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 I piani dell'osservazione
di Gianni Bergamaschi

Premessa introduttiva  

Mi è accaduto di “riconoscere”, purtroppo in tempi assai recenti, l’estremo interesse che da sempre avrebbe potuto avere per me l’intera questione relativa al rapporto tra narrazione e storia.

Ho iniziato, così, poco prima che scoccasse il terzo millennio, scrivendo qualche pagina in tal senso orientata, e successivamente lavorando con i miei alunni di II media attorno ad un preciso manipolo di competenze specificamente attinenti allo scrivere storia/storie: operazione per natura destinata a coinvolgere tanto la semiotica letteraria, universo da cui provengo, quanto la più recente didattica della storia, in un’azione che sinergicamente affronti il problema della cangiante coabitazione di molteplici tipologie discorsive, vuoi nel manufatto “narrativo”, vuoi in quello storiografico.

Allo scopo, avevo da tempo definito e predisposto tanto le strategie “operative”, quanto gli strumenti concettuali necessari, oltre ai diversi materiali testuali e/o iconografici su cui poter concretamente lavorare per ricavarne dati e conoscenze da valutare insieme e da negoziare, alla fine, in forma narrativa. Infatti, sotto il profilo più squisitamente letterario, i ragazzi hanno concluso l’intera attività producendo collettivamente un racconto “storico” niente male: Diario del 1348.

Con gli stessi alunni ho realizzato quest’anno, “leggendo” attivamente il manuale in adozione e una trentina di documenti da me preventivamente selezionati, una grande e articolata linea del tempo (relativa alla I guerra mondiale), immortalata da una vistosa e vivace teoria di cartelloni (successivamente appesi ad una parete quale utile sussidio mnemonico-didattico su cui di fatto torniamo spesso). Accanto a foto, disegni, cronologie, macroproposizioni di sintesi e cartigli-link di approfondimento, vi appaiono, marcate con assoluta evidenza, alcune indicazioni concettuali e dinamiche utili ad una “comprensione”/elaborazione narrativa dell’intero percorso, costruito sulla base di una mappa ottenuta elaborando un suggestivo passaggio di J. Bruner (La cultura dell’educazione, 1997, p. 107) : “Quello che fa girare la storia e la rende degna di essere raccontata è la presenza di una crisi: qualcosa che non quadra fra attori, azioni, obiettivi, situazioni e mezzi. […] La narrazione comincia con un prologo esplicito o implicito che stabilisce la normalità o la legittimità delle sue circostanze iniziali […]. L’azione poi si sviluppa portando a una rottura, a una violazione delle aspettative legittime. Quello che viene dopo è il ripristino della legittimità iniziale o un sovvertimento dello stato di cose, che crea un nuovo ordine di legittimità”.

Lo scorso dicembre ho ospitato, in concomitanza con le mie lezioni di storia, alcuni gruppi di alunni di quinta elementare (Progetto accoglienza), e con ciascuno di essi ho svolto, rigorosamente limitando il mio ruolo a quello di puro e semplice stimolatore, osservatore, consigliere da interpellare solo in caso di bisogno, orientatore e coordinatore di intelligenze e affettività, un agile, brevissimo (2 h.) e gratificante laboratorio sul tema Quel fatidico 28 giugno 1914.

Lavorando su altrettanti passaggi (mai superiori alla paginetta) selezionati da La grande storia della prima guerra mondiale di Martin Gilbert e distribuiti agli alunni unitamente ad un questionario da me appositamente predisposto, i cinque gruppi misti formatisi per l’occasione (tre ragazzi di terza media e due di quinta elementare) hanno attivamente sviluppato la maggior parte dei seguenti punti: 

  1. lettura, studio guidato, analisi dei documenti (su domande-stimolo, di comprensione immediata, di riflessione, ecc.);

  2. decostruzione e successiva “ricostruzione” del testo esperto;

  3. problematizzazione;

  4. attualizzazione di fatti e problemi;

  5. gioco dei “perché”, con ricerca di risposte a partire dai documenti;

  6. produzione di ipotesi;

  7. controfattualità (“Che cosa sarebbe successo, invece,  se…?”);

  8. dibattito collettivo su aspetti, momenti e problemi evidenziati da ciascun gruppo;

  9. consapevolizzazione e assemblaggio delle conoscenze acquisite;

  10. produzione orale di racconti “storici”;

  11. confronto con le versioni proposte da alcuni noti manuali scolastici.

Attualmente, mi sto occupando del processo di produzione del testo storico-narrativo e/o storiografico, della sua struttura, delle forme discorsive in esso coinvolte e, infine, della costruzione narrativa del “mondo” (proprio e altrui) nell’adolescente.

Il relativo materiale da me già fissato costituisce ormai un buon corpus su cui poter discretamente lavorare, sempre mirando alla concreta ricaduta didattica di ogni riflessione e teoria.

Una suggestione tra le tante, soprattutto in vista di una per me imminente ed esplicita loro applicazione a laboratori didattici di storia locale, il potente concetto, decisamente trasversale (antropologia, psicologia, etologia, sociologia, fisica, pittura, ottica, fotografia, logistica militare, ecc.) di campo: contesto, scenario, mappa, porzione di “panorama Mesdag”, regione spazio-temporale che l’“occhio” può “comprendere” da un punto d’osservazione determinato, in cui si manifestano fenomeni fisicamente verificabili e giocano elementi (definibili sulla base delle reciproche relazioni), in seguito all’azione di forze interagenti e interinfluenti, di natura fisica o psicologica, miranti ad una certa organizzazione del “mondo” (eventi, dati, oggetti, circostanze, rapporti, ‘realtà’), o alla risoluzione di tensioni, attraverso processi scatenati da crisi-problemi.

In tal senso, un campo è anche una “lessìa”: spazio ricoperto dal linguaggio (suo eccipiente naturale) entro cui poter osservare i sensi e le loro migrazioni, l’affiorare dei codici e il passaggio delle citazioni (R. Barthes).

L’osservatore ne fa parte, entrando necessariamente in relazione con fenomeni, eventi, dati, circostanze, elementi, forze, problemi, tensioni e processi.

I piani dell’osservazione 

Seduto in uno dei tanti scompartimenti di un rapido che viaggia da Brescia verso Milano, trascorro piacevolmente il mio tempo guardando fuori dal finestrino.

E’ una bella e chiara giornata di sole. Lo schermo è ampio e ad altissima definizione.

Davanti ai miei occhi scorrono mille immagini che mi sforzo di catturare e comprendere: le ondulazioni moreniche della Franciacorta, le Prealpi bresciane e, più distanti, i monti che fanno da imponenti quinte al lago di Iseo.

Siccome oggi l’aria è tanto trasparente, riesco a percepire, come fossero vicinissime, persino le cime ancora innevate dei più remoti rilievi (quando c’è foschia, per non dire nebbia, sembra quasi che questo nostro mondo non duri che poche centinaia di metri).

Indugio per qualche istante sull’incantevole staticità della visione che ho davanti.

Ora lo spazio che mi separa dalle collinette bergamasche è colmato da estese campagne coltivate e, più in là, già intuisco il profilo dei monti che concludono la Brianza, il Resegone…

Mentre il treno procede nella sua corsa, ad ogni stazione leggo in fretta i nomi dei paesi che esso tocca senza fermarvisi, ma non mi sfuggono certo l’identità, l’estensione o la generale struttura di tutti quei centri abitati che i modesti rilievi (o altro genere di ostacoli) non nascondono del tutto alla mia vista, anche se distanti qualche chilometro.

Proprio in questo momento, il treno sta sfrecciando in prossimità di un passaggio a livello oltre il quale, chissà da quanto tempo, sono ferme forse alcune decine di auto e qualche prudente ciclista della cui fisionomia non riesco a trattenere nulla, tanto le loro figure sono vicine e volano via in un baleno (domani, dovessero passarmi accanto in un posto qualsiasi, non ne riconoscerei neppure uno).

Poco più in là, due ragazzi passeggiavano tranquilli lungo un magnifico viale alberato: ora non ci sono più …

Mentre osservo tutto questo ed altro ancora, mi rendo istintivamente conto di come siano diversi i tempi di “scorrimento” dei vari oggetti presi ogni volta in considerazione: di una brevità impossibile ed estenuante la durata di quelli più vicini, meno frustrante quella delle realtà poste ad una distanza di cento o duecento metri da me; ma ciò che sembra invitarmi ad una più comprensiva e serena contemplazione dista almeno mezzo chilometro dal mio treno, per non parlare di quelle aristocratiche montagne che giacciono lassù, imperturbabili e granitiche, autentici parametri “eterni”, a cornice, bastione o baluardo di tutto un mondo effimero.

Qualcos’altro mi colpisce e mi fa riflettere sulle leggi dell’ottica, e dell’illusione ottica (come dire: sulle leggi dell’osservazione e dell’illusione “geostoriografica”). Mentre il treno prosegue la sua corsa, i vari piani della realtà osservata, cioè i diversi suoi gradi di profondità e generalità, danzano come in una sarabanda, innescando una coreografia circolare, per cui il vicinissimo sparisce in fretta, ma sembra vada a nascondersi nel grembo del lontanissimo, il prossimo fa la stessa cosa, seppure con un po’ di flemma, il quasi-lontano funge da perno, stabile quanto basta, per una vera “terrestrium rerum revolutio”, mentre il lontano e il lontanissimo non soltanto si offrono generosamente alla vista per un bel pezzo, ma, illusionisticamente (a causa del moto dei primi due piani), sembrano addirittura protendersi nel senso stesso della corsa, introducendosi tendenzialmente tra le realtà del primo, del secondo e del terzo livello, fino a che, in qualche modo, ne fanno parte.  

Non vorrebbe essere una metafora, ma lo è, e forse può gettare qualche luce su almeno cinque importanti aspetti del discorso geostorico:

a)      la sostanziale complanarità e omogeneità dei piani considerati e dei concetti utilizzati;

b)      il rischio di poter cadere nella tentazione illusionistica del credere che vi sia più “realtà” nelle lunghe durate, negli scenari onnicomprensivi, nelle strutture astratte e generali o nei macroconcetti di quanta non ve ne possa essere negli eventi di durata brevissima, negli accidenti locali, nei modellini parziali, effimeri e concreti o nei microconcetti empirici;

c)      l’imprescindibilità di una seria e costante “messa in conto” del particolare punto di vista ogni volta necessariamente assunto dall’osservatore;

d)      il valore sintetico della variabile “spazio/tempo”;

e)      la necessità di tenere sempre presente e sviscerare la costante compenetrazione, la reciproca appartenenza e l’ostinata coesistenza/persistenza dei vari spazio-tempi, cioè dei vari “piani” (in senso quasi “cinematografico”) di realtà.

 Senza contare l’irriducibile condizione di un mondo esso stesso in movimento, oltre che osservato da un occhio “non fermo”.

È chiaro come tale ulteriore e necessaria circostanza contribuisca non poco a rendere definitivamente vana ogni residua nostra pretesa di “oggettività”. Come posso, mentre inevitabilmente mi modifico (quale osservatore), aspirare all’attendibile interpretazione di un’altra realtà anch’essa, in quello stesso istante, soggetta a mutamento?

Ciò vale, ovviamente, a maggior ragione per tutta quella serie di operazioni normalmente condotte dalle scienze umane e/o sociali, i cui attori (osservatore e realtà osservata) sono, per definizione, degli esseri assai poco “granitici”.

Che dire, infine, dell’interazione notamente “perturbante” osservatore-oggetto “spiato” e di un paio di altre cose che potrebbero degnamente completare la presente pur breve “critica dell’illusione geostorica”?

 Certo è che, zoomando su un paio di paesini collocati ai piedi di quelle Prealpi che dal treno mi apparivano discretamente stabili e lontane, avrei forse potuto anche lì sorprendere qualche auto ferma ad un passaggio a livello, degli agricoltori alle prese con il proprio lavoro quotidiano, qualche pescatore di un fiume che passa, o dei bambini in un prato intenti a godersi allegramente l’attimo fuggente, come è vero che proprio da una di quelle creste sempre innevate, “immutabili”, solitarie, e tuttavia pullulanti di una multiforme esistenza animale o vegetale in perpetuo cambiamento, un esperto alpinista che ha appena superato se stesso sta ora accanitamente inseguendo sul proprio potente binocolo un insignificante oggetto filiforme che serpeggia fendendo l’immobile pianura, con a bordo dei viaggiatori convinti di essere collocati in un punto speciale e unico dell’universo.

 Per lui, la “longue durée” è laggiù: una lunga durata dove tutto si muove, sia pure lentissimamente, a causa della distanza, mentre lui, breve e vicinissimo, sta fermo …

 
 

  

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