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ANTOLOGIA

Il boom degli anni '60

  di Grazia Bologna

ANTOLOGIA - fonti letterarie

GAVINO LEDDA - PADRE PADRONE

(pag.153 - 157)

Queste rievocazioni nel loro silenzio riflessivo mi rapivano al punto da farmi rivivere veramente tutte quelle scene. Ora che per un giovane sano e robusto come me era necessario emigrare se non venivo assorbito nelle forze dell'ordine. E questa necessità sopraggiungeva inesorabile soprattutto dopo che le emigrazioni in Canada e in Australia avevano rotto il ghiaccio, avevano indicato un varco. Dal '55 si emigrò in continuazione. Non si piangeva piú il distacco come prima. L'emigrazione divenne abituale e perse quel senso tragico e dolente anche perché si emigrò piú vicino, in Europa. Addirittura ora emigravano persino le ragazze.
Quello che restava era un mondo già mutilato. Solo i vecchi, i bambini e lo scarto fisico e psichico che ne risultava in seguito alle selezioni delle emigrazioni e delle forze dell'ordine, si aggiravano in quei campi privati dei giovani sani. Durante gli ultimi due anni potevo notare questo stato pietoso di un mondo invalido. Vecchi malati, storpi, gobbi e paralitici, consumati dall'età e dalla natura, rigati e rugosi dagli anni e dal male, popolavano i campi come larve umane, sfidando le intemperie della natura. Per le strade dondolati energicamente dalla vigoria dei loro somari, si vedevano vecchi di settantacinque ottanta anni, dimezzati dalle fatiche, ansimanti e morituri che svolgevano regolarmente la loro regolare attività fino all'ultimo respiro.
"L'altro ieri," mi sentii dire un giorno, "è morto thiu Pepe. L'hanno trovato morto per il campo. Evidentemente non ce l'ha fatta a raggiungere la capanna. Il freddo della notte, poi, lo avrà congelato. Poveretto. Aveva ottant'anni e ha conosciuto solo il culo della pecora."
Ora avevo 19 anni e sentivo piú forte che mai la tragedia che incombeva.
" Io non voglio fare la fine di thiu Pepe, morto dal gelo. Lo potevano divorare anche i cani, i corvi, gli avvoltoi. Ahh! No! Io me ne vado via di qui. Ma nei carabinieri non ci posso andare, come hanno fatto quasi tutti i miei cugini. Loro sono tutti alti. Qui conta anche la statura. lo sono basso. E poi ci vuole la quinta elementare e io non so né leggere né scrivere. Qui bisogna emigrare. Eh, là non conta la statura, no! Basta che tu sia sano e lavori! "
Cosí nell'autunno del 1957 venne l'ora anche per me. Con un amico di Sifigo mi balenò l'idea di emigrare in Olanda a fare il minatore.
A mio padre mi mise in guardia circa i pericoli delle miniere. Spesso anche da altri avevo sentito dei cruenti disastri dei nostri emigrati nelle miniere della regina Giuliana. Il grisou lo conoscevano anche i pastori e le querce della Sardegna. Sui campi si parlava spesso degli emigranti, della loro fortuna e delle loro disgrazie. E rimanevo perplesso. Certe notizie mi infilzavano il cervello e mi calavano nelle viscere come braci accese. Ma quando nei boschi e negli sterpi scatta la molla repulsiva contro l'ambiente, l'emigrazione diventa un'ossessione: ti martella continuamente il cervello.
Se sei sano, robusto e maggiorenne, non c'è nulla che possa trattenerti. Restare significa vegetare a mala pena, tragicamente, come erba o pianta condannata a crescere nel dolore a causa del giocoso capriccio del vento che un giorno scaraventò i semi da cui germogliarono nel terreno meno adatto. In quella selva tu ti senti come quelle erbe costrette a crescere sui muri o sui burroni in posizione tragica e pietosa, pendenti ora da una parte ora dall'altra: scosse, tempestate da quel vento che ha affidato i semi sventurati al suo gioco. Spesso là mi sono sentito come un caprifico che vidi un giorno costretto a vegetare malamente sulla cima del campanile di un paese, o come quelle piante che hanno avuto la sfortuna di nascere sui nuraghi in mezzo alle pietre senza terra. Le radici fuori, all'aria, distese in una lotta incessante per immergersi in terra o sotto qualche pietra. Le branche rugose e senza linfa che sopravvivono alla morte. Anch'io ero seme sfortunato che un vento aveva scaraventato in terreno sterile sulle pietre e avevo le radici fuori dalla società, fuori dalla vita. In quelle condizioni tu allora ti guardi e hai quasi paura di te stesso. Senti vergogna del tuo stato. Il tuo essere nudo, le tue radici fuori dalla terra, ti fanno ribrezzo e vuoi sotterrarti, ma non vi riesci come quelle piante sventurate. E l'unica fortuna che hai rispetto ad esse sono le tue gambe: la fuga. Emigrare e immergerti nel serpente nero delle miniere allora ti suona libertà. Emigrare, nella tua desolazione, ti sembra l'unica arma da rivolgere contro l'ambiente e coprirti le radici: l'unica roncola per aprirti un varco nella selva impenetrabile quando alle spalle avanza un incendio furioso che ti sta per ardere e ridurti in cenere. Darti alla fuga, scampare e salvare almeno lo scheletro della tua esistenza e cercare di rimpolparla altrove, diventa naturale e spontaneo. Allora imprechi contro chimere inesistenti. Ogni pastore si spiega i propri mali quasi in modo metafisico, da fatalista. Tu credi che la colpa sia solo della terra sarda, delle sue montagne con le loro pietre e le loro querce, delle sue bellezze insomma.
Inoltre la curiosità di vedere finalmente città e altre terre ti assale e ti eccita come vento a fuoco. Vedere come è fatto il mondo diventa un'attrattiva. La smania di vedere al di là dell'orizzonte del tuo campo ti piomba addosso. Vuoi fuggire da quella selva dove non hai mai potuto pensare al di sopra della tua fame e della tua miseria. Sai di dover andare sotto terra, come un lombrico, a scavare il carbone, sempre tra la vita e la morte, ma non te ne importa nulla.
Cosí insieme all'amico Gigi presentai domanda all'ufficio collocamento di Siligo per emigrare in Olanda. Senza attendere molto ci avviarono a Sassari per la visita di selezione. I medici olandesi ci sottoposero ad una visita fisica accuratissima. I nostri muscoli non delusero. I nostri polmoni non potevano non rispondere bene. Noi eravamo incalliti in ogni parte e provati ad ogni sforzo. Atleti della zappa e dell'aratro. Avevano voglia a visitarci! Il nostro fisico era una locomotiva perfetta.
La notte pernottammo a Sassari in attesa di altre visite per il giorno seguente. Tutti buttati alla meglio per terra come fossimo bestiaine alla fiera, si trascorse la notte parlottando sul nostro futuro.
"Chissà se ci prendono. Hee! se mi prendono me ne volo! Là in Olanda! Mi hanno detto che le ragazze ci stanno con noi italiani."
"L'ho sentito anch'io. Me l'ha detto Peppe che è partito due anni fa. Quando era in ferie quest'estate mi ha detto che si fa a beffa. "
"Madonna, ragazzi, con la fame che ho me le mangio tutte quelle olandesine. Farei come il nostro montone. '
"E poi avete visto come sono educati quei dottori. Quando s'accendono il sigaro non ti buttano mai i fiammiferi per terra. Non fanno come facciamo noi, quelli. Li rimettono nella scatola o nel portacenere e cosí anche le cicche. "
"Questa sí che è gente educata e pulita. Sono signori questi. Altro che noi."
"Non ti sporcano per nulla. Quelli sí che la conoscono l'educazione. "
La fiera finí. Durò due giorni. E quei medici tanto educati che dalla loro bocca sbuffavano fumo ad intermittenza quasi fosse il tubo di scarico di una locomotiva a vapore, furono di manica larga nel dichiararci idonei, nel darci la licenza per fare i minatori nelle miniere della loro regina. Non ci restava che far ritorno a Siligo e attendere la chiamata.
Intanto ognuno riprese la propria attività. Il lavoro però, nell'impazienza e nell'ansia della partenza ci sembrava piú duro che mai. L'ambiente piú ostile di prima. Il ritmo lavorativo era sempre ugualmente teso. Solo lo stato d'animo era diverso. Nel petto ardeva il fuoco pronto a sferrare la vendetta contro il nostro passato vegetale. Curvi sulla zappa si lavorava inviperiti con il corpo teso sotto lo sforzo e con la mente tesa verso la nostra terra, l'Olanda.
Píú che mai ora durante i lavori mi risentivo i discorsi degli emigrati in Canada e in Australia quando anche loro schierati alla giornata sotto l'occhio vigile del padrone, trovavano il bollente ardore per inveire contro l'ambiente. Ora sí che la capivo e la sentivo quella stessa rabbia.
Finalmente un giorno giunse l'ordine della partenza. Gigi mi venne a portare la notizia a Baddevrustana in motocicletta.
Di colpo mi sentii come una pecora cui il padrone slega le pastoie. Sussultai di libertà. La notizia mi dilatò di gioia e nel petto sentii un forte strappo quasi io fossi una tavola inchiodata ad un'impalcatura e la notizia fosse un arnese che la stava per svellere. I chiodi si allentarono. Scricchiolarono. E quasi per incanto mi sentii divelto dai vegetali: da tutta quella natura, dagli animali e da quel silenzio amico e compagno inseparabile per molto tempo. Subito squadrai il nostro campo nella sua distesa tortuosa. Lo percossi con lo sguardo e lo possedetti ancora un po' nel mio intimo, quasi me lo volessi sorbire come un bicchiere d'acqua. Ascoltai il suo silenzio che mi balbettò qualcosa. La motoretta di Gigi, però, non mi lasciò mettere in intimo contatto come al solito. Era impaziente anche lui. Gli montai alle spalle e via a Sitigo.
Mia madre vi stava già preparando la roba per la partenza. Con Gigi organizzammo uno spuntino per festeggiare con gli amici l'inizio della nostra strada. Venne la notte e fu lo spuntino. Contenti come due giganti felici, padroni della nostra esistenza. Nella cantina si andava a tentoni, da una botte all'altra per trovare il vino migliore.

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