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Sulla prima guerra mondiale

L'ideale di patria

l'ideale di patria

L’ideale di patria esercitava scarsa o addirittura nessuna influenza sui comportamento della grande massa dei combattenti e specialmente dei fanti-contadini che costituivano la quasi totalità della fanteria. Si potrebbe essere tentati di riferire il fenomeno a ragioni storiche, politiche e sociali preesistenti alla guerra stessa. Si potrebbe cioè qui ricordare che l’impresa risorgimentale era stata compiuta da una minoranza, senza il concorso delle masse contadine; che i cinquant’anni di vita unitaria non erano stati sufficienti a far sI che quelle masse potessero sentirsi parte integrante della giovane nazione; che nel maggio 1915 lo stesso intervento era stato voluto da una minoranza in mezzo all’indifferenza dei più. Senonché tutte queste condizioni storiche, politiche e sociali ebbero certamente il loro peso, ma non bastarono a giustificare quanto avvenne. Innanzi tutto perché le esperienze della grande guerra furono tali da smorzare la fiamma degli ideali anche in quegli italiani che si sentivano parte integrante della nazione e che erano partiti alla volta del fronte pieni di patriottici ardori. In secondo luogo perché lo stesso fenomeno si riscontrò su larga scala anche in nazioni ed eserciti che possedevano storia, tradizioni e condizioni politico-sociali ben diverse da quelle della nazione e dell’esercito italiani. Già durante la guerra, per esempio, Georges Bonnet smentì le leggende sorte sul patriottismo dei fanti francesi: «Ce n’est pas l’idéee de la patrie, —scrisse — trop complexe pour la plupart de ces cerveaux frustes, qui les soutient dans leur tache, mais un des élements de cette idée: la famille, l’amour du sol, l’amitié» (29). Bonnet spiegò come anche ai fanti francesi non importasse un bel nulla della lotta tra civiltà e Kultur e di altri motivi ideali di questo tipo: «On sent qu’ils n’arrivent pas à prendre pleinement conscience des motifs qui les font agir»(30). Allo stesso modo padre Gemelli, riferendosi nel 1917 alla grande massa dei fanti italiani, dichiarò che: «Parlare di patria a riguardo di questi uomini semplici non ha alcun significato. Si tratta di uomini umili, che non hanno studiato, che non hanno per certo coscienza nazionale, né la visione storica dei destini della patria [...] Il soldato pensa a sé, alla sua famiglia, alla sua casa; non va oltre la linea dei suoi interessi; le parole di giustizia, di civiltà non risvegliano in lui un’eco profonda; forse perché noi abbiamo abusato troppo di esse e nei giornali e nelle conferenze. Io ho provato qualche volta a interrogare dei soldati in questo modo: «Sai tu che sei il campione della giustizia e della libertà?» I nostri uomini umili, intenti all’opera di trincea mi risposero: «Questo mi fa diventar grasso! — Sarebbe assai meglio che potessi tornare a casa mia». Il soldato nostro non sente altro che la voce dei suoi interessi. E’ un uomo.
Questo — proseguiva Gemelli — non significa affatto che egli sia insensibile ad ogni idealità. Al contrario. «Ma questa idealità deve rientrare nella sfera dei suoi interessi personali e coincidere con essi». Il soldato, pertanto, non farà alcun caso alle polemiche sulla cultura germanica, ma si riempirà d’ira davanti ad un ospedale bombardato o davanti alle mazze ferrate adoperate dagli austriaci per finire i prigionieri(32).
Un concetto così circoscritto della patria fece si che gli accenti epici comparissero molto di rado nelle canzoni spontaneamente sorte e rapidamente diffusesi tra i combattenti. Nella grande maggioranza quelle canzoni non nominarono quasi mai l’Italia ed espressero invece quasi sempre gli affetti familiari ed amorosi, i sentimenti dell’uomo, insomma, e non quelli del cittadino(33). Si diffusero inoltre fra i soldati numerose strofette e canzoni «proibite», che erano cantate in sordina e che nominavano la patria, il re o il gen. Cadorna, ma per schernirli, o, talvolta, per ingiuriarli(34).
