Nelle stazioni
ferroviarie dell'Italia meridionale capita assai spesso di scorgere
miseramente rannicchiate in fondo alle sale d'aspetto, tra i mucchi
delle loro robe di casa, intere famiglie pronte a partire,
visibilmente stupite di quanto si svolge sotto i loro occhi, stupite
persino della pietà curiosa che talvolta esse destano in chi le
guarda. È povera gente che, nel dare l'addio all'Italia, il più
delle volte si illude di darlo soltanto per poco, provvisoriamente, e
non dispera di tornare a morir di vecchiaia sul suolo dove non vuole
morire di fame. E discendendo dalle loro montagne natìe, partendo dai
loro lontani paesi, dalle alture della Sila o dalle gole della
Basilicata, questi esseri sventurati si trovano subito a contatto
della civiltà che si forma intorno alle strade ferrate, come solo è
possibile trovarsi a contatto delle apparizioni impalpabili d'un
sogno: e si fermano dinanzi alle locomotive: tutto per essi è nuovo,
tutto appare loro come qualcosa di magico. È come una merce di
esportazione che si imballa negli scompartimenti; è tutto un gregge
umano che si fa poi discendere in una delle città della costa, dove
si formano i battaglioni della miseria in partenza per l'America del
sud. Gl'infelici sono così spediti laggiù, nelle terre ch'essi
devono dissodare, bonificare, preparare all'opera di coltura; le
regioni in cui vengono cacciati sono più vergini ancora, si può
quasi dire più selvagge, di quelle parti remote dell'Italia che
furono la loro prima dimora; dal loro punto di partenza al loro punto
di arrivo essi hanno attraversato la civiltà contemporanea come il
viaggiatore frettoloso attraversa un'oasi in mezzo al deserto; ma non
sono, purtroppo, destinati a goderne, ad esservi iniziati, a
parteciparvi, che in modo assolutamente passivo, solo in quanto ne
diventano vittime.
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