Bibliolab LABORATORIO DI STORIA > materiali didattici > percorsi > il boom degli anni '60 > ANTOLOGIA > Volponi

ANTOLOGIA

Il boom degli anni '60

  di Grazia Bologna

ANTOLOGIA - fonti letterarie

PAOLO VOLPONI - MEMORIALE

(pag. 38 - 45)

Tutto avvenne così ed entrai nella fabbrica, limpido come un vetro. Nello spogliatoio mi cambiai in un attimo e vestito con tuta raggiunsi il mio reparto . Davanti a Grosset mi sentivo tenero e ben disposto come un bambino. La fresatrice che mi affidò non era quella che egli stava riparando quando lo conobbi. Per i primi quindici giorni non ebbi una macchina mia e come gli altri nuovi lavoravo a intervallo su macchine diverse. Questo mi teneva in agitazione perché sentivo che qualcosa mancava alla mia vita nuova; mi pareva quasi di non poter regolare le mie forze, di non avere un punto fermo. In questa condizione il lavoro mi angustiava e mi stimolava a un grande accanimento. Mi sentivo stanco soltanto alla sera quando salivo sul pullman. Allora la mia stanchezza mi cadeva tutta addosso anche per il gran chiasso che gli operai viaggiatori facevano. Erano tutti dei paesi intorno al lago di Candia; dei paesi dell'interno, lontani dalla strada nazionale e dalla ferrovia. Sembrava che ritrovarsi insieme e il viaggiare verso casa li rianimasse, restituendo loro lingua e occhi. Nella fabbrica non avevo mai visto esplosioni come quelle che avvenivano non appena gli operai appoggiavano le scarpe sui gradini della corriera. Qui, se parlavano della fabbrica ne parlavano come gente che, finalmente liberatasi, non avrebbe dovuto farci più ritorno; anche quelli che vi lavoravano da più di vent'anni. Parlavano con impeto, quasi con violenza, e si disponevano al viaggio, eccitandosi, come a una sbornia paesana. Qualche sera, in quel primo mese di luglio, se il tempo minacciava di cambiare, parlavano della campagna, dei covoni di grano e della vigna. In questi discorsi si calmavano e trovavano una profonda serietà; guardavano dai finestrini verso le Alpi e poi verso la pianura e la Dora, commentando la luce e le arie e sovente concludevano nel silenzio. Nella fabbrica ogni discorso era più difficile- e così ho potuto sentire anche più tardi- e finiva sempre in risate, in malignità o in sfoghi di risentimento e di disprezzo. Io, nella fabbrica, anche se ancora aspettavo, sentivo il bisogno di qualcuno sincero, il bisogno di parlare con qualcuno che potesse aiutarmi; ma nel reparto non avevo ancora visto un compagno in grado di farlo. Non correva una vera amicizia e i discorsi andavano su cose trascurabili e si fermavano sulle barzellette e sulle maldicenze. Il più gentile con me era sempre Pinna, che però spesso non mi capiva. Non aveva capito nemmeno Grosset, e insieme a tutti gli altri rideva quando Manlio, il più vecchio del nostro reparto, andava a parlare con Grosset davanti alla scrivania facendo le corna con la mano dietro la schiena.
Questa storia cominciò il terzo giorno che noi quattro nuovi eravamo arrivati al reparto fresatrici e mi mise subito in uno stato di differenza nei confronti di tutti i miei compagni. Anche il più giovane, che aveva soltanto diciassette anni, rideva e siccome era il più vicino alla scrivania, rideva senza far chiasso, tutto rosso, con la testa cacciata tra la tavola della macchina e i morsetti. Io sentivo la bontà e la bravura di Grosset e mi dispiaceva che lo deridessero a quel modo. Così no potevo accettare i discorsi volgari e a doppio senso fatti con le ragazze, alla mensa e per i corridoi, nei quali Pinna era un maestro, uno di quelli con maggior successo.
Ma della fatica, nessuno parlava mai; voglio dire del lavoro. Del lavoro si parlava con il capo o con qualcuno del reparto in difficoltà che andava a domandare agli altri. Così nei sanatori sempre poco ho sentito parlare della malattia o delle cure: tranne in quei momenti in cui, per la morte, l'arrivo o la partenza di qualcuno, esplodevano i discorsi sulla malattia fatti da tutti, tutt'insieme e ognuno per conto suo e con accanimento, come se una febbre nuova avesse invaso l'ambiente. Ritengo che per questo il lavoro fosse più pesante per tutti. Non era poi giusto pensare che il lavoro fosse una condanna caduta su chi era nella fabbrica, come molti volevano far credere con i loro rimbrotti, perché tutti quelli che vi lavoravano avrebbero dovuto in ogni caso lavorare, o dentro o fuori. - Si lavora per un padrone, - mi rispondevano quasi tutti. Questo argomento chiudeva qualsiasi discorso ed io non reagivo; osservavo però che questa giustificazione non tranquillizzava del tutto nemmeno coloro che la davano con tanta veemenza.
Il giorno in cui cominciai a lavorare da solo alla fresatrice, più del padrone, odiavo tutti i compagni. Speravo che le loro macchine s'inceppassero e tagliassero malamente i pezzi. Questo odio m'aiutava a lavorare e mi dava l'ambizione di riuscire a fare meglio degli altri. Prendevo il pezzo dalla cassetta come fosse un nemico da sgominare e lo riponevo finito che ormai gli ero affezionato come a una parte di me stesso. Il rumore della fresatrice mi tirava nella lotta e più la sentivo mordere più m'infervoravo nel lavoro. Il suo rumore, i suoi tagli, mi convincevano aspramente di saper lavorare; davano alle mie mani una forza che non avevo mai avuto, anche se mi ero accorto che le mie mani più che guidarla erano trascinate dalla macchina. Grosset si avvicinava spesso al mio posto. Un giorno mi guardò per qualche secondo e poi passandomi una mano sulla spalla, mi disse: - Vai calmo, Saluggia -. Lui capiva la condizione in cui mi trovavo. - Non prendere il lavoro come un nemico, - soggiunse, - o non durerai a lungo. E non farne nemmeno l'unica ragione della tua vita.
Siccome la sua benevolenza andava oltre la sua confidenza, per non sentirmi troppo in debito, dissi anch'io: - Si lavora per un padrone. - Per più d'uno, - rispose Grosset, - ma siccome il lavoro è per forza una parte della tua vita, cerca di non rovinartela -. E se ne andò, senza guardare nella cassetta la qualità dei pezzi finiti.
Ancora non lavoravo a cottimo ma certamente in quei giorni superavo il cento per cento. Ad un certo punto m'accorsi che il pezzo cambiando sotto le frese, un attimo prima d'essere finito, assumeva il colore opaco del lago di Candia. Questa fu una grossa rivelazione tanto che da allora per molto tempo, anche se non per tutta la giornata, svolgevo il mio lavoro per arrivare ogni volta al punto in cui compariva il colore del lago; la frazione di lavoro successiva, necessaria per finire il pezzo, era diventata per me come l'ultimo tratto di una strada, diversa da quella vera, tra il lago e casa mia: di una strada diversa e più facile, dove sarebbe dovuto dove sarebbe dovuto capitarmi qualcosa, il segno del mio nuovo destino. Intanto la macchina funzionava bene, aveva solo il motore della tavola un poco più rumoroso del normale. Mentre i motori andavano, m'immaginavo qualche volta che si stesse effettuando una corsa automobilistica, nella quale ero in gara con una macchina di mia costruzione. Immaginavo sempre di essere in testa, con il numero 17, il numero che era stato attribuito da Pinna e che io mantenevo perché la mia corsa era proprio una sfida lanciata contro il destino avverso e contro la congiura ordita a mio danno da tutti gli ,altri concorrenti. Nel culmine della corsa, la mia macchina subiva un guasto e solo la mia abilità le impediva di fermarsi. Continuavo la gara con il fiato sospeso per gli ultimi giri, guardando i miei compagni di lavoro come se veramente stessero per superarmi con le loro fresatrici e poi, con un ultimo sforzo di volontà, riuscivo a vincere. Un altro giro e la mia macchina si sarebbe incendiata. Seguendo questi pensieri potevo ugualmente controllare bene il mio lavoro e procedere senza la noia di dover numerare uno ad uno i pezzi finiti.
Passavo le ore, che gli orologi nelle officine segnano a migliaia partendo dall'inizio delle diverse lavorazioni. Quando io sono entrato nella fabbrica, l'orologio della nostra officina segnava l'ora 1227.Anche il tempo, come gli uomini, è diverso nella fabbrica; perde il suo giro per seguire la vita dei pezzi. Trascorrevano le ore, anche con qualche sigaretta che fumavo, le visite di Grosset e ogni tanto un
discorso di Pinna, che borbottava quasi sempre, anche da solo.
Il rumore mi rapiva; il sentir andare tutta la fabbrica come un solo motore si trascinava e mi obbligava a tenere con il mio lavoro il ritmo che tutta la fabbrica aveva. Non potevo trattenermi, come una foglia di un grande albero scosso in tutti i suoi rami dal vento. La gente non esisteva più ed io pensavo che per quanto nella fabbrica si lavori tutt'insieme, stretti nei reparti, con le fresatrici su tre file ad intervalli regolari, e così i torni e le presse, o tutt'in fila nelle catene di montaggio o nei controlli, o si mangi in tanti alla mensa e si viaggi tutti sulle corriere, è difficile poter avere delle compagnie e degli aiuti dagli altri. Io non potevo mischiarmi, come faceva Pinna, ai gruppi che parlavano in quel tempo di un aumento di venti lite orarie, perché se io avessi parlato dei poveri contadini o dei disoccupati mi avrebbero voltato le spalle. Pinna entrava in quei gruppi, non so bene perché; non parlava quasi mai o si limitava a ripetere le parole degli altri. Pinna si cacciava dappertutto ed io non capisco perchè lo sopportassi come amico, con quel suo testone nero e quello sputarello sempre tra le labbra. Continuava a farsi ammirare per il suo coraggio di partigiano e per la sua fuga dal terzo piano di un albergo di Torino dove i tedeschi lo tenevano prigioniero in attesa di fucilarlo. Pinna mi aveva addirittura proposto di iscrivermi al Partito Socialista e ai sindacati della Cgil; sempre ridendo naturalmente e aggiungendo:- Vedrai poi, vedrai poi... - Io vedo chiaro ora, caro Pinna, - gli avevo detto, - e non mi iscrivo a niente. lo non ho niente da spartire con nessuno. - Ma Pinna aveva riso, facendo saltare la sua gamba più del solito: - Vedrai che aiuto ti daranno i preti...
Tutto sommato, compresa la mia solitudine o meglio la mia differenza dagli altri, i primi giorni di lavoro non furono brutti giorni; anzi molte cose mi piacevano e mi confortavano: così la mensa, gli spogliatoi, le docce, i grandi corridoi, le luci al neon dentro e fuori, il veder passare alti e silenziosi tanti ingegneri e dirigenti che mi facevano sentire al sicuro, in una fabbrica ben governata. Pensavo con piacere, anche se con il timore di non esserne degno, di far parte di un'industria così forte e bella e che la sua forza e la sua bellezza fossero in parte mie e pronte ad aiutarmi, così come la fabbrica mi scaldava e mi dava luce.
Amavo a poco a poco la fabbrica, sempre di più man mano che m'interessava meno la gente che vi lavorava. Mi sembrava che tutti gli operai avessero poco a che fare con la fabbrica, che fossero o degli abusivi o dei nemici, che non si rendessero conto della sua sovrumana bellezza e che proprio per questo, lavorando con più fracasso del necessario, parlando e ridendo, la offendessero deliberatamente. Mi sembrava che si divertissero a guastarla e a sporcarla, a voltarle le spalle ogni momento. La fabbrica mi appariva sempre più bella e mi sembrava che si rivolgesse direttamente a me, come se fossi l'unico o uno dei pochi in grado e ben disposto a capirla.
Il lavoro andava avanti bene, dico il mio e anche quello degli altri, pur se irriguardosi; in certi momenti di maggior lena sentivo il lavoro andare e mordere nel ferro della fabbrica come un trattore che ara in un campo o come una automobile che corre sull'autostrada. E mi sembrava di essere io ad arare a guidare; che la forza del rumore e del rendimento dipendesse da un acceleratore legato al mio lavoro: quando io aumentavo, aumentava tutta la fabbrica e quando rallentavo sentivo qualcosa cadere dall'unisono del lavoro di tutti, qualcosa come aprirsi una porta, nascere una voce, una finestra aperta richiamare attenzione. Questo lavoro, figlio della fabbrica, mi piaceva e mi dava soddisfazione tanto che a mezzogiorno verso la mensa allungavo il giro per passare al reparto imballaggio, dove le macchine nuove, miracolosamente lucide e complete dopo essere passate per tante mani e catene, aspettavano in fila di essere custodite nelle casse e spedite, con la loro faccia piena di denti, in tutto il mondo.
Perché tutti non amavano questo lavoro, e molti addirittura lavoravano e vivevano nella fabbrica dimenticando questo frutto del loro lavoro, dimenticando l'esistenza dell'ultima porta della fabbrica? Se avessi una risposta a questa domanda potrei sapere anche perché alcuni malvagi hanno sempre agito contro di me, ribelli ad ogni legge morale, colpendo me forse per colpire la legge ordinata della fabbrica, dove prosperavano; proprio come le malattie si rivoltano contro il corpo che le ha nutrite.
Passati quasi due mesi di lavoro nella fabbrica mi accorsi però di non aver guadagnato o perduto niente. Voglio dire che m'accorsi di essere la stessa persona di cinquanta giorni prima, la stessa da tanto tempo, e che niente era cambiato dentro o fuori di me nelle cose importanti della mia vita, che cioè la mia vita era rimasta uguale, senza nemmeno mostrare i segni di una prossima trasformazione. Lasciavo ogni giorno casa mia, viaggiavo, lavoravo, andavo alla mensa, incontravo migliaia di persone, imparavo a lavorare, tornavo a casa; ma dentro di me dopo due mesi non era cambiato niente. Dovevo convincermi a pensare: " Sono un operaio, lavoro in una grande industria, entro dentro la fabbrica ", e anche pensandole, queste cose non muovevano niente dentro di me. Soltanto mi tornava in mente il mio armadietto nello spogliatoio, con il suo numero scritto a fuoco e il lucchetto che aveva sotto le mani un sapore diverso da tutti gli altri metalli che toccavo nel corso della giornata; la sua dolce nichelatura dava alle mie mani un senso di sollievo che arrivava alla mia coscienza come il segno che il lavoro era finito. Lasciavo nell'armadietto la mia tuta e le scarpe da lavoro e alcuni libretti che l'Ufficio del Personale mi aveva consegnato il primo giorno.
Lo spogliatoio era invaso dall'aria umida delle docce, dal puzzo dei gabinetti e dei magazzini, dal caldo delle caldaie da una parte e dall'altra dal freddo che veniva con un vento diretto dalle cataste di materiali e di acciai, bianche e verdi. Ma li ritrovavo il segreto di quel contatto con gli altri, eccitante e commovente che in passato avevo avuto nei dormitori del collegio o delle caserme, anche se sempre in silenzio e senza che mai riuscisse a farmi stabilire dei rapporti continui con gli altri. Questo perché io ho sempre guardato dietro la faccia della verità. Come è bello e innocente un dormitorio con i letti fatti, tutti in ordine, con i bianchi cuscini gonfi di amore e di buoni sentimenti e le cassette delle scarpe in fondo ai letti; o i giacigli dei soldati, le brande con gli occhielli di ferro, i castelli, gli zaini e le baionette sulle rastrelliere. E così è anche bella la fabbrica, con i suoi vetri e metalli, con le grandi arcate azzurre e tutte le macchine in fila, quando è deserta e sembra che tutti gli uomini che lavorano a quei posti puliti, vicino ai banchi e alle manopole, debbano naturalmente essere sinceri e coraggiosi. Invece la fabbrica si riempiva di gente di tutte le specie. Un senso di confusione, appesantito da una fumosa tristezza, da quella luce pallida che negli angoli facevano gli olii scintillando sulla corrente, mi prendeva a sentire anche che tutti andavano ripetendo gli stessi discorsi. Anche delle ferie, vicine, parlavano tutti allo stesso modo. Anche noi appena arrivati potevamo stare a casa due settimane; ma noi senza paga. Se volevamo la paga potevamo venire a lavorare; potevamo metterci a disposizione e l'Ufficio del Personale ci avrebbe assegnato a quei lavori che dovevano continuate. Fece tutto Pinna, anche per me, e scelse i turni di notte della guardia alle cabine elettriche. Debbo dire che lavorare a quell'ora, entrare nella fabbrica misteriosa, lucente pur senza rompere il buio come vin pezzo di stella caduto, girare nel vuoto dei reparti con l'impressione di camminare nel sonno di tutti quelli che nel giorno erano stati in quei posti, toccarne gli attrezzi o spostarne le sedie .Proprio con l'impressione di camminate nel loro sonno, a casa loro, nelle loro testo, come un mago e vivere nel silenzio, in un silenzio assurdo in quella matrice di rumore, e vedere ferme quelle macchine e tutti i nastri trasportatori, era bello e affascinante. Con lo stesso stupore entravo nella chiesa del collegio di notte dopo il riposo, portando vasi di fiori e di erbe per preparare il sepolcro dei Giovedì santo. Entravamo nella cabina chiudendo dietro di noi una porta enorme e pesantissima, ci avvicinavamo ai trasformatori, mettevamo le giacche sulla seggiola e tiravamo fuori i gelati. Passavamo delle bellissime notti, cori l'aria che veniva dalle finestre muovendo le tende e prendendoci per i polsi. La nostra amicizia si allargava in quelle correnti come la nostra fantasia. - Siamo nella cella della sedia elettrica, - diceva Pinna; io stendevo le gambe e mi rovesciavo sullo schienale della seggiola; così arrivavo a vedere la luna bassa sulle colline e attribuivo alla sua faccia i rumori dell'elettricità al novemila. - Meglio qui che alle fresatrici, - diceva Pinna. -Di notte, - rispondevo; - di giorno non starei qui, fermo. Non farei questo lavoro, come di notte non lavorerei alle frese.
Le due settimane passarono in un lampo e ci ritrovavamo nel nostro reparto con l'orario normale. Ricominciare a lavorare la mattina, in mezzo al reparto completo e a tutta la frenesia della fabbrica, non mi dispiacque e anzi per qualche giorno mi sembrò di aver ritrovato una buona compagnia.

indietro