ANTOLOGIA
- fonti letterarie
BEPPE
FENOGLIO - LA MALORA
(pag.
158 - 162)
Quasi
tre anni sono restato al Pavaglione, e adesso ci manco da cinque mesi,
ma mi sembra ieri sera che ci arrivai la prima volta, e al bordello del
cane Tobia mi si fece incontro sull'aia e nel salutarmi mi tastava
spalle e braccia per sentire se in quella settimana i miei non m'avevano
lasciato deperire apposta.
Di chi proprio non posso lamentarmi è la donna di Tobia. Alla prima
vista troavo che avevo l'aria brava e mi prese in stima e a benvolere.
Mai una volta che abbia scorciato i capelli ai suoi figli senza farmi
poi passar anche me sotto le forbici e la scodella, e tante sere
d'inverno, dopo d'aver richiamato alla catena il cane alla larga nel
bosco, entrava col lume nella stalla a vedere se ero ben coperto. E
m'accudì anche meglio quando seppe che avevo un fratello che studiava
da prete. Io che Tobia lo chiamavo per nome, a lei diedi sempre della
padrona.
Lei e Tobia hanno tre figli. La prima si chiamava Ginotta, io non l'ho
conosciuta tanto perché andò via sposa che io ero a casa sua da solo
sei mesi: quando ci arrivai, già due sensali salivano per lei al
Pavaglione. Non ho potuto conoscerla tanto Ginotta, ma è stato vivendo
quel poco accanto a lei che mi son fatto un'idea di quel che avrebbe
potuto valere in famiglia quella nostra sorella se la sua vita fosse
durata, e mi sono persuaso che non sarebbe cambiato niente.
I due maschi, uno è un po' più vecchio di me e l'altro un po' più
giovane. Con loro ci facevo quattro parole a testa al giorno, ma nessuno
dei due m'ha mai trattato con prepotenza, forse perché sapevano bene
che bastava una tempesta un po' arrabbiata e un piccolo conto nella
testa di loro padre per spedirli tutt'e due a far la mia medesima fine
lontano da casa. Tant'è vero che delle volte Tobia gli comandava
qualche lavoro mentre c'ero io lì magari con le mani in mano e loro se
lo facevano senza neanche sognarsi di passarlo a me.
Per venire a Tobia, lui m'ha sempre trattato alla pari dei suoi
figli: mi faceva lavorare altrettanto e mi dava tanto da mangiare. A
lavorare sotto a Tobia c'era da lasciarci non solo la prima pelle ma
anche un po' più sotto , bisognava stare al passo di loro tre e quelli
tiravano come tre manzi sotto un solo giogo. Almeno dopo tutta quella
fatica si fosse mangiato in proporzione, ma da Tobia si mangia va di
regola come a casa mia nelle giornate più nere. A mezzogiorno come a
cena passavano quasi sempre polenta, da insaporire strofinandola a turno
contro un'acciuga che pendeva per un filo dalla travata; l'acciuga non
aveva già
più nessuna figura d'acciuga e noi andavamo avanti a strofinare ancora
qualche giorno, e chi strofinava più dell'onesto, fosse ben stata
Ginotta che doveva sposarsi tra poco, Tobia lo picchiava attraverso la
tavola, picchiava con una mano mentre con l'altra fermava l'acciuga che
ballava al filo.
Dopo queste cene, Tobia pretendeva che dopo si cantasse; soffiava
sul lume e diceva ai figli di cantare. Loro cantavano, e anche allo
scuro s'indovinava che Tobia sorrideva come se gli si lisciasse il pelo.
lo non potevo aggiungermi perché non sapevo nessuna delle loro canzoni,
ma poi le imparai tutte perché così volle Tobia, me lo disse come il
comando d'un lavoro sulla terra.
Tante di quelle volte, nella stalla, sul mio paglione, aspettando che mi
si addormentasse la pancia perché potesse addormentarsi anche la testa,
mi sono domandato se alla fine della mia annata non c'era pericolo di
non toccar quei sette marenghi. E pensavo anche a come faceva Gínotta,
che pativa la nostra stessa fame, ad avere quell'aspetto, che sembrava
già una sposa del primo anno.
Venni presto in chiaro del perché lavoravano così da demoni e
tiravano tanto la cinghia, da un discorso d'interesse che si fecero
dietro la casa Tobia e suo figlio più vecchio.
lo ero lì per mio conto, che guardavo il rittano di Sant'Elena e
aspettavo che da dentro mi chiamassero a mangiare, quando girano la casa
Tobia e suo figlio Jano. Si sedettero sui talloni, il vecchio sputò in
terra, il figlio sputò sul bagnato del padre, di nuovo sputò Tobia e
di nuovo Jano.
Poi Tobia disse: " Siamo a una buona mira, Jano ".
" Ma se lo dicevi già quando m'hai messo al mondo! "
" Ti dico che adesso siamo a una buona mira. "
" E per quando sarebbe? "
" Tu adesso dovresti avere quasi diciannove anni. Be', per quel
giorno glorioso non sarai ancora un uomo. "
" Ma io sono un uomo già adesso! "
Tobia si mise a ridere: " Sì che sei già un uomo. Tu non sei mio
figlio, sei il mio avvocato. Senti qui cosa ho io nella mia mente
". Ma proprio allora la padrona mise le mani all'inferriata della
cucina e ci gridò d'entrare a mangiare. Tobia le urlò: " Aspetta,
bagascia. Stiamo parlando tra noi uomini ". E poi disse a Jano :
" Ho in mente una dozzina di giornate, non di più, ma tutte a
solatio, a tenere mezze a grano e mezze a viti. Con una riva da legna e
un pratolino da metterci due pecore e una mula. Per concimarlo basterà
la cenere del forno ".
" E dove sarebbe questa terra? "
Tobia si alzò sui ginocchi per tirare più comodo un peto e poi si
riabbassò: Mica qui, mica su questa langa porca che ti piglia la
pelle a montarla prima che a lavorarla. Io me la sogno su una di
quelle collinette chiare subito sopra Alba, dove la neve ha appena
toccato che già se ne va ".
Quindi io sapevo i piani dei Rabino, e questo mi fece solo star male.
Non me ne sarebbe fatto niente se con quel mio lavoro da galera io li
avessi aiutati solo a togliersi la fame e il freddo, ma che mi
pigliassero la pelle per arrivare a farsi roba loro proprio mentre a
casa noi perdevamo il nostro bene tavola a tavola, questo mi mise
l'invidia e un veleno nella mia stanchezza.
Per certo che per far quella riuscita Tobia non ne perdonava neanche
mezza. Un giorno andiamo io e lui col carro giù a Trezzo a
macinare. Al ritorno Tobia mi diede da pensare perché un bel po' prima
di casa mi venne accanto e dettomi: " Tornatene da solo che ormai
sei buono " passò avanti con un'andatura che non gli avrei mai
fatta. Quando arrivai per mio conto al Pavaglione e fermai il carro al
cancello c'erano sull'aia i tre figli, talmente fissi all'uscio della
cucina che neanche s'accorsero di me. Sull'aia e dentro la casa c'era
tutto silenzio, salvo il suono della cinghia per aria e il suo botto
sulla schiena della padrona. Poi Tobia uscì con la cinghia sempre in
mano, venne a piantarsi in mira ai figli e dai giù a cinghiare: "
Che vi diventi tossico nelle budelle! " urlava a ogni colpo "
che vi diventi tossico nelle budelle " finché gli mancò la voce,
ma non il braccio per cinghiare ancora. Ebbene, nessuno dei tre che si
torcesse o che si lamentasse, neanche Ginotta. Intanto loro
l'avevano mangiato il coniglio, mentre noi eravamo Più al giù al
mulino, e Tobia era arrivato a prenderli solo più con gli ossi.
Padrone del Pavaglione era., e lo saarrà ancora un signore d'Alba, che
aveva la più bella farmacia d'Alba; delle volte Tobia si vantava
perfino lui che il suo padrone avesse la prima farmacia che ci fosse in
Alba, eppure quando lo nominava lo chiamava padrone di merda e gli
augurava una morte secca. Si lagnava soventissimo d'avercelo sempre
addosso, e a me questo faceva strano perché in tutta quella mia prima
annata al Pavaglione il padrone io lo vidi solo due volte: una giú ad
Alba, che gli portammo un acconto della sua parte, e l'altra venne su
lui in domatrice con un suo amico anche d'Alba, un avvocato. Era di
febbraio, e avevano la scommessa se la neve andava via prima al
Pavaglione oppure alla cascina di quell'avvocato. Dopo d'aver ben
guardato, si fermarono a far merenda, la mezzadra gli portò pane e vino
e quattro robiole una sopra l'altra, e loro le intaccarono tutte per
trovare la più saporita ma poi finirono per piluccare a tutt'e quattro.
Noialtri per la sorpresa avevamo smesso di far corbe per chiocce nella
stalla e sull'uscio della cucina stavamo a guardarli, con gli occhi
fuori della testa. Appena ripartiti sulla loro bella domatrice, Tobia si
piantò in mezzo all'aia e si mise a bestemmiare un'esagerazione, che
dopo un po' io gli andai via da vicino e la padrona andò a scrollarlo
per una spalla: " Basta, Tobia " gli disse " non ti
piglia l'onta? ".
" Ah, io ho bisogno di farmi insegnar l'onta dalla donna! "
" Sii un po' cristiano, guardati ogni tanto un po' indietro.
Bestemmi che fai schifo perché il padrone viene a trovarti una volta
ogni morte di vescovo. Ma girati indietro e guardare quelli della
Serra che il loro padrone non ha affari in città e così sotto il grano
e sotto l'uve gli sta sui piedi per dei mesi ".
E Tobia: " Sentitela che si preoccupa per quelli della Serra. Preoccupati
per la tua famiglia bagascia, perché
tu non sai quanto n'abbiamo bisogno, col padrone che per niente viene su
a mangiarci quattro robiole in una volta! " e si rimise giù a
bestemmiare, per farla ancora star male.
Dopo cena sentii la padrona fare a sua figlia: " Ce l'hai il
velo, Ginotta? Pigliamo la strada e andiamo a pregare noi due a
Cappelletto. Se non chiediamo perdono noi per lui, c'è posto che
stanotte nostro Signore ci mandi del male a noi o alla campagna ".
Tobia era giusto sull'uscio e le fece penare un po' a passare, ma
poi si schivò e disse loro dietro: " E' suonata la campana, o due
bagasce? ".
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