagliere con La Marmora e poi con Cialdini;
un mio fratello aveva preso parte alla guerra d'Africa nel 1896, il mio
insegnante elementare, il maestro Camera, era un maestro risorgimentale.
Ecco, sono stato educato in questo ambiente.
Quando sono partito per il fronte mio papà mi ha detto: «Io sono
arrivato fino all'Isonzo, tocca a te andare al di là».
Il mio sogno era di conquistare Trento e Trieste. [..]
Nel 1916 ad Aosta, mi assegnano cento uomini, tutti valdostani di
un «reparto complementi». Li
accompagno al Pasubio, dove ci assegnano al battaglione Cervino, 33°
compagnia. La nostra 5° divisione
la comanda il generale Graziani, il vecchio, un uomo valorosissimo ma
duro. La sera del 9 ottobre il generale Graziani ha notizia che gli
alpini di una compagnia del battaglione «Monte Berico» hanno gridato «Viva
la nebbia», nell'imminenza di un assalto: « Viva la nebbia», perché
speravano che l'assalto venisse rimandato.
Il generale raggiunge subito le linee, e fa legare con le funi da
carro tutti i novanta alpini della compagnia del «Berico».
Poi raduna gli ufficiali del battaglione, perché assistano alla
lezione. Fa sfilare di fronte ai
novanta una compagnia armata, ordina che la compagnia si schieri per la
fucilazione. Intervengono i
cappellani militari, la trattativa dura un quarto d'ora, il generale
ridimensiona il suo programma, impartisce un nuovo ordine: «Allora ne
faccio fucilare dieci, si proceda alla decimazione, uno
ogni dieci faccia un passo avanti».
Altro intervento dei cappellani
militari, e finalmente la decisione definitiva:«Se mi prendete il Dente
del Pasubio vi considero tutti assolti. Altrimenti,
dopo l'assalto, si procederà alla fucilazione».
Si va all'assalto, gli alpini del «Berico» li vedo a cadere quasi
tutti nel massacro. Io devo
occupare il Groviglio, un mammellone alle spalle del Dente.
La prima ondata scompare al completo.
Con la seconda ondata arrivo quasi in cima al Groviglio, mi guardo
attorno, siamo rimasti in pochi, quattro alpini e un fante della brigata
«Liguria», il fante da dove viene non lo so.
Allora mi corico sui rododendri, metto la mia testa al riparo sotto
il corpo del tenente Righetti, morto nella prima ondata.
Con l'imbrunire, via, io e i quattro alpini superstiti rientriamo
nelle nostre linee. Mi hanno poi
dato una medaglia di bronzo perché ho fatto il mio dovere in pieno.
Poi è arrivata la neve, sei metri di neve.
Ho trascorso l'inverno a cinquanta metri dal Dente del Pasubio, in
una stanzetta di neve, leggendo
Fogazzaro. Gli austriaci erano a
cento metri. Se uno metteva fuori
la testa, partiva!
Nel 1917 ho chiesto di andare volontario negli arditi, nel gruppo
comandato dal colonnello Testafuochi, sempre con il battaglione «Cervino».
Ancora assalti e contrassalti, prima alle Melette, poi a Monte Fior.
[..]
Se i miei soldati sentivano quella guerra?
Ce n'erano degli uni e degli altri.
Tutti l'accettavano, il dovere era il dovere.
Hanno poi cominciato a mormorare dopo Caporetto. Borbottavano
sempre, ma il dovere lo facevano, e resistere resistevano.
Non ho mai visto nessun soldato a scappare.
Io la guerra la vivevo con entusiasmo, per vincerla.
Noi dal Pasubio vedevamo Rovereto, io combattevo per arrivare a
Trento e Trieste. Dicevo ai miei
soldati: «Più la vinciamo questa guerra, più finisce presto ». Certo
massacri ce ne sono stati tanti. La colpa era di Cadorna che non aveva genialità.
La guerra l'hanno fatta i montanari e i contadini, l'80 per cento
del sangue versato in guerra era sangue contadino.
Ufficiali di carriera ne ho visti pochi o nessuno in prima linea,
erano tutti negli uffici, la guerra l'hanno fatta gli ufficiali di
complemento e i sergenti vecchi. Ai
contadini avevano promesso la terra, anch'io in parte ho creduto nelle
promesse della terra ai contadini. Nell'agosto
1919 ho
scritto sul «Popolo d'Italia»: «Noi dovremmo fare un governo con maggioranza
contadina».
(pag.
412-414)
Testimonianze tratte da una interessantissima ricerca
di Nuto Revelli che ha raccolto testimonianze di vita contadina (di area
piemontese) facendo ricostruire ai suoi intervistati (tutte persone
anziane) la loro biografia intorno ad alcuni temi (il lavoro, la famiglia,
l'emigrazione, la guerra, il fascismo, il confronto tra passato e presente
ecc). In molti dei discorsi si fa riferimento alla prima guerra mondiale.
(da Nuto Revelli, Il mondo dei vinti , Torino, Einaudi, 1977)
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