I giornali ed i settimanali popolari offrivano l’immagine di un fante che balzava dalla trincea e si lanciava contro il nemico gridando alto il suo amor di patria, ma, secondo la testimonianza lasciataci dal Marpicati, la realtà era molto diversa, e perfino il grido di Savoia! era privo di alcun contenuto ideale: -Occorre per la verità ch’io dichiari come i nomi dolci e sacri di Patria e d’Italia, io non li abbia mai uditi pronunziare dalla massa avanzante sia nei combattimenti ai quali ho preso parte, sia in quelli a cui ho assistito da vicino. Sì- creature d’elezione, tanto ufficiali che soldati, hanno avanzato, sono morti con questi nomi sulle labbra. Ma la gran massa in questi momenti mugola e grida brutalmente. Grida: Savoia; ma è per abitudine; non è grido per lei di contenuto ideale; e un grido è fisicamente necessario al pugnante nella mischia; così accanto al grido di Savoia voi udite suoni gutturali, rauchi, lamentevoli, rabbiosi: udite il nome della mamma; mentre vi lacera l’orecchio una bestemmia(35).
Un’atmosfera che coinvolgeva tanto i fanti quanto i loro ufficiali, dato che «la piccolissima guerra» delle trincee, come la chiamava Gualtiero Castellini, inaridiva le menti di ognuno, ed anzi poneva in crisi molto più facilmente proprio quegli individui i quali avevano creduto di trovare nella guerra il mezzo per affermare dei valori ideali. L’impoverimento della vita psichica, scrisse padre Gemelli, esercita la sua influenza principalmente sugli ideali superiori della vita, e precisamente su quelli che sono in relazione con la vita del soldato. Così si spiega il fatto E. . .] che il soldato compie atti eroici non già per motivi ideali, ma per motivi comuni, umani, per un interesse immediato. Quasi sempre egli uccide per non essere ucciso, egli attacca per non essere cacciato dalla posizione che occupa, che è buona e nella quale è ben difeso. Con ciò non si vuol dire che egli è del tutto estraneo alle ragioni ideali della guerra, perché alla fine dei conti sono queste ragioni che gli hanno reso più facile l’abbandono della sua casa, e che nelle ore di riflessione gli rendono meno amare le privazioni […] Ma questi motivi ideali non sono permanenti che in pochi soggetti eccezionali. Nella maggioranza dei soldati, allorché son presi nell’ingranaggio della vita militare, anche se a casa loro si interessavano di politica e di azione sociale, queste perdono il loro significato(36).
Gli obbiettivi territoriali della guerra, riassunti nel binomio di Trento e Trieste, erano forse gli unici che i soldati potessero facilmente comprendere. Ma quegli obbiettivi non avevano per la grande massa un vero significato patriottico. Nel decennio precedente la prima guerra mondiale, il movimento irredentistico non aveva fatto quasi più parlare di sé, al punto che il ministro degli Esteri di San Giuliano, nel 1910, lo aveva addirittura dichiarato «morto». La guerra lo aveva fatto rinascere a nuova vita, ma la propaganda interventista non era certo riuscita a renderlo popolare. I fanti-contadini interpretavano la conquista del Trentino e della Venezia Giulia senza tener conto né del suo aspetto ideale né delle aspirazioni dell’Italia a diventare una grande potenza; molto più semplicisticamente essi valutavano quella conquista alla luce delle loro esperienze dirette e dei loro consueti problemi, scorgendo in essa, soprattutto, la presa di possesso di un territorio da arare e da seminare: «I contadini della grassa Romagna strabiliavano nel vedere la magra rossiccia fanghiglia carsica e domandavano agli ufficiali se valeva la pena di scatenare quell’ira di Dio per conquistare quella terra da pipe»( 37)
Circa la metà dell’esercito fu composta da contadini. Secondo i calcoli del Serpieri, su un totale di 5 milioni e 750 mila combattenti complessivamente richiamati durante l’intero conflitto, ben 2 milioni e 600 mila furono per l’appunto contadini(38). Quasi tutti appartennero alla fanteria, la più sacrificata di tutte le armi, destinata da sola a subire il 95 % delle perdite(39). Al principio della guerra fu possibile trovare tra i fanti anche degli operai, degli studenti, degli impiegati, ma quasi subito gli uffici, i comandi e le diverse specialità dell’esercito prelevarono dai reggimenti di linea fin l’ultimo specialista del ferro, dell’ago, della lesina, della calligrafia. «Chi è rimasto? —si domandò il Marpicati — Il modesto artista della zappa, lo sterratore siciliano, calabrese, lombardo, il lavoratore troppo sovente analfabeta, tornato dalle Americhe o da altre regioni lontane, docile al richiamo del paese, che s’è ricordato di lui forse solo perché ne aveva bisogno» (40) Al termine del conflitto, su un totale di 345 mila orfani di guerra, gli orfani dei contadini furono 218 mila, pari al 63 % del totale (41). La classe più contraria alla guerra offrì alla patria il maggior contributo di sangue. Questo sacrificio così grande ebbe notevolissime conseguenze, come meglio vedremo nelle pagine seguenti, e se i documenti che sono stati fin qui citati hanno dimostrato la vacuità di molti luoghi comuni sul patriottismo e l’effettivo stato d’animo dei combattenti, bisogna pur aggiungere che, attraverso l’esperienza dolorosa e drammatica della guerra, anche il fante-contadino cominciò ad avvertire sia pur confusamente la propria appartenenza ad una più vasta comunità.


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37. OMODEO, Momenti della vita di guerra cit., p. 394.
38. SERPIERI, La guerra e le classi rurali italiane cit., pp. 49-50.
39. Cfr. Inchiesta Caporetto, tav. 30 a p. 382.
40. A. MARPICATI, La proletaria cit., p. 10. Cfr. anche l’intervento di P. PIERI, in Benedetto XV, i cattolici e la prima guerra mondiale cit., p. 76.
41 Cfr. A. SERPIERI, La guerra e le classi rurali italiane cit., pp. 42-43.
Gli obbiettivi territoriali della guerra, riassunti nel binomio di Trento e Trieste, erano forse gli unici che i soldati potessero facilmente comprendere. Ma quegli obbiettivi non avevano per la grande massa un vero significato patriottico. Nel decennio precedente la prima guerra mondiale, il movimento irredentistico non aveva fatto quasi più parlare di sé, al punto che il ministro degli Esteri di San Giuliano, nel 1910, lo aveva addirittura dichiarato «morto». La guerra lo aveva fatto rinascere a nuova vita, ma la propaganda interventista non era certo riuscita a renderlo popolare. I fanti-contadini interpretavano la conquista del Trentino e della Venezia Giulia senza tener conto né del suo aspetto ideale né delle aspirazioni dell’Italia a diventare una grande potenza; molto più semplicisticamente essi valutavano quella conquista alla luce delle loro esperienze dirette e dei loro consueti problemi, scorgendo in essa, soprattutto, la presa di possesso di un territorio da arare e da seminare: «I contadini della grassa Romagna strabiliavano nel vedere la magra rossiccia fanghiglia carsica e domandavano agli ufficiali se valeva la pena di scatenare quell’ira di Dio per conquistare quella terra da pipe»( 37)
Circa la metà dell’esercito fu composta da contadini. Secondo i calcoli del Serpieri, su un totale di 5 milioni e 750 mila combattenti complessivamente richiamati durante l’intero conflitto, ben 2 milioni e 600 mila furono per l’appunto contadini(38). Quasi tutti appartennero alla fanteria, la più sacrificata di tutte le armi, destinata da sola a subire il 95 % delle perdite(39). Al principio della guerra fu possibile trovare tra i fanti anche degli operai, degli studenti, degli impiegati, ma quasi subito gli uffici, i comandi e le diverse specialità dell’esercito prelevarono dai reggimenti di linea fin l’ultimo specialista del ferro, dell’ago, della lesina, della calligrafia. «Chi è rimasto? —si domandò il Marpicati — Il modesto artista della zappa, lo sterratore siciliano, calabrese, lombardo, il lavoratore troppo sovente analfabeta, tornato dalle Americhe o da altre regioni lontane, docile al richiamo del paese, che s’è ricordato di lui forse solo perché ne aveva bisogno» (40) Al termine del conflitto, su un totale di 345 mila orfani di guerra, gli orfani dei contadini furono 218 mila, pari al 63 % del totale (41). La classe più contraria alla guerra offrì alla patria il maggior contributo di sangue. Questo sacrificio così grande ebbe notevolissime conseguenze, come meglio vedremo nelle pagine seguenti, e se i documenti che sono stati fin qui citati hanno dimostrato la vacuità di molti luoghi comuni sul patriottismo e l’effettivo stato d’animo dei combattenti, bisogna pur aggiungere che, attraverso l’esperienza dolorosa e drammatica della guerra, anche il fante-contadino cominciò ad avvertire sia pur confusamente la propria appartenenza ad una più vasta comunità.

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28 - L. BARTOLINI, 11 ritorno sul Carso, Milano 1930, pp. 136-37, opera ripudiata dall’autore. Cfr. [A. F. FORMIGGINI Chi è? Dizionario degli italiani d’oggi, Roma 1936, p. 64.
29 - G. BONNET, L’ame du soldat cit., p. 36-
30 - Ibid., pp. 123-24. Si vedano inoltre le osservazioni di J. MEYER, La vie quotidienne des soldats pendant la grande guerre, Paris 1967, pp. 260 sgg.
31 - A. GEMELLI, Il nostro soldato cit., p. 39.
32 - Ibid., pp. 39-40, ,53. Sui sentimenti dei soldati nei primi mesi di guerra cfr. inoltre: Il processo del maggiore Zunini al Tribunale di Guerra di Portogruaro, in «La Stampa» 17 dicembre 1915, p. 4. Il maggiore Carlo Zunini era il critico militare della «Stampa» di Torino e fu incriminato per lettere ed articoli spediti a Frassati e ad alcuni redattori di quel giornale. Chiamato alle armi, lo Zunini era stato addetto alla censura militare ed aveva pensato di preparare uno studio psicologico nel quale «dimostrare come i combattenti fossero più attaccati alla famiglia che non alle operazioni militari». Sul processo Zunini, durante il quale il Frassati fu convocato come teste, cfr. L. ALBERTINI, Vent’anni di vita politica cit., parte 11, p. 129, F. MARTINI, Diario cit., pp. 599-600.
33 - A. GEMELLI, Il nostro soldato cit., pp. 194-95, ove si legge «che la canzone militare raramente è patriottica, mentre di frequente è nostalgica, parla di un villaggio, di un campanile. Una tinta di ironia, di scherzo caratterizza la più parte delle canzoni; ma non manca la nota triste». Cfr. inoltre A. MARPICATI, La proletaria cit., p. 95: «La maggiore e migliore parte dei nostri canti militari, durante questa guerra, è quella inspirata dagli affetti famigliari ed amorosi».
34- Sui canti dei soldati esiste una assai vasta letteratura, in merito alla quale ci limiteremo qui a ricordare C. CARAVAGLIOS, I canti delle trincee (contributo al folclore di guerra), Roma 1935 (con bibliografia); P. JAHIER, Canti di zoldati, Firenze 1920; L. MERCURI-C. TUZZI, Canti politici italiani (1793-1945), Roma 1962, pp. 255-61; M.L. STRANIERO5. LIBEROVICI, Canti di protesta, in «Il Contemporaneo », giugno 1961, pp. 152-64.
35 - A. MARPICATI, Li proletaria cit., pp. 24-25.
36 - A.GEMELLI, Il nostro soldato, cit., p. 52
37. OMODEO, Momenti della vita di guerra cit., p. 394.
38. SERPIERI, La guerra e le classi rurali italiane cit., pp. 49-50.
39. Cfr. Inchiesta Caporetto, tav. 30 a p. 382.
40. A. MARPICATI, La proletaria cit., p. 10. Cfr. anche l’intervento di P. PIERI, in Benedetto XV, i cattolici e la prima guerra mondiale cit., p. 76.
41 Cfr. A. SERPIERI, La guerra e le classi rurali italiane cit., pp. 42-43.37. OMODEO, Momenti della vita di guerra cit., p. 394.
38. SERPIERI, La guerra e le classi rurali italiane cit., pp. 49-50.
39. Cfr. Inchiesta Caporetto, tav. 30 a p. 382.
40. A. MARPICATI, La proletaria cit., p. 10. Cfr. anche l’intervento di P. PIERI, in Benedetto XV, i cattolici e la prima guerra mondiale cit., p. 76.
41 Cfr. A. SERPIERI, La guerra e le classi rurali italiane cit., pp. 42-43.

da Piero Melograni, Storia politica della grande guerra, ed Universale Laterza, Bari 1977, vol primo