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SHOAH

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Agli ebrei italiani: la salvezza è a sud!

Nuovi documenti raccontano di come, forse, la Shoah italiana si poteva evitare. Dalla metà del 1943 gli ebrei d’America avevano intuito una possibile via di salvezza

di Michele Sarfatti

E se prima dell’8 settembre 1943 tutti gli ebrei della penisola fossero stati radunati nell’Italia meridionale? La Shoah li avrebbe colpiti lo stesso? Sarebbero rimasti in vita? Non si può dire, non si può sapere. Sappiamo però che rimasero in vita gli ebrei stranieri internati nel campo calabrese di Ferramonti di Tarsia e in quello campano di Campagna e gli ebrei residenti a Napoli. E sappiamo che proprio in questa città la polizia tedesca progettò di realizzare la sua prima azione antiebraica, dovendo però rinunziarvi a causa dell’insurrezione popolare e della rapidità dell’avanzata Alleata. Insomma, i 2.500-3.000 ebrei italiani e stranieri presenti nelle regioni meridionali della penisola non vennero raggiunti dalla Shoah. Essa invece raggiunse e decimò le circa 43.000 persone classificate «di razza ebraica» che si trovavano nell’Italia centro-settentrionale subito dopo l’8 settembre 1943. Come ho detto, non possiamo sapere se il loro trasferimento a Sud avrebbe determinato la loro salvezza o avrebbe modificato le prospettive di chi già vi si trovava. Peraltro, questa non è la domanda giusta. La domanda giusta è: quel trasferimento, nel momento in cui venne prospettato, costituiva una proposta sensata?
Tutto avvenne ad iniziativa di ebrei liberi che vivevano oltre Manica e oltre Atlantico; luoghi nemici degli italiani fascisti e amici degli italiani. Essi ricevevano appelli e notizie sulla situazione degli ebrei nell’Europa percorsa dallo sterminio e cercavano di reagire con le uniche armi in loro possesso: lettere agli Stati alleati e neutrali affinché agissero in favore delle vite dei nuclei ebraici in procinto di essere inglobati dalla Shoah. Di queste lettere e di quelle ad esse connesse si parlerà qui di seguito. Per comprenderne lo spirito e la sequenza occorre però variare la consueta messa a fuoco italiana. Noi siamo abituati ad assegnare grande importanza al 25 luglio (caduta del fascismo) e all’8 settembre del 1943 (armistizio). Ciò non è sbagliato. Ma la nostra piccola Italia non è al centro del mondo. Proviamo allora a guardare al fronte bellico nel Mediterraneo, senza preferenze: 4 novembre 1942, vittoria alleata di El Alamein (fine del pericolo per Egitto e Palestina). 21 gennaio 1943, liberazione alleata di Tripoli (fine delle colonie italiane in Africa). 7 maggio 1943, liberazione alleata di Tunisi (fine della presenza nazifascista in Africa). 4 giugno 1944, liberazione alleata di Roma; ecc.
Ecco, in questo contesto, da un lato gli avvenimenti politici italiani dell’estate 1943 risultano ricondotti alla categoria di «rivolgimenti interni» indotti dallo sbarco del nemico sul suolo patrio (10 luglio in Sicilia; 3 settembre in Calabria), dall’altro assume rilievo il maturare dell’impegno diretto germanico nella difesa del fronte meridionale, ossia diviene prevedibile un afflusso di truppe tedesche sul suolo italiano. Insomma, fu il semplice (e auspicato) approssimarsi fisico della guerra alla penisola italiana a preoccupare gli ebrei liberi per il destino degli ebrei della penisola. Mossi da tutto questo, i primi si dettero l’obiettivo di far trasferire i secondi nella zona italiana che prevedibilmente sarebbe stata raggiunta per prima dagli Alleati liberatori: il Sud. Si trattava di un ragionamento semplice, sensato. Esso si sviluppò nel corso dell’estate 1943. Vi era però stata una premessa sei mesi prima. Vediamo come si svolsero entrambi gli episodi, sulla base della documentazione ad oggi disponibile.
Alla fine del dicembre 1942, gli ebrei stranieri internati a Ferramonti inviano un appello al governo statunitense. Essi temono di essere consegnati dall’Italia alla Germania e di essere deportati da questa, e mostrano di essere ben edotti di quanto sta accadendo ai loro familiari nell’Europa orientale: «Almost everybody among them [l’appello è scritto in terza persona] has near relatives who had been deported to Poland some months ago and they know that there is no hope to see them any more because there is no way back from that Hell of Despair. […] There is reasonable doubt whether the miserable Jews will be able to survive the process of systematical physical annihilation. In a short time there will remain only the tombs of Jewish European population“. Pertanto chiedono agli Alleati liberatori di concordare con il governo italiano, con l’intermediazione della Santa Sede, il loro trasferimento in Africa o Medio Oriente. Non conosciamo le esatte vicissitudini di questo appello, che sembra impiegare ben due mesi per varcare l’oceano. Peraltro è ragionevole ritenere che esso transiti da Londra, perché il 26 febbraio 1943 Stephen Wise, presidente del Congresso Mondiale Ebraico e dell’American Jewish Congress, comunica a Myron Taylor, rappresentante statunitense presso la Santa Sede (all’epoca residente a Washington), un cablogramma da Londra che denuncia un serio pericolo di deportazione per gli ebrei stranieri internati in Italia. Wise chiede a Taylor di intervenire presso il governo italiano e il primo marzo questi trasmette la richiesta ad Amleto Cicognani, rappresentante della Santa Sede a Washington. Il 6 marzo questi scrive a Luigi Maglione, segretario di Stato della Santa Sede, precisando di essere stato sollecitato anche dall’ambasciatore jugoslavo negli Usa e aggiungendo che la «deportazione in Polonia» degli ebrei jugoslavi dall’Italia e dai territori da essa occupati «significa loro condanna a morte». Il 17 marzo la Santa Sede telegrafa a Cicognani che essa «continua interessarsi vivamente favore ebrei segnalati»; il 18 marzo Cicognani trasmette la risposta a Taylor. Il 10 aprile (non è noto se a seguito di una nuova sollecitazione, o in applicazione tardiva della risposta del 17 marzo) Giovanni Montini, sostituto alla Segreteria di Stato della Santa Sede, chiede a Francesco Borgongini Duca, nunzio in Italia, di intervenire presso le autorità italiane riguardo alla deportazione in Polonia degli ebrei di Ferramonti, «che sarebbe prossima»; tre giorni dopo questi riferisce che «la voce è destituita di ogni fondamento».
La documentazione che ho potuto rintracciare si ferma qui. Ne risulta che il mondo «sa», che gli ebrei liberi tentano di agire, che i tempi della diplomazia non sembrano aver ricevuto accelerazioni particolari, che la Santa Sede è ritenuta l’unico intermediario/intercessore utilizzabile per salvare gli ebrei, che né essa né il governo statunitense paiono essere adeguati allo scopo.
Il secondo episodio prende il via due mesi dopo la conclusione del precedente, e ha sostanzialmente gli stessi protagonisti. Il 14 giugno 1943 il Direttorio del Partito nazionale fascista chiede a Mussolini il «rimpatrio di tutti gli stranieri che non sappiano giustificare la propria presenza in Italia e, ove ciò non fosse possibile, il loro isolamento in luoghi non di villeggiatura». Il 15 giugno il Times riferisce la notizia definendola una vera e propria minaccia di deportazione degli ebrei stranieri. Il 19 giugno Alexander Easterman e Noah Barou, della sezione inglese del Congresso mondiale ebraico, ne danno notizia a Wise, chiedendogli di agire presso il governo americano e la rappresentanza vaticana. Il 24 giugno Wise chiede agli Stati Uniti di sollecitare la Svizzera ad accogliere gli ebrei di Ferramonti e il giorno seguente chiede a Taylor di agire presso il Vaticano. Il 29 giugno Taylor invia la lettera di Wise a Cicognani, pregandolo di intervenire; questi il 3 luglio risponde di reputare «falsa» la notizia, ma che interverrà presso Maglione (il quale nel frattempo aveva già risposto a una similare richiesta del rappresentante inglese presso il Vaticano, affermando che con un nuovo intervento presso le autorità italiane «si rischierebbe di fare più male che bene»).
Il 19 luglio Easterman torna alla carica, sollecitando William Godfrey, rappresentante vaticano a Londra, a intervenire presso il governo italiano affinché concentri urgentemente a sud gli ebrei italiani e stranieri della penisola e gli ebrei della Dalmazia: «There is only one hope for our people in Italy: that they be removed as speedily as possible to Southern areas of Italy where, in the event of an Allied invasion, they may come under the protection of the Allied Forces». È la prima volta che questo obiettivo viene menzionato nella documentazione da me rintracciata. Anche se la sua origine potrebbe essere stata alquanto precedente, resta il fatto che la sua menzione segue (e consegue?) allo sbarco alleato in Sicilia. Easterman non ha certezze: questo progetto è solo una «speranza»; ma non ve ne sono altre. Nello spazio di sei mesi Ferramonti, da luogo di possibile pericolo per gli ebrei ivi internati, diviene luogo di possibile salvezza per gli ebrei di altri luoghi! I tempi dei cambiamenti sono rapidi nell’epoca della Shoah (non altrettanto i tempi dei diplomatici).
