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LABORATORIO DI STORIA > materiali didattici > lezioni > i piani dell'osservazione |
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I
piani dell'osservazione Premessa
introduttiva
Mi è accaduto di
“riconoscere”, purtroppo in tempi assai recenti, l’estremo interesse
che da sempre avrebbe potuto avere per me l’intera questione relativa al
rapporto tra narrazione e storia. Ho iniziato, così,
poco prima che scoccasse il terzo millennio, scrivendo qualche pagina in tal
senso orientata, e successivamente lavorando con i miei alunni di II
media attorno ad un preciso manipolo di competenze
specificamente attinenti allo scrivere
storia/storie: operazione per natura destinata a coinvolgere tanto
la semiotica letteraria, universo da cui provengo, quanto la
più recente didattica della storia, in un’azione che
sinergicamente affronti il problema della cangiante coabitazione di
molteplici tipologie discorsive, vuoi nel manufatto “narrativo”, vuoi in
quello storiografico. Allo scopo, avevo da tempo definito e predisposto tanto le strategie “operative”, quanto gli strumenti concettuali necessari, oltre ai diversi materiali testuali e/o iconografici su cui poter concretamente lavorare per ricavarne dati e conoscenze da valutare insieme e da negoziare, alla fine, in forma narrativa. Infatti, sotto il profilo più squisitamente letterario, i ragazzi hanno concluso l’intera attività producendo collettivamente un racconto “storico” niente male: Diario del 1348. Con gli stessi alunni ho realizzato quest’anno, “leggendo” attivamente il manuale in adozione e una trentina di documenti da me preventivamente selezionati, una grande e articolata linea del tempo (relativa alla I guerra mondiale), immortalata da una vistosa e vivace teoria di cartelloni (successivamente appesi ad una parete quale utile sussidio mnemonico-didattico su cui di fatto torniamo spesso). Accanto a foto, disegni, cronologie, macroproposizioni di sintesi e cartigli-link di approfondimento, vi appaiono, marcate con assoluta evidenza, alcune indicazioni concettuali e dinamiche utili ad una “comprensione”/elaborazione narrativa dell’intero percorso, costruito sulla base di una mappa ottenuta elaborando un suggestivo passaggio di J. Bruner (La cultura dell’educazione, 1997, p. 107) : “Quello che fa girare la storia e la rende degna di essere raccontata è la presenza di una crisi: qualcosa che non quadra fra attori, azioni, obiettivi, situazioni e mezzi. […] La narrazione comincia con un prologo esplicito o implicito che stabilisce la normalità o la legittimità delle sue circostanze iniziali […]. L’azione poi si sviluppa portando a una rottura, a una violazione delle aspettative legittime. Quello che viene dopo è il ripristino della legittimità iniziale o un sovvertimento dello stato di cose, che crea un nuovo ordine di legittimità”. Lo scorso
dicembre ho ospitato, in concomitanza con le mie lezioni di storia, alcuni
gruppi di alunni di quinta elementare (Progetto accoglienza), e con
ciascuno di essi ho svolto, rigorosamente limitando il mio ruolo a quello di
puro e semplice stimolatore, osservatore, consigliere da interpellare solo
in caso di bisogno, orientatore e coordinatore di intelligenze e affettività,
un agile, brevissimo (2 h.) e gratificante laboratorio sul tema Quel
fatidico 28 giugno 1914. Lavorando su altrettanti passaggi (mai
superiori alla paginetta) selezionati da La grande storia della
prima guerra mondiale di Martin Gilbert e distribuiti agli alunni
unitamente ad un questionario da me appositamente predisposto, i cinque
gruppi misti formatisi per l’occasione (tre ragazzi di terza media e due
di quinta elementare) hanno
attivamente sviluppato la maggior parte dei seguenti punti:
