Paul Ginsborg,
DAL DOPOGUERRA
A OGGI
Il centro
dello studio di Ginsborg è la grande
trasformazione che ha attraversato la società italiana nella
seconda metà del XX secolo e che ha fatto del nostro Paese una moderna società industriale,
rispetto al Paese sostanzialmente agricolo che era stato fino agli ani
cinquanta.
Questo
processo è stato dirompente, si è caratterizzato come un vero e proprio boom
economico che ha enormemente aumentato la ricchezza complessiva del Paese e il
benessere degli Italiani. Fino agli inizi degli anni cinquanta l'Italia era rimasta un Paese arretrato, nel quale
le limitate isole industriali, quasi esclusivamente concentrate nel triangolo
Torino-Milano-Genova, galleggiavano in un ambiente economico ancora fortemente
dominato dall'agricoltura e da tradizionali attività artigianali e commerciali.
Questo modello economico aveva generato una società povera, nella quale la
maggioranza della popolazione, composta di contadini, braccianti e operai,
viveva con redditi molto bassi che consentivano di soddisfare a stento i
bisogni primari.
A distanza di
vent'anni di quest'Italia si erano quasi perse le tracce. L'Italia era
diventata la sesta potenza industriale del pianeta, pienamente inserita nel
ristretto numero delle società ad alto livello di benessere. Tra i fattori che
avevano favorito questo grande balzo economico andava annoverato l'aumento dei
consumi interni: gli italiani erano diventati consumatori dei beni di consumo
di massa (automobili, elettrodomestici, mobili, televisori, prodotti
alimentari) messi
a disposizione da un'industria nazionale tra le più avanzate del continente, in
grado di competere sul mercato internazionale con i colossi americani ed
europei. Buona parte di questi nuovi consumatori erano i contadini che nel
corso di un'emigrazione dalle dimensioni colossali avevano abbandonato le
campagne e le tradizionali attività rurali per trasferirsi nelle città: si
verificarono infatti lo spopolamento dei centri agricoli del Mezzogiorno e dell'Italia
centrale e la crescita abnorme delle periferie urbane di Milano, Torino,
Genova, Roma, Napoli, nelle quali si riversava una popolazione presto assorbita
dall'industria.
La crescita
determinò quindi una straordinaria modificazione demografica ed economica:
l'Italia si trasformò in Paese industriale con la maggioranza della popolazione
residente nelle città e addetta ad attività non agricole.
Inevitabilmente
ad essa fecero seguito cambiamenti nei comportamenti collettivi: i valori
propri di una società tradizionale - la frugalità, il risparmio, l'attaccamento
alla terra, il rispetto delle gerarchie familiari e sociali, la devozione -
cedettero il passo a quelli propri della società moderna.
Questi tratti
sono ulteriormente accentuati nel successivo ventennio da un'altrettanto grande trasformazione: la progressiva
deindustrializzazione di tante aree del Paese e l'affermazione di un sistema
economico basato sul terziario.
All'interno
di questo quadro Ginsborg colloca sia l'analisi delle contraddizioni sociali che caratterizzarono
il boom economico, sia la storia del sistema politico italiano.
Per quel che
riguarda il primo aspetto, lo storico inglese appunta la sua attenzione
soprattutto sul fatto che il grande sviluppo economico non si sia tradotto in
un analogo sviluppo civile del Paese, non solo nel senso della permanenza di
forti disuguaglianze sociali e territoriali, ma in particolare della notevole
distanza tra i cittadini e lo Stato. La carenza di adeguate politiche pubbliche
a sostegno dei bisogni collettivi ha lasciato spazio ad un attaccamento marcato
alla famiglia, vissuta da larghi strati della popolazione come presidio degli
interessi individuali. Il familismo ha impedito che i
cittadini fossero capaci di agire per il bene comune e in molti casi percepissero
quest'ultimo come alternativo e antagonistico al bene individuale. I rapporti
tra famiglia e società si sono dunque dispiegati in maniera distorta. Questa
distorsione ha alimentato la diffusione di pratiche clientelari che l'hanno, a
loro volta, favorita e alimentata. Tra i fattori che hanno determinato
l'affermazione del clientelismo, Ginsborg annovera l'azione dei partiti di
governo e segnatamente della Democrazia cristiana, che soprattutto negli anni '50 e '60 hanno
concepito l'azione di sostegno dello Stato verso i ceti sociali meno abbienti
come dispensazione paternalistica di sussidi e prebende: il diritto si è
presentato sotto forma di favore da scambiarsi con un altro favore, il voto.
Clientelismo e familismo hanno determinato una fisionomia specifica del
carattere nazionale degli Italiani, che pesa come una tara profonda: possono
esservi ascritti come esiti estremi anche la diffusa corruzione e fenomeni di
criminalità come la mafia e la camorra.
Il secondo
aspetto riguarda il sistema politico che
Ginsborg vede caratterizzato dalla prevalenza dei grandi partiti di massa che
hanno trovato la loro legittimazione nella Resistenza al nazifascismo e che
sono stati strumento di democratizzazione del Paese su cui aveva gravato un ventennio
di dittatura, ossia hanno svolto il ruolo di canali di partecipazione politica
di vastissimi strati di popolazione da sempre estranei alla vita civile.
I meriti dei
partiti però non possono offuscare gli elementi negativi: lo sguardo dello
storico si posa soprattutto sulla Democrazia cristiana e sul Partito Comunista
italiano, che costituivano le più significative forze politiche italiane. Alla
prima Ginsborg imputa non solo la diffusione del clientelismo, ma soprattutto
la mancanza di una strategia di lungo respiro in grado di accompagnare e di
orientare la grande trasformazione in
corso. I valori della cultura politica democristiana, fondati sul trinomio
"cattolicesimo-americanismo-fordismo" riuscirono a far presa sulla
maggioranza dell'opinione pubblica e si radicarono nella società, in
particolare in quella meridionale, che diede a questo partito la maggior parte
del suo personale politico; tuttavia dalla DC
non scaturì un indirizzo politico capace di guidare il cambiamento: esso
quindi si dispiegò liberamente senza che la politica fosse in grado di
orientare verso fini di interesse collettivo le straordinarie dinamiche del
mercato. Il risultato fu la formazione di una nazione ricca, ma piena di
contraddizioni e con un debole spirito pubblico.
A questo
risultato contribuì anche il PCI, che non riuscì mai a portare veramente a
termine la sua metamorfosi da partito rivoluzionario legato al blocco sovietico
a partito socialdemocratico pienamente occidentale. La sua azione fu dunque
inficiata dall'assenza di cultura riformista, alimentando un antagonismo
sociale radicale, ma fine a se stesso,
che impedì al PCI di porsi come alternativa praticabile al moderatismo
democristiano.