Il 20 luglio Godfrey trasmette la lettera di Easterman a Maglione. Il 23 Cicognani comunica a quest’ultimo un similare appello di Wise, pervenutogli tramite Taylor (stando al testo delle missive, sembrerebbe trattarsi della lettera che Taylor aveva inviato a Cicognani il 29 giugno e che questi aveva ricevuto al più tardi il 3 luglio!). Cinque giorni dopo Mussolini viene destituito; il 26 luglio la Santa Sede risponde a Cicognani di rassicurare Taylor che essa «qualora sia necessario, farà tutto il possibile per evitare attuazione temuta misura». La tranquillità vaticana non convince i dirigenti ebrei. Il 2 agosto Easterman si rivolge direttamente a Pio XII, chiedendogli «to use your high authority by suggesting Italian authorities may remove as speedily as possible to Southern Italy or other safer areas […] Jews refugees and Italian nationals»; il papa essendo «the only hope for saving them from persecution and death». La risposta, datata 6 agosto, è: «Santa Sede continuerà fare tutto il possibile favore ebrei». Sei giorni dopo Maglione interpella Francesco Babuscio Rizzo, incaricato d’affari italiano presso la Santa Sede, il quale assicura, a nome del nuovo governo Badoglio, «che da parte delle autorità italiane sono state date tutte le possibili assicurazioni agli interessati e che ne viene facilitato anche lo spostamento in zone che possano destare in essi minore preoccupazione».
Nel frattempo, il 20 luglio la Segreteria di Stato statunitense comunica a Wise (alla cui lettera del 24 giugno aveva dato ricevuta il 3 luglio) che la rappresentanza degli Stati Uniti a Berna nega l’esistenza di pericoli per gli ebrei italiani, anche sulla base del fatto che La Stampa del 10 luglio ha smentito la notizia pubblicata dal Times del 15 giugno. Ma il 4 agosto James Wise, rappresentante a Washington del Congresso Mondiale Ebraico (e figlio di Stephen), scrive al segretario di Stato statunitense che anche l’ora attesa abrogazione delle leggi antiebraiche non muta il pericolo per gli ebrei dell’Italia settentrionale di cadere nelle mani dei nazisti; pertanto occorre proprio che gli Stati Uniti, per il tramite di un paese neutrale, premano sul governo italiano perché attui «immediately» il trasferimento degli ebrei a sud. L’11 agosto egli invia una lettera similare, ma più accorata, alla rappresentanza vaticana a Washington, precisando che le ultime informazioni delineano la «destruction of four million Jews in Nazi dominated Europe». Cinque giorni dopo Stephen Wise scrive all’ambasciatore elvetico presso gli Stati Uniti, chiedendo che la Svizzera prema sul governo italiano perché gli ebrei dell’Italia settentrionale vengano trasferiti al sud o perché la stessa Confederazione apra loro le sue frontiere; anche in questa lettera viene menzionata la cifra di quattro milioni di ebrei uccisi. Il 26 agosto Maglione risponde a Cicognani (che il 20 gli ha comunicato l’appello di James Wise dell’11) invitandolo a riferire che «Santa Sede si è già interessata favore ebrei segnalati». Il 3 settembre Berna risponde alla propria rappresentanza a Washington di non poter allargare la normativa di accoglimento dei profughi, di non poter intervenire in favore di persone che non sono sotto la sua formale protezione, e comunque di ritenere che un intervento presso il governo italiano non avrebbe alcun risultato. Segue a ruota l’8 settembre e l’inizio della Shoah anche per gli ebrei dell’Italia centrale e settentrionale, ebrei morituri che gli ebrei liberi avevano cercato disperatamente di far salvare, senza però trovare rispondenza.

I documenti menzionati sono conservati presso Franklin D. Roosevelt Library di Hyde Park (NY), American Jewish Archives di Cincinnati, Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, o pubblicati in Actes e Documents du Saint Siège relatifs à la seconde guerre mondiale (9) e Documenti diplomatici svizzeri (14). Alcuni di essi erano già menzionati nel volume di Klaus Voigt, Il rifugio precario, che riferisce anche di azioni condotte da ebrei italiani nell’agosto 1943.

(in Diario del mese. Numero 1, anno II. Venerdì 24 gennaio 2003)

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Ipertesto realizzato dal Prof. Giuseppe Landolfi

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