Attualmente, mi sto occupando del processo di produzione del testo storico-narrativo e/o storiografico, della sua struttura, delle forme discorsive in esso coinvolte e, infine, della costruzione narrativa del “mondo” (proprio e altrui) nell’adolescente. Il relativo materiale da me già fissato costituisce ormai un buon corpus su cui poter discretamente lavorare, sempre mirando alla concreta ricaduta didattica di ogni riflessione e teoria. Una suggestione tra le tante, soprattutto in vista di una per me imminente ed esplicita loro applicazione a laboratori didattici di storia locale, il potente concetto, decisamente trasversale (antropologia, psicologia, etologia, sociologia, fisica, pittura, ottica, fotografia, logistica militare, ecc.) di campo: contesto, scenario, mappa, porzione di “panorama Mesdag”, regione spazio-temporale che l’“occhio” può “comprendere” da un punto d’osservazione determinato, in cui si manifestano fenomeni fisicamente verificabili e giocano elementi (definibili sulla base delle reciproche relazioni), in seguito all’azione di forze interagenti e interinfluenti, di natura fisica o psicologica, miranti ad una certa organizzazione del “mondo” (eventi, dati, oggetti, circostanze, rapporti, ‘realtà’), o alla risoluzione di tensioni, attraverso processi scatenati da crisi-problemi. In tal senso, un campo
è anche una “lessìa”: spazio ricoperto dal linguaggio (suo eccipiente
naturale) entro cui poter osservare i sensi e le loro migrazioni,
l’affiorare dei codici e il passaggio delle citazioni (R. Barthes). L’osservatore ne fa parte, entrando necessariamente in relazione con fenomeni, eventi, dati, circostanze, elementi, forze, problemi, tensioni e processi. I
piani dell’osservazione
Seduto
in uno dei tanti scompartimenti di un rapido che viaggia da Brescia verso
Milano, trascorro piacevolmente il mio tempo guardando fuori dal finestrino.
E’
una bella e chiara giornata di sole. Lo schermo è ampio e ad altissima
definizione. Davanti
ai miei occhi scorrono mille immagini che mi sforzo di catturare e
comprendere: le ondulazioni moreniche della Franciacorta, le Prealpi
bresciane e, più distanti, i monti che fanno da imponenti quinte al lago di
Iseo. Siccome
oggi l’aria è tanto trasparente, riesco a percepire, come fossero
vicinissime, persino le cime ancora innevate dei più remoti rilievi (quando
c’è foschia, per non dire nebbia, sembra quasi che questo nostro mondo
non duri che poche centinaia di metri). Indugio
per qualche istante sull’incantevole staticità della visione che ho
davanti. Ora
lo spazio che mi separa dalle collinette bergamasche è colmato da estese
campagne coltivate e, più in là, già intuisco il profilo dei monti che
concludono la Brianza, il Resegone… Mentre
il treno procede nella sua corsa, ad ogni stazione leggo in fretta i nomi
dei paesi che esso tocca senza fermarvisi, ma non mi sfuggono certo
l’identità, l’estensione o la generale struttura di tutti quei centri
abitati che i modesti rilievi (o altro genere di ostacoli) non nascondono
del tutto alla mia vista, anche se distanti qualche chilometro. Proprio
in questo momento, il treno sta sfrecciando in prossimità di un passaggio a
livello oltre il quale, chissà da quanto tempo, sono ferme forse alcune
decine di auto e qualche prudente ciclista della cui fisionomia non riesco a
trattenere nulla, tanto le loro figure sono vicine e volano via in un baleno
(domani, dovessero passarmi accanto in un posto qualsiasi, non ne
riconoscerei neppure uno). Poco
più in là, due ragazzi passeggiavano tranquilli lungo un magnifico viale
alberato: ora non ci sono più … Mentre
osservo tutto questo ed altro ancora, mi rendo istintivamente conto di come
siano diversi i tempi di “scorrimento” dei vari oggetti presi ogni volta
in considerazione: di una brevità impossibile ed estenuante la durata di
quelli più vicini, meno frustrante quella delle realtà poste ad una
distanza di cento o duecento metri da me; ma ciò che sembra invitarmi ad
una più comprensiva e serena contemplazione dista almeno mezzo chilometro
dal mio treno, per non parlare di quelle aristocratiche montagne che
giacciono lassù, imperturbabili e granitiche, autentici parametri
“eterni”, a cornice, bastione o baluardo di tutto un mondo effimero. Qualcos’altro
mi colpisce e mi fa riflettere sulle leggi dell’ottica, e dell’illusione
ottica (come dire: sulle leggi dell’osservazione e dell’illusione “geostoriografica”).
Mentre il treno prosegue la sua corsa, i vari piani della realtà osservata,
cioè i diