Eric Maria Remarque

da Niente di nuovo sul fronte occidentale

in una buca durante l'attacco

Me ne sto curvo in una grande buca, con le gambe nell’acqua fino alla vita: Se l’attacco si sferra, mi immergerò nell’acqua quanto più poso senza affogare, con la faccia nella mota, facendo il morto.
(..) 
Si è fatto un poco chiaro. Passi affrettati mi sfiorano. I primi. Si allontanano. Altri ancora. Il crepitare delle mitragliatrici si estende a una catena ininterrotta. Sto per voltarmi un poco e cambiar posizione, quand'ecco qualcosa ruzzola giú - un tonfo in acqua - un corpo pesante è cascato nella buca, addosso a me...
Non penso, non decido, colpisco pazzamente, sento che il corpo sussulta, e poi si affloscia e s'insacca: quando ritorno in me, ho la mano bagnata, viscida...
L'altro rantola. Ho l'impressione che urli, ogni suo respiro è come un grido, un tuono, ma sono soltanto le mie arterie che battono. Vorrei tappargli la bocca, riempirla di terra, pugnalarlo ancora: deve tacere, mi tradisce; ma sono già tanto tornato in me, e sono ad un tratto cosí debole, che non posso piú alzar la mano contro di lui.
Mi trascino dunque nell'angolo piú lontano, e resto là, con gli occhi sbarrati, il coltello in pugno, pronto, se si muove, a saltargli addosso un'altra volta... Ma non farà piú nulla, lo sento dal suo rantolare.
In confuso posso vederlo. E provo un desiderio solo, venirmene via. Se non parto subito diventerà troppo chiaro: già ora è difficile. Ma quando tento di alzare la testa, vedo già che è impossibile. Il fuoco delle mitragliatrici è cosí fitto, che sarei crivellato prima di fare un sol balzo.
Faccio la prova col mio elmo, sollevandolo un poco per constatare la radenza del tiro. Dopo un istante una pallottola me lo strappa di mano: dunque il fuoco passa proprio a fior di terra. E non sono abbastanza lontano dalla posizione nemica perché qualche tiratore scelto non mi colga subito, al primo tentativo di fuga.
L'aria schiarisce sempre piú. Aspetto febbrilmente un attacco dei nostri. Le nocche delle dita sembravano voler bucare la pelle, con tanto spasimo stringo i pugni, supplicando che il fuoco cessi e che i miei compagni arrivino.
I minuti stillano ad uno ad uno. Non oso piú guardare l'oscura figura dell’altro, che è con me nella buca.
Guardo fissamente piú in là, e aspetto, aspetto. I colpi sibilano, formano una rete d'acciaio sopra il mio capo, e non cessano mai, non cessano mai.
Guardo la mia mano insanguinata, e all'improvviso provo un senso di nausea: prendo un po' di terra e la sfrego sulla mano; così almeno si sporca, e non vedo piú il sangue.
Il fuoco non diminuisce: ora è egualmente intenso dalle due parti. Certo i nostri mi hanno dato per morto da un pezzo.
E’ giorno, un mattino chiaro e grigio. Il rantolo continua. Io mi tappo le orecchie, ma poi subito riapro le mani, perché altrimenti non odo piú gli altri rumori.
La figura dinanzi a me fa un movimento. Trasalisco e involontariamente guardo da quella parte. E i miei occhi rifrangono fissi, come sì fossero inchiodati. È un uomo con un paio di buffetti; la testa gli pende da un lato e posa inerte sul braccio a metà piegato. L'altra mano preme il petto, nero di sangue.
È morto, dico a me stesso: deve esser morto, non sente piú nulla; chi rantola è soltanto il suo corpo. Ma la testa tenta di sollevarsi, il gemito si fa per un istante piú forte, poi la fronte ricade sul braccio. L'uomo non è morto; muore, ma non è morto ancora. Mi trascino verso di lui, mi arresto, punto sulle mani, poi scivolo un po' piú in là, aspetto ancora: un orribile cammino di tre metri, un lungo, terribile viaggio. Finalmente eccomi presso di lui.
Allora apre gli occhi: deve avermi sentito, e mi fissa con un'espressione di indicibile orrore. Il corpo giace immobile, ma negli occhi gli leggo che vuol fuggire, una volontà di fuga cosí tremenda, che per un attimo mi pare che abbiano la forza di rapir lontano quella povera salma, via, lontano, a centinaia di chilometri, d'un sol balzo. Il corpo è immobile, perfettamente tranquillo, muto ormai, perché il rantolo è cessato; ma gli occhi gridano, urlano, tutta la vita si raccoglie in uno sforzo immenso, di fuggire, di fuggire; in uno spaventoso orrore della morte... e di me.
Io mi accascio a terra, sui gomiti: « No, no » mormoro.
I suoi occhi mi seguono. Sion posso fare un movimento, finché mi fissano cosí.
Adagio adagio la sua mano si stacca dal petto, solo un piccolo tratto, pochi centimetri. Ma basta quel movimento a sciogliere l'incubo di quello sguardo. Mi piego su di lui, scuoto la testa e mormoro: « No, no, no » e alzo la mano, per mostrargli che lo voglio aiutare, e gli sfioro la fronte.
A quel tocco ali occhi sembrano ritrarsi ormai perdono la loro fissità, le ciglia si abbassano alquanto, la tensione cede. Allora gli sgancio il bavero, e cerco di poggiare piú comodamente la sua testa.
La bocca è semiaperta e si sforza di formulare parole. Ma le labbra sono aride. Non ho con me la borraccia, l'ho lasciata in trincea. Ma c'è dell'acqua motosa, giú nel fosso. Scendo, tiro fuori il fazzoletto, lo spiego nella melma, raccolgo nella mano l'acqua gialla che ne filtra. Egli la beve. Vado a prenderne ancora. Poi gli slaccio la giubba, per bendarlo, se si può. Devo fare cosí ad ogni modo, affinché quelli di là, se mi fanno prigioniero, vedano che ho cercato di soccorrere il loro compagno e non mi fucilano sul posto. Egli cerca di schermirsi, ma la sua mano è troppo debole. La camicia è attaccata alla piaga e non si lascia aprire; non mi resta che tagliarla.
Allora cerco e ritrovo il mio coltello; ma quando comincio a tagliare la camicia, quegli occhi si spalancano di nuovo, e di nuovo v'è in essi quel grido, quel delirio, cosicché sono costretto a chiuderli, a tener le dita sulle palpebre, mentre mormoro: « Ma no, ma ti voglio soccorrere, compagno, camarade, camarade... ». E ripeto con insistenza la parola, perché la capisca.
Sono tre pugnalate. Il mio pacchetto di medicazione le fascia, ma il sangue scorre sotto le bende; le comprimo e il ferito geme.
È tutto quello che posso fare. Ora non resta che aspettare, aspettare... 

Che ore! Il rantolo ricomincia: come è lento a morire un uomo! Perché lo so: salvarlo non è possibile. Ho bensí cercato di illudermi, ma verso mezzogiorno il suo gemito ha dissipato il mio inganno. Se nell'avanzare non avessi perduto la mia rivoltella, lo finirei con una palla. Ma pugnalarlo non posso.
Verso mezzogiorno la mia mente tituba ai margini dell'incoscienza. La fame mi rode i visceri; quasi piango di rabbia per questo voler mangiare, ma non me ne posso difendere. Piú volte vado a prendere acqua pel moribondo, e ne bevo io stesso.
È la prima creatura umana che io abbia ucciso con le mie mani, che io possa veder da vicino, e la cui morte sia opera mia. Kat e Kropp e MuIler hanno già visto, quando hanno colpito qualcuno in un corpo a corpo, come spesso accade...
Ma ogni suo respiro mi strappa il cuore. Questo morente ha per sé le ore, ha un pugnale invisibile col quale mi colpisce: il tempo e il mio pensiero.
Non so che cosa darei perché rimanesse in vita. E’ duro starsene qui, doverlo vedere, doverlo udire...
Alle tre del pomeriggio è morto.
Respiro: ma per poco tempo. Il silenzio mi sembra ben presto anche piú insopportabile che quel gemere di prima. Vorrei che il rantolo ricominciasse, roco, interrotto, ora fischiando piano e ora piú aspro e piú forte.
È stupido quello che faccio. Ma ho bisogno di occuparmi. E dunque metto il morto in una posizione piú comoda, benché non senta piú nulla. Gli chiudo gli occhi. Sono castani; i capelli neri, con qualche riccio sulle tempie.
La bocca è carnosa e tenera sotto i baffi; un po' arcuato il naso, bruna la pelle, non piú livida, come poc'anzi, mentre era ancora in vita. Per un istante il viso sembra anzi riacquistar salute; poi subito si trasfigura in quel viso spento dei cadaveri che ho visto tante volte e che li fa tutti uguali.
Certo, sua moglie ora penserà a lui: essa non sa quello che gli è accaduto. Egli ha l'aria d'un uomo che scriva spesso alla moglie: ed ella riceverà ancora lettere di lui, domani, tra una settimana, forse una lettera perduta ancora fra un mese. Ella le leggerà, ed egli le parlerà ancora.
Il mio stato peggiora sempre, non sono piú padrone dei miei pensieri. Come sarà quella donna? Assomiglierà alla sottile bruna, di là dal canale? Non mi appartiene un po'? Forse è mia, ora che ho ucciso il suo uomo. Oh se avessi vicino Kantorek! Se mia madre mi vedesse cosí... Quest'uomo avrebbe potuto campare altri trent'anni, se io mi fossi impresso meglio la via del ritorno. Se fosse passato due metri piú a sinistra, a quest'ora sarebbe là, nella sua trincea, e scriverebbe un'altra lettera alla sua donna.
Ma questi pensieri conchiudono a poco: si sa che è il destino di tutti noi; se Kemmerich avesse tenuto la sua gamba dieci centimetri piú a destra... se Haje si fosse curvato cinque centimetri piú basso... 

Il silenzio diventa lungo e vasto. lo mi metto a parlare, debbo parlare. Mi rivolgo al morto e gli dico: « Compagno, io non ti volevo uccidere. Se tu saltassi un'altra volta qua dentro, io non ti ucciderei, purché anche tu fossi ragionevole. Ma prima tu eri per me solo un'idea, una formula di concetti nel mio cervello, che determinava quella risoluzione. Io ho pugnalato codesta formula. Soltanto ora vedo che sei un uomo come me. Allora pensai alle tue bombe a mano, alla tua baionetta, alle tue armi; ora vedo la tua donna, il tuo volto e quanto ci somigliamo. Perdonami, compagno! Noi vediamo queste cose sempre troppo tardi. Perché non ci hanno mai detto che voi siete poveri cani al par di noi, che le vostre mamme sono in angoscia per voi, come per noi le nostre, e che abbiamo lo stesso terrore, e la stessa morte e lo stesso patire... Perdonami, compagno, come potevi tu essere mio nemico? Se gettiamo via queste armi e queste uniformi, potresti essere mio fratello, come Kat, come Alberto.
Prenditi venti anni della mia vita, compagno, e alzati; prendine di piú, perché io non so che cosa ne potrò mai fare ».
Silenzio. Il fronte è tranquillo, salvo il crepitare della fucileria. Il tiro è fitto, non si spara a caso, si mira bene da ambe le parti. Uscire è impossibile.
« Scriverò io a tua moglie » mormoro in fretta al morto « le scriverò, avrà la notizia da me, le dirò tutto quello che dico a te, non deve patire voglio soccorrer la lei e i tuoi genitori e il tuo bambino. »
La sua uniforme è ancora a metà aperta. Il portafogli si trova facilmente. Ma esito a mettervi le mani. C'è dentro il libretto personale. Finché non so il suo nome potrò forse ancora dimenticare, il tempo cancellerà la sua immagine. Ma il suo nome è un chiodo che si pianterà in me e non si potrà strappare mai piú. E avrà il potere di rievocare ad ogni istante questa scena: tutto ritornerà e ricomparirà davanti a me.
Indeciso, tengo in mano il portafogli. Mi sfugge dalle dita e si apre; ne cadono alcune fotografie, qualche lettera. Raccatto ogni cosa e vorrei riporre tutto a suo luogo, ma la tensione in cui mi dibatto, l'incertezza della situazione, la fame, il pericolo, queste ore in compagnia del morto mi hanno reso disperato: voglio affrettare lo scioglimento, accrescere la tortura perché abbia fine, cosí come si sbatte una mano atrocemente dolorante contro un tronco d'albero, accada ciò che vuole.
Sono i ritratti di una donna e d'una bambina, piccole fotografie da dilettante, davanti a un muro vestito d'edera. Poi le lettere. Le traggo dalle buste e tento di leggerle. Capisco ben poco, son difficili da decifrare, e il mio francese è scarso. Ma ogni parola che riesco a intendere è come una fucilata, come una pugnalata nel petto.
Sento che perdo la testa: ma una cosa comprendo bene, che a questa gente non dovrò mai scrivere, come pensavo di fare poc'anzi. È impossibile. Guardo ancora una volta i due ritratti; non è gente ricca. Potrò mandare loro danaro, senza svelarmi, se un giorno guadagnerò qualcosa. M'aggrappo a questa idea, che è un piccolo punto fermo.
Questo morto è legato alla mia vita; perciò, se voglio salvarmi, devo fare tutto per lui, promettergli tutto; faccio voto, ciecamente, che vivrò d'ora innanzi soltanto per lui e per la sua famiglia, e continuo a parlargli con labbra umide, e nel mio profondo c'è la speranza che in questo modo io mi riscatti, e possa forse uscir salvo di qui, e, piú in fondo ancora, la piccola riserva mentale che dopo ci sarà tempo e si vedrà. Perciò apro il libretto e leggo lentamente: Gérard Duval, tipografo. Con la matita del morto trascrivo l'indirizzo su una busta, e con improvvisa fretta ripongo tutto il resto nella sua giubba.
lo dunque ho ucciso il tipografo Gérard Duval. Io devo diventar tipografo, penso tutto smarrito, devo diventar tipografo, tipografo...

Dopo mezzogiorno mi sento piú calmo. La mia paura era infondata: il nome non mi turba piú. Quella febbre è passata. « Compagno » dico al morto, ma con pacatezza: « oggi a te, domani a me. Ma se scampo, compagno, voglio combattere contro ciò che ci ha rovinati entrambi: che a te ha tolto la vita... e a me?
La vita anche a me. Te lo prometto, compagno. Non dovrà accadere mai piú. »
Il sole è obliquo. Sono intontito dall'esaurimento e dalla fame. Il passato di ieri è come una nebbia; non spero di uscire di qui. Sonnecchio, e non mi accorgo che si fa sera. È il crepuscolo. Ora il tempo passa presto. Un'ora di attesa ancora; se fosse d'estate, tre ore: ma oggi, un'ora appena.
A un tratto comincio a tremare che qualcosa sopravvenga e si metta di traverso. Non penso piú al morto, mi è diventato affatto indifferente. Di colpo la bramosia di vivere è scattata su, e tutti i proponimenti di prima ne sono sommersi. Solo per scongiurar la mala sorte balbetto ancora macchinalmente: « Manterrò tutto, manterrò tutto quello che ti ho promesso » ma già sento che non lo farò.
A un tratto mi viene in mente che i miei compagni stessi possono spararmi contro, mentre mi avvicino ai reticolati; non possono sapere. Dovrò gridare, appena sarà possibile, perché m'intendano; e rimaner disteso davanti alla trincea, finché non rispondono.
La prima stella. Il fronte rimane tranquillo. Respiro e, tutto eccitato, parlo con me stesso: « Attento a non fare sciocchezze, Paolo. Calma, Paolo; calma e sei salvo, Paolo ». Continuo a ripetere il mio nome, e mi fa bene, come se un altro mi parlasse e mi desse ordini.
L'oscurità cresce. La mia agitazione si calma, aspetto per prudenza che salgano i primi razzi. Poi striscio fuori dalla buca. Ho dimenticato il morto. Davanti a me si stende la campagna, nella prima notte, sotto le luci bianche. Prendo di mira una buca, e appena il razzo si spegne, vi corro; torno ad orientarmi, ne prendo di mira un'altra, mi curvo, e avanti, via.
Mi avvicino. Finalmente alla luce d'un razzo vedo nel reticolato qualcosa che si muove ancora appena e poi s'irrigidisce; allora mi stendo a terra. Al razzo successivo guardo di nuovo; sono i compagni della nostra trincea senza fallo. Ma io voglio essere prudente finché riconosco i nostri elmi. Allora chiamo.
E subito risuona in risposta il mio nome: « Paolo! Paolo! ».
Torno a chiamare. Sono Kat e Alberto, usciti con un telo da tenda, a cercarmi.
« Sei ferito? »
« No, no... »
Ruzzoliamo dentro la trincea. Chiedo da mangiare e inghiotto avidamente. Muller mi dà una sigaretta. In poche parole spiego l'accaduto. Non è cosa nuova: avventure simili si sono avute spesso. L'unica singolarità nel mio caso è stato quell'attacco notturno. Ma a Kat è capitato in Russia di giacere per ben due giorni dietro il fronte nemico, prima di potersi aprir la strada verso i nostri.
Del tipografo morto non faccio parola. Ma la mattina seguente non ne posso piú, e devo raccontare la cosa a Kat e ad Alberto. Entrambi mi tranquillizzano; « Non puoi farci nulla. Che altro avresti voluto fare? Se sei qui per questo! ».
Li ascolto al sicuro, confortato dalla loro vicinanza.
Quanta roba insensata sono andato fantasticando in quella buca!
«Guarda un po’, da quella parte » dice Kat. Ai parapetti staranno appoggiati alcuni tiratori scelti.
Hanno fucile a cannocchiale, ed esplorano il settore di fronte. Di quando in quando schiocca un colpo.
Udiamo un'esclamazione: « In pieno! ». « Hai visto che salto? » Il sergente Oellrich si volge tutto fiero, e segna il punto. Nell'elenco dei tiri oggi egli sarà in testa con tre centri regolarmente constatati.
« Che ne dici? » domarla Kat.
Io chino la testa.
« Se continua di questo passo, questa sera avrà un nastrino di piú » osserva Kropp.
« O diventerà presto sergente maggiore » soggiunge Kat.
Ci guardiamo in faccia: « lo non lo farei » dico.
« Però » dice Kat « è bene che tu l'abbia visto fare proprio oggi. »
Il sergente Oellrich si pianta nuovamente al para­petto. La bocca del suo fucile si sposta cercando il bersaglio.
« Cosí non hai da perdere altre parole intorno alla tua avventura » fa Alberto.
lo stesso non capisco piú quello che fui ieri. « È stato soltanto » dico io « per aver dovuto rimanere cosí a lungo in quella compagnia. » In fin dei conti la guerra è la guerra.
Il fucile di Oellrich schiocca breve e secco.

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