Il
nemico Addossati
al cespuglio, il caporale ed io rimanemmo in agguato tutta la notte,
senza riuscire a distinguere segni di vita nella trincea nemica. Ma
l'alba ci compensò dell'attesa. Prima, fu un muoversi confuso di
qualche ombra nei camminamenti, indi, in trincea, apparvero dei soldati
con delle marmitte. Era certo la corvée del caffè. I soldati passavano,
per uno o per due, senza curvarsi, sicuri com'erano di non esser visti,
ché le trincee e i traversoni laterali li proteggevano
dall'osservazione e dai tiri d'infilata della nostra linea. Mai avevo
visto uno spettacolo eguale. Ora erano là, gli austriaci: vicini, quasi
a contatto, tranquilli, come i passanti su un marciapiede di città. Ne
provai una sensazione strana. Stringevo forte il braccio del caporale
che avevo alla mia destra, per comunicargli, senza voler parlare, la mia
meraviglia. Anch'egli era attento e sorpreso, e io ne sentivo il tremito
che gli dava il respiro lungamente trattenuto. Una vita sconosciuta si
mostrava improvvisamente ai nostri occhi. Quelle trincee, che pure noi
avevamo attaccato tante volte inutilmente, cosí viva ne era stata la
resistenza, avevano poi finito con l'apparirci inanimate, come cose
lugubri, inabitate da viventi, rifugio di fantasmi misteriosi e
terribili. Ora si mostravano a noi, nella loro vera vita. Il nemico, il
nemico, gli austriaci, gli austriaci!... Ecco
il nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e soldati come noi,
fatti come noi, in uniforme come noi, che ora si muovevano, parlavano e
prendevano il caffè, proprio come stavano facendo, dietro di noi, in
quell'ora stessa, i nostri stessi compagni. Strana cosa. Un'idea simile
non mi era mai venuta alla mente. Ora prendevano il caffè. Curioso! E
perché non avrebbero dovuto prendere il caffè? Perché mai mi appariva
straordinario che prendessero il caffè? E, verso le 10 o le 11,
avrebbero anche consumato il rancio, esattamente come noi. Forse che il
nemico può vivere senza bere e senza mangiare? Certamente no. E allora,
quale la ragione del mio stupore? Ci
erano tanto vicini e noi li potevamo contare, uno per uno. Nella
trincea, fra due traversoni, v'era un piccolo spazio tondo, dove
qualcuno, di tanto in tanto, si fermava. Si capiva che parlavano, ma la
voce non arrivava fino a noi. Quello spazio doveva trovarsi di fronte a
un ricovero più grande degli altri, perché v'era attorno maggior
movimento. Il movimento cessò all'arrivo d'un ufficiale. Dal modo con
cui era vestito, si capiva ch'era un ufficiale. Aveva scarpe e gambali
di cuoio giallo e l'uniforme appariva nuovissima. Probabilmente, era un
ufficiale arrivato in quei giorni, forse uscito appena da una scuola
militare. Era giovanissimo e il biondo dei capelli lo faceva apparire
ancora piú giovane. Sembrava non dovesse avere neppure diciott'anni. Al
suo arrivo, i soldati si scartarono e, nello spazio tondo, non rimase
che lui. La distribuzione del caffè doveva incominciare in quel
momento. Io non vedevo che l'ufficiale. Io
facevo la guerra fin dall'inizio. Far la guerra, per anni, significa
acquistare abitudini e mentalità di guerra. Questa caccia grossa fra
uomini non era molto dissimile dall'altra caccia grossa. Io non vedevo
un uomo. Vedevo solamente il nemico. Dopo tante attese, tante pattuglie,
tanto sonno perduto, egli passava al varco. La caccia era ben riuscita.
Macchinalmente, senza un pensiero, senza una volontà precisa, ma cosí,
solo per istinto, afferrai il fucile del caporale. Egli me lo abbandonò
ed io me ne impadronii. Se fossimo stati per terra, come altre notti,
stesi dietro il cespuglio, è probabile che avrei tirato immediatamente,
senza perdere un secondo di tempo. Ma ero in ginocchio, nel fosso
scavato, ed il cespuglio mi stava di fronte come una difesa di tiro a
segno. Ero come in un poligono e mi potevo prendere tutte le comodità
per puntare. Poggiai bene i gomiti a terra, e cominciai a puntare. L'ufficiale
austriaco accese una sigaretta. Ora egli fumava. Quella sigaretta creò
un rapporto improvviso fra lui e me. Appena ne vidi il fumo, anch'io
sentii il bisogno di fumare. Questo mio desiderio mi fece pensare che
anch'io avevo delle sigarette. Fu un attimo. Il mio atto del puntare,
ch'era automatico, divenne ragionato. Dovetti pensare che puntavo, e che
puntavo contro qualcuno. L'indice che toccava il grilletto allentò la
pressione. Pensavo. Ero obbligato a pensare. Certo,
facevo coscientemente la guerra e la giustificavo moralmente e
politicamente. La mia coscienza di uomo e di cittadino non erano in
conflitto con i miei doveri militari.
La guerra era, per me, una dura necessità, terribile certo, ma alla
quale ubbidivo, come ad una delle tante necessità, ingrate ma
inevitabili, della vita. Pertanto facevo la guerra e avevo il comando di
soldati. La facevo dunque, moralmente, due volte. Avevo già preso parte
a tanti combattimenti. Che io tirassi contro un ufficiale nemico era
quindi un fatto logico. Anzi, esigevo che i miei soldati fossero attenti
nel loro servizio di vedetta e tirassero bene, se il nemico si scopriva.
Perché non avrei, ora, tirato io su quell'ufficiale? Avevo il dovere di
tirare. Sentivo che ne avevo il dovere. Se non avessi sentito che quello
era un dovere, sarebbe stato mostruoso che io continuassi a fare la
guerra e a farla fare agli altri. No, non v'era dubbio, io avevo il
dovere di tirare. E
intanto, non tiravo. Il mio pensiero si sviluppava con calma. Non ero
affatto nervoso. La sera precedente, prima di uscire dalla trincea,
avevo dormito quattro o cinque ore: mi sentivo benissimo: dietro il
cespuglio, nel fosso, non ero minacciato da pericolo alcuno. Non avrei
potuto essere piú calmo, in una camera di casa mia, nella mia città. Forse,
era quella calma completa che allontanava il mio spirito dalla guerra.
Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che gli
sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi a
quella distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il
grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua
vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un
uomo. Un uomo! Cominciai
a pensare che, forse, non avrei tirato. Pensavo. Condurre all'assalto
cento uomini, o mille, contro cento altri o altri mille è una cosa.
Prendere un uomo, staccario
dal resto degli uomini e poi dire: « Ecco, sta' fermo, io ti sparo, io
t'uccido » è un'altra. È assolutamente un'altra cosa. Fare la guerra
è una cosa, uccidere un uomo è un'altra cosa. Uccidere un uomo, cosí,
è assassinare un uomo. -
Sai... cosí... un uomo solo... io non sparo. Tu, vuoi? Il caporale
prese il calcio del fucile e mi rispose: |