Andare all'assalto
   

Il cannone aveva ottenuto, per solo risultato, la ferita del puntatore e del tenente. I guastatori erano caduti tutti. Ma l'assalto doveva aver luogo egualmente. Il generale era sempre là, come un inquisitore, deciso ad assistere, fino alla fine, al supplizio dei condannati. Mancavano pochi minuti alle 9.

Il battaglione era pronto, le baionette innestate. La 9° compagnia era tutta ammassata attorno alla breccia dei guastatori. La 10° veniva subito dopo. Le altre compagnie erano serrate, nella trincea e nei camminamenti e dietro i roccioni che avevamo alle spalle. Non si sentiva un bisbiglio. Si vedevano muoversi le borracce di cognac. Dalla cintura alla bocca, dalla bocca alla cintura, dalla cintura alla bocca. Senza arresto, come le spolette d'un grande telaio, messo in movimento.

Il capitano Bravini aveva l'orologio in mano, e seguiva, fissamente, il corso inesorabile dei minuti. Senza levare gli occhi dall'orologio gridò:

- Pronti per l'assalto! Poi riprese ancora:
- Pronti per l'assalto! Signori ufficiali, in testa ai reparti!

Il sergente dei guastatori ferito continuava a gridare: - Avan...

Gli occhi dei soldati, spalancati, cercavano i nostri occhi. Il capitano era sempre chino sull'orologio e i soldati trovarono solo i miei occhi. Io mi sforzai di sorridere e dissi qualche parola a fior di labbra; ma quegli occhi, pieni di interrogazione e di angoscia, mi sgomentarono.

- Pronti per l'assalto! - ripeté ancora il capitano.

Di tutti i momenti della guerra, quello precedente l'assalto era il piú terribile.

L'assalto! Dove si andava? Si abbandonavano i ripari e si usciva. Dove? Le mitragliatrici, tutte, sdraiate sul ventre imbottito di cartucce, ci aspettavano. Chi non ha conosciuto quegli istanti, non ha conosciuto la guerra.

Le parole del capitano caddero come un colpo di scure. La 9° era in piedi, ma io non la vedevo tutta, talmente era addossata ai parapetti della trincea. La 10° stava di fronte, lungo la trincea, e ne distinguevo tutti i soldati. Due soldati si mossero ed io li vidi, uno a fianco dell'altro, aggiustarsi il fucile sotto il mento. Uno si curvò, fece partire il colpo e s'accovacciò su se stesso. L'altro l'imitò e stramazzò accanto al primo. Era codardia, coraggio, pazzia? Il primo era un veterano del Carso.

- Savoia! - gridò il capitano Bravini. - Savoia! - ripeterono i reparti.

E fu un grido urlato come un lamento ed un'invocazione disperata. La 9°, tenente Avellini in testa, superò la breccia e si slanciò all'assalto. Il generale e il colonnello erano alle feritoie.

-Il comando di battaglione esce con la 10°, - gridò il capitano.

E quando la testa della i10° fu alla breccia, noi ci buttammo innanzi. La 10°, la 11° e la 12°, seguirono di corsa. In pochi secondi tutto il battaglione era di fronte alle trincee nemiche.

Che noi avessimo gridato o no, le mitragliatrici nemiche ci attendevano. Appena oltrepassammo una striscia di terreno roccioso ed incominciammo la discesa verso la vallata, scoperti, esse aprirono il fuoco. Le nostre grida furono coperte dalle loro raffiche. A me sembrò che contro di noi tirassero dieci mitragliatrici, talmente il terreno fu attraversato da scoppi e da sibili. I soldati colpiti cadevano pesantemente come se fossero stati precipitati dagli alberi.

Per un momento, io fui avvolto da un torpore mentale e tutto il corpo divenne lento e pesante. Forse sono ferito, pensavo. Eppure sentivo di non essere ferito. I colpi vicini delle mitragliatrici e l'incalzare dei reparti che avanzavano alle spalle mi risvegliarono. Ripresi subito coscienza del mio stato. Non rabbia, non odio, come in una rissa, ma una calma completa, assoluta, una forma di stanchezza infinita attorno al pensiero lucido. Poi anche quella stanchezza scomparve e ripresi la corsa, veloce.

Ora, mi sembrava di essere ridivenuto calmo, e vedevo tutto attorno a me. Ufficiali e soldati cadevano con le braccia tese e, nella caduta, i fucili venivano proiettati innanzi, lontano. Sembrava che avanzasse un battaglione di morti. Il capitano Bravini non cessava di gridare:

- Savoia!

Un tenente della IIa mi passò vicino. Era rosso in viso e impugnava un moschetto. Era un repubblicano e aveva in odio il grido d'assalto monarchico. Egli mi vide e gridò:

- Viva l'Italia!

Io avevo in mano il bastone da montagna. Lo levai in alto per rispondergli, ma non potei pronunciare una parola. Se noi ci fossimo trovati su un terreno piano, nessuno di noi sarebbe arrivato ai reticolati nemici. Le mitragliatrici ci avrebbero falciati tutti. Ma il terreno era leggermente in discesa e coperto di cespugli e di sassi. Le mitragliatrici erano obbligate continuamente a spostare l'elevazione e il puntamento, e il tiro perdeva della sua efficacia. Non pertanto, le ondate d'assalto diradavano e su mille uomini del battaglione, pochi restavano in piedi ed avanzavano. Io guardai verso le trincee nemiche. I difensori non erano nascosti, dietro le feritoie. Erano tutti in piedi e sporgevano oltre la trincea. Essi si sentivano sicuri. Parecchi erano addirittura dritti sui parapetti. Tutti sparavano su di noi, puntando calmi, come in piazza d'armi.

Io urtai contro il sergente dei guastatori. Egli era rovesciato su un fianco, cinto della corazza, l'elmetto forato da parte a parte. Era stato colpito alla testa, mentre incitava i suoi compagni, e ripeteva il grido che gli era stato troncato, con una cantilena pietosa:

- Avan... avan...

Attorno, giacevano tre guastatori, con le corazze squarciate.

Giungevamo alle trincee. Anche il capitano Bravini cadde colpito, ed io lo vidi, le braccia aperte, sprofondarsi in un cespuglio. Lo credetti morto. Ma, subito dopo, ne sentii il grido di « Savoia! » ripetuto, ad intervalli, con voce fioca.

Il battaglione doveva attaccare su un fronte di 250­300 metri. Ma l'avvallamento del terreno ci aveva involontariamente sospinti, man mano che avanzavamo, verso la stessa striscia di terreno antistante alle trincee nemiche, larga appena una cinquantina di metri. Le mitragliatrici non potevano piú colpirci, ma noi offrivamo, ai tiratori in piedi, un bersaglio compatto. I resti del battaglione erano tutti ammassati in quel punto. Contro di noi si sparava a bruciapelo.

D'un tratto, gli austriaci cessarono di sparare. Io vidi quelli che ci stavano di fronte, con gli occhi spalancati e con un'espressione di terrore quasi che essi e non noi fossero sotto il fuoco. Uno, che era senza fucile, gridò in italiano:

- Basta! Basta!

- Basta! - ripeterono gli altri, dai parapetti.

Quegli che era senz'armi mi parve un cappellano. - Basta! bravi soldati. Non fatevi ammazzare cosí. Noi ci fermammo, un istante. Noi non sparavamo, essi non sparavano. Quegli che sembrava un cappellano, si curvava talmente verso di noi, che, se io avessi teso il braccio, sarei riuscito a toccarlo. Egli aveva gli occhi fissi su di noi. Anch'io lo guardai.

Dalla nostra trincea, una voce aspra si levò:

- Avanti! soldati della mia gloriosa divisione. Avanti! Avanti, contro il nemico!

Era il generale Leone.

Il tenente Avellini era a qualche metro da me. Ci guardammo l'un l'altro. Egli disse:

- Andiamo avanti. Io ripetei:

- Andiamo avanti.

Io non avevo la pistola in pugno, ma il bastone da montagna. Non mi venne in mente d'impugnare la pistola. Lanciai il bastone contro gli austriaci. Qualcuno lo raccolse per aria. Avellini aveva la pistola in mano. Egli si fece avanti, cercando di passare su un tronco rovesciato sopra i reticolati intatti. Era il tronco d'un abete che, schiantato da una granata, s'era abbattuto sui fili di ferro. Egli vi era montato sopra e procedeva con difficoltà, come su una passerella. Sparò un colpo di pistola e gridò ai soldati:

- Ma sparate dunque! Fuoco! Qualche soldato sparò.

- Avanti! Avanti! - urlava il generale.

Avellini camminava sul tronco e faceva degli sforzi per mantenere l'equilibrio. Dietro di lui, due soldati si reggevano a stento. Io ero arrivato a una difesa di reticolati in cui mi sembrò si potesse passare. Attraverso i fili, infatti, v'era un passaggio stretto. Io l'infilai. Ma, fatto qualche passo, trovai lo sbarramento d'un cavallo di frisia. Era impossibile continuare. Mi voltai e vidi soldati della 10° che mi seguivano. Rimasi li, inchiodato. Dalle trincee, nessuno sparava. In una ampia feritoia, di fronte, scorsi la testa d'un soldato. Egli mi guardava. Io non ne vidi che gli occhi. Vidi solo gli occhi. E mi sembrò ch'egli non avesse che occhi, talmente mi parvero grandi. Lentamente, io feci dei passi indietro, senza voltarmi, sempre sotto lo sguardo di quei grandi occhi. Allora io pensai: gli occhi di un bue.

Mi svincolai dai reticolati e mi diressi contro Avellini.

Sul tronco v'era già un gruppo di soldati in piedi, aggrappati fra di loro. Mentre io mi avvicinavo al tronco, dalla trincea nemica, una voce di comando gridò alta, in tedesco:

- Fuoco!

Dalla trincea, partirono dei colpi. Il tronco si rovesciò e gli uomini caddero indietro. Avellini non era ferito e rispose con dei colpi di pistola. Tutti ci buttammo a terra, fra i cespugli, e ci riparammo dietro gli abeti. L'assalto era finito. Io ho impiegato molto tempo a descriverlo, ma esso doveva essersi svolto in meno d'un minuto. Avellini era vicino e mi bisbigliò: - Che dobbiamo fare?

- Non muoverci piú e attendere fino a notte, - risposi. - E l'assalto? - insistette.

- L'assalto?

Gli austriaci continuavano a sparare, ma il tiro era alto. Noi eravamo al sicuro. La voce del capitano Bravini arrivava fino a noi, stanca. Egli continuava a ripetere « Savoia ». Carponi, io mi misi alla ricerca del capitano. Credo che vi arrivai in un'ora. Egli era disteso, la testa dietro un sasso, una mano sulla testa. Senza la giubba, aveva un braccio fasciato, coperto di sangue. Al suo fianco, non v'erano che morti. Egli si doveva essere fasciato da sé. I cespugli lo riparavano dalla vista delle trincee. Io gli arrivai vicino, senza ch'egli se ne accorgesse. Lo toccai ad una gamba ed egli mi vide. Mi guardò a lungo e ripeté ancora, abbassando la voce:

- Savoia.

Io mi portai l'indice alla bocca per invitarlo a tacere. Strisciai fino alla sua testa e gli mormorai all'orecchio: - Stia zitto!

Egli parve risvegliarsi da un lungo sonno. Mise anch'egli l'indice alla bocca e non parlò piú. Fu come se io avessi toccato il bottone d'un congegno meccanico e lo avessi fermato.

Ora, tutta la vallata taceva. I nostri feriti non si lamentavano piú. Anche il sergente dei guastatori taceva, sprofondato nell'eterno silenzio. Neppure gli austriaci sparavano piú. Sul piccolo campo di battaglia batteva il sole. Cosí passò il resto di quel giorno, un attimo ed un'eternità.

Quando, la notte, rientrammo alle nostre linee, il generale volle stringere la mano a tutti gli ufficiali; cinque, compresi i feriti. Allontanandosi, disse al capitano Bravini, che aveva l'avambraccio fratturato:

- Lei può contare su una medaglia d'argento al valor militare sul campo.

Il capitano stette sull'attenti finché il generale non scomparve. Rimasto solo con noi, si sedette e pianse tutta la notte, senza riuscire a pronunziare una parola.

Finito il ritiro dei feriti e dei morti, che gli austriaci ci lasciarono raccogliere senza sparare un colpo, io mi ero sdraiato, cercando di dormire. La testa mi era leggera, leggera, e mi sembrava di respirare con il cervello. Ero sfinito, ma non riuscivo a prendere sonno. Il professore di greco venne a trovarmi. Egli era depresso. Anche il suo battaglione aveva attaccato, piú a sinistra, ed era stato distrutto, come il nostro. Egli mi parlava con gli occhi chiusi.

- Io ho paura di diventare pazzo, - mi disse. - Io divento pazzo. Un giorno o l'altro, io mi uccido. Bisogna uccidersi.

Io non seppi dirgli niente. Anch'io sentivo delle ondate di follia avvicinarsi e sparire. A tratti, sentivo il cervello sciaguattare nella scatola cranica, come l'acqua agitata in una bottiglia.

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