ideologia e poetica

Pascoli si è formato fuori del Risorgimento, è cresciuto cioè in un periodo in cui alle contraddizioni della società borghese si stava cercando una soluzione nel socialismo emergente, che in Italia si presentava nella variante anarchica, mentre la grande borghesia, alleata con gli agrari del Sud, la cercava in un governo forte e reazionario.

Quando il Pascoli rinuncia alle idee del socialismo anarchico (politicamente impegnato), approda progressivamente alla convinzione che il mondo e la nuova società borghese sono dominati da forze negative troppo superiori per essere vinte. Al massimo -pensa il Pascoli- è possibile attenuare l'impatto di queste forze sugli uomini, mediante una sorta di socialismo umanistico e filantropico (nel senso che tutte le classi sociali devono trovare ai loro conflitti una relativa conciliazione, nella consapevolezza di sentirsi reciprocamente indispensabili), e mediante una sorta di patriottismo-nazionalistico, per il quale le classi oppresse hanno il diritto a un'espansione coloniale verso l'Africa e di conquistare le terre irredente del nord-Italia, al fine di dimostrare le loro grandi capacità lavorative e civilizzatrici: in tal modo il Pascoli sperava di attenuare le forti tensioni sociali che erano scoppiate in tutta la nazione. Il suo discorso La grande proletaria, pronunciato nel 1911, al tempo dell'impresa libica, destò grandi entusiasmi nella stampa e nei teatri.

Il Pascoli eredita chiaramente la fine delle illusioni del secondo Ottocento nelle capacità della scienza-tecnica-industrializzazione di superare il dolore, la sofferenza, le contraddizioni degli uomini. Tutte queste cose non hanno tolto ma hanno anche creato nuovi dolori (la scienza -per il Pascoli- è solo servita a togliere le illusioni della religione). Il male, per lui, non è generato dalla natura (che anzi è "madre dolcissima") ma dall'uomo sociale (ritenuto assai diverso dall'uomo primitivo, "buono per natura"). Mentre il positivismo, fiducioso nella scienza, aveva concepito l’inconoscibile come una sorta di territorio ignoto da sottoporre progressivamente a una ricerca condotta col metodo sperimentale, Pascoli ne fa il centro di una sofferta meditazione. La scienza, secondo lui, ha ricondotto la mente dell’uomo alla coscienza del suo destino inesplicabile, non ha assolutamente donato libertà all’uomo, ma, anzi, la società industriale, valorizzata dal positivismo, soffoca l’uomo, gli nega ogni piacere: viene così definito il "rifiuto della storia" secondo il quale la storia viene contrapposta al mondo campestre delle piccole cose.

Unico rimedio al male consiste infatti nel fuggire tutto ciò che è prodotto di civiltà, rifugiandosi nel puro sentimento, nella solitudine, in un contatto più stretto con la natura, vista esteticamente ma anche come fonte di consolazione, come luogo simbolico in cui poter rievocare un passato, un'innocenza perduta definitivamente.

La natura è anche un luogo in cui si può meditare sul problema del dolore, della morte, della sofferenza degli uomini in maniera distaccata, cioè senza cercare nel conflitto delle classi una soluzione alle contraddizioni sociali. La meditazione sul dolore e sul mistero di una vita che ci fa nascere felici e ci fa diventare infelici, deve portare l'uomo ad avere pietà del suo simile. Il dolore infatti ha qualcosa di sacro e di necessario e per renderlo più sopportabile occorre la fraternità universale.

Bisogna ancora inserire Pascoli nel generale orientamento del tempo, il decadentismo, che rifiutava la civiltà contemporanea: mentre autori come Huysmans, Wilde, D’Annunzio concretizzano questo rifiuto con il vagheggiamento di un mondo di pura bellezza , Pascoli lo concretizza o con il ripiegamento intimistico, spesso vittimistico, oppure nel vagheggiamento della campagna e delle umili cose, di un paradiso perduto. Nel poeta, inoltre, il rifiuto della storia dà come conseguenza amara la solitudine, l’autocommiserazione, lo smarrimento di chi non riesce a vedere altro che la Terra come un atomo opaco del male. Ne deriva, quindi, la visione di una vita tutta raccolta nell’ambito della famiglia, gelosamente custodita e difesa.

 Quella del Pascoli viene chiamata "poetica decadentistica della consolazione". Egli però definì la propria poetica con l'espressione "poetica del fanciullino". Il poeta cioè è un fanciullo che sogna e vede cose che gli altri non vedono né possono vedere, essendo abituati ai nessi logici, razionali delle cose. Il "fanciullino" privilegia l'intuizione alla ragione, il sogno al vero, l'invenzione alla riproduzione, l'arbitrarietà della parola alla normalità comunicativa (grandissimo, in questo senso, fu il contributo stilistico del Pascoli).

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