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ANTOLOGIA

Il boom degli anni '60

  di Grazia Bologna

ANTOLOGIA - fonti letterarie

OTTIERO OTTIERI - DONNARUMMA ALL'ASSALTO

(pag.24 - 31)

L'attrezzaggio ha macchine per preparare gli attrezzi e gli stampi per le altre macchine della "grande serie" (quelle che fabbricano i nostri prodotti tutti uguali, a migliaia) e fa un lavoro lento, preciso, di piccola serie o di pezzi unici. Qui ancora lo stesso uomo inizia e finisce un lungo compito sull'irrimediabile acciaio, intento alla qualità, non al ritmo.
Le macchine sono state dipinte d'azzurro, e le loro parti in movimento d'arancione vivo, i colori contro gli infortuni. Gli operai ci stanno larghi sul pavimento lucido e fra le macchine distanti fra loro come in una vetrina. Pare che non ci sia nessuno.
Dalla vetrata a occidente, verso l'isola, il sole obliquo del tramonto filtra e lambisce le facce degli attrezzisti in tuta blu, colorandole di rosa. Lavoravano traversati da una luce idillica e liquida.
Per me - e per altri - l'industria finora è stata la concentrazione, la folla fitta di teste e di macchine sotto i capannoni scuri e i fiochi tetti a sega. Il sole nella fabbrica, il cielo, il verde e il mare, benché li ami, non mi convincono. Sono nato nel centro d'Italia e la giovinezza l'ho tutta trascorsa in paese di sole, diventando meridionale. Ma l'industria l'ho conosciuta nel nord e la caratteristica dì essa rimane sempre quella d'essere grigia, se è una industria vera. Le officine le ho sempre viste nere e senza spazio, come se la loro forza fosse proprio questa.
Ripamonti, capo dell'attrezzaggio, che viene dal settentrione, queste cose potrebbe capirle. E' un vero capo, educato, dignitoso; spesso sorride, con morbide labbra grosse in una faccia sottile. Abbiamo cominciato, commentando insieme la novità, il colore delle sue macchine, di cui è un po' fiero e un po' liberamente scettico; ma per quanto irreprensibile, nei confini del regno tecnico e produttivo egli considera suo dovere esercitare una critica assoluta. Si arresta, se mai, sulle soglie dell'ideologia. Io avevo ritegno a entrare nell'argomento che, sotterraneo, qui domina sempre, fatale, anche se e stucchevole o odioso. Come si comportano gli operai meridionali?
"Come si comportano... ?" ho detto piano.
Ha sorriso alzando il labbro. Si è guardato in giro fra i suoi uomini, soddisfatto. "Adesso sono molto bravi, sono molto contento".
"E prima?"
"Volevano sempre mettersi in luce con le parole, prima che coi fatti, mi capisce dottore. Ho spiegato che devono farsi in gamba coi fatti. Portarmi il pezzo. Non mi devono raccontare, raccontare, niente... Solo portarmi il pezzo... Ora andiamo d'accordo." Alzava piú fortemente il labbro, nel suo sorriso frenato ma cosciente, nella sua circospezione senza viltà. "Ora li tengo in pugno" ha concluso quietamente.
Al centro dell'officina (al centro della croce, perché è composta di quattro bracci: come la rosa dei venti si irradia nel giardino ai piedi della brulla collina), anche nel profondo del frastuono, entrano dai vetri la luce fresca dei cielo e il verde vicino degli alberi. L'ambiente è cosi spazioso, che l'intrico dell'officina vi si allenta, e forse disorienta il visitatore il quale si trova fra le macchine, ma come al limitare di un prato, di un bosco.
La "grande serie", il lavoro monotono e ripetuto delle macchine che fanno i milioni di pezzi per i nostri prodotti in serie, penetra lo stesso col suo strepito nel cervello, nelle orecchie e negli occhi. Gli operai dei torni automatici, in piedi, osservano questi torni; girano intorno a queste macchine sputazzanti olio, le caricano di lunghe barre d'acciaio; poi controllano lo scatto ruotante degli utensili, che lavorano la barra, la materia prima, come mani svelte e successive: sotto, le migliaia di pezzi fatti, piccole viti, chiodi, rotolano nelle cassette come farina. Gli operai delle presse, delle frese, dei trapani stanno piú legati alla monotonia e al ritmo, di cui sono parte. Corrono fermi a centinaia di migliaia di pezzi all'ora, a testa bassa, con uno sforzo che sembra di assurda accelerazione, ma che serve soltanto alla regolarità. Tutti giovani, nuche fresche,
sfumature di capelli da ragazzi, spingono sempre un poco di piú, impercettibilmente, per non lasciarsi invischiare dall'inerzia. Questa è la loro fatica: essa nemmeno si vede, usa chiusa nel cottimo, sembra un moto facile e perpetuo.
Un lavoro difficilissimo e stupido. Subito si riconosce, simbolo della grande serie, di cui protagonista è il manovale specializzato, l'uomo di passaggio fra l'artigianato e l'automazione, manovale ma specializzato, monotono ma abile, intercambiabile come i pezzi che produce eppure carico di una attenzione, di una responsabilità da tecnico insostituibile.
Ecco la contraddizione per cui abbiamo paura del macchinismo industriale, e ne proviamo un fascino: esso scompone, frammenta la personalità umana nello stesso momento che pone il proletario nella condizione del suo più alto impegno morale.
Tra le fragorose macchine utensili, con le loro appendici di liberi schiavi, è difficile attaccare discorso con qualcuno. Il manovale specializzato di solito parla poco. Ma nel padiglione dei trattamenti termici, che s'allarga al termine del braccio-sud come una piazza chiusa in fondo a una strada, c'è di nuovo silenzio; e assai piú caldo, aria acida, fumi.
Un operatore (come si chiamano qui i capi-operai, Perché operano alle macchine, dal punto in cui l'operaio non è piú capace di attrezzarle, di condurle) un operatore di Santa Maria, tarchiato e biondastro con gli occhi celesti, mi ha subito portato in un angolo dove si respira meglio. La. tuta aperta sul petto, sudava, e mandava lo stesso odore di fatica della stanza degli esami.
E' un operaio vero, più antico degli altri. Dopo aver spiegato, con le sue parole, il funzionamento del cottimo, faceva il confronto con altri stabilimenti: poiché noi siamo una fabbrica nuova, alcuni operai a cottimo guadagnano piú di quegli operatori, come lui, ancora senza qualifica - cioè allievi operatori -che vengono retribuiti a economia. Questo lo avvilisce. Dopo aver esposto, come inavvertitamente, oggettivamente, questa rivendicazione, strizza gli occhi, rispettoso ma perplesso. Mi sta vicinissimo. Ha una voce fioca.
"Lei dov'era prima? "
"Cinque anni sono stato all'Acciaieria, tracciatore. "
"Di carpenteria? "
"Di carpenteria, dottore. Questo stabilimento è molto piú bello, qui si sta meglio. E poi la paga base è piú alta... per questo ci sono venuto." Batte ancora gli occhi. "Che vuole, qui abbiamo tutti molto bisogno." Si scusava. "Ma per me la verniciatura non è stata... un progresso. Trovavo piú soddisfazione prima, dottore. Ho dovuto lasciare il mio mestiere." Rimaneva silenzioso e sempre vicinissimo, e ho finto che, la sua confessione fosse naturale. Ma non lo è, perché siamo già troppo abituati all'adulazione.

Martedí.

"Eh, qui, dottore, non ci viene mai nessuno. Su negli uffici state meglio" ridacchiava l'operatore della verniciatura, e subito si è fatto premuroso per accompagnare il suo ospite, collega, supervisore: era incerto.
Le piccole carrozzerie delle calcolatrici come automobiline scivolano sui rulli del rapydstan , compiendo un tragitto di montagne russe, di curve, di rettilinei: durante il percorso vengono verniciate, stuccate, asciugate, riverniciate, passando tra fortissime lampade accese che le essiccano, come globi gialli di un lunapark.
Siamo passati per i forni; abbiamo girato per quei lavori non meccanici, meno nobili: le vasche elettrolitiche, la cosiddetta agganciatura. L'operatore fa su di essi una piccola smorfia di disprezzo, benché ci tenga a spiegarli, fiero della complessità invisibile e chimica dei procedimenti.
Dietro gli uomini della agganciatura, abbiamo fatto una sosta. Agganciano, seduti, i piccoli pezzi, sfornati dall'officina, ai telai, prima che i telai siano immersi nelle vasche elettrolitiche per la cromatura, la nichelatura. L'operatore mi dà un'occhiata. Sa anche lui che questi operai si divertono poco, ma non se ne, preoccupa tanto, come noi del Personale, abituati à considerare l'agganciatura un lavoro adatto per inchieste e studi psico-sociali .
Agganciando di corsa, una pezzo dopo l'altro, una fila dopo l'altra, da sinistra a destra e dall'alto in basso come se riempissero una pagina scrivendo, e ogni da infilare a un uncino. La riempiono con ostinazione e velocità.
Finito un telaio, lo staccano brulicante e tintinnante di pezzi, e ne cominciano un altro. Adesso i telai si muovono a pedale verticalmente, cioè si alzano e si abbassano in modo che la riga da riempire sia sempre all'altezza delle braccia: prima era la schiena che seguiva la riga, rompendosi. Il telaio mobile è stata una conquista tecnica e sociale.
Si vedono gli operai, come bambini al pallottoliere, infilare i pezzi per un piccolo foro al gancio, d'un colpo, allungando un braccio; velocemente ritirarlo; un altro pezzo, agganciare; un altro pezzo, ,agganciare. Terminata una fila, a capo.
Tra essi c'è un anziano, un manovale assunto perché invalido. Ci ha sentiti dietro di sé, ma non si è voltato. Alzava piano le braccia pesanti e cercava i ganci, uno per uno, agganciano senza guardare. Arrancava con una meticolosità senile, la nuca grigia e la schiena magrissima, dura.
"Gli altri camminano" dice l'operatore. "Questo non ce la fa. Me lo dovreste togliere."
E chi se lo prende?
"Sarebbero lavori da donne. Se nelle assunzioni, per via della disoccupazione, non dovessimo dare sempre la precedenza agli uomini... "
Ha strizzato gli occhi, un po' freddo, malizioso:
"Tanto le nostre donne quaggiú non ci vengono. Non siamo in alta Italia, dottore... " Silenzio.
Vicino, altri operai sbrindellati, i meno eleganti stabilimento, in zoccoli, ficcavano i telai nelle vasche fumanti e acide. Tutti hanno salutato, alzando il capo dall'immersione, sorridendo per essere notati. Ma l'operatore aveva fretta di portarmi via, e che non mi fermassi, di tutto il reparto, proprio con quelli vestiti di stracci.
Gli premeva di mostrare l'aggiustaggio ai banchi, suo orgoglio: tre operai in piedi che battono al banco con un martello sulle carrozzerie per spianarle; danno colpi di lima per ridurre la "luce" nell'incastro fra la carrozzeria e una specie di coperchio. Benché manovrino in grande serie, i ritocchi sono sempre diversi e affidati all'intuito, all'occhio, all'arte, come nel ferro battuto; finalmente, il risultato è variabile nella qualità, non solo nel tempo, e dipende dall'estro umano: niente rallegra di più gli operai.
Egli ha voluto presentare questa sua squadra di aggiustatori. Essi, a testa bassa, hanno tirato via perché non avevano tempo. Tutti gli operai che lavorano ai banchi sono orgogliosi e vanitosi.
Allora ha preso lui un coperchio di carrozzeria da aggiustare, l'ha accarezzato coi polpastrelli per sentirne le superfici, ha afferrato un martello, ha dato due o tre colpi per stirarne un orlo, per spianare una bozza. Poi lo guardava con un occhio. No, lo vedevo anch'io, l'orlo non era giusto. E' rimasto male. Qualche altro colpo; andava meglio.
"Sono fuori allenamento" ha detto tranquillo. "Adesso fanno prima loro. Da che sono passato operatore... si diventa meno bravi. Ma la squadra l'ho messa su io."
Rimpiangeva continuamente un mestiere, la vera meccanica.
"Lì c'è la verniciatura a spruzzo" ha indicato con un sorriso ambiguo, col dito teso. Non è stato lui a voler entrare nella cabina di vetro.
Con un grembiule di cuoio, gli stivali, i guanti, il verniciatore tutto solo in cabina spruzza da una pistola la vernice sulle carrozzerie, rivolto dentro la cappa d'aspirazione, come all'imboccatura di un forno, di una caverna incrostata. Non compariva nemmeno la sua faccia, mascherato e infagottato nella nube di vernice, e non ha smesso. Forse non ci ha nemmeno sentiti.
Qui lo stabilimento lucido, razionale, ha le sue viscere molli e sporche.
Appena usciti dalla cabina, l'operatore ha chiesto, fioco e distante, perché non passavamo il latte ai verniciatori. "L'abbiamo domandato da un mese a non s'è visto questo latte." I medici non ritengono più il latte adatto alla disintossicazione; pensano che faccia male. Ma dava l'idea che volessimo risparmiare sul latte.
"Va bene, riferirò alla direzione."
Ci si avviava all'uscita del reparto, verso l'officina, in silenzio. L'operatore in piedi, al mio fianco mi fissava da vicino; era rispettoso, ma confidenziale e sempre un po' perplesso; e ha ripetuto: "Tutti i giorni aspettano questo latte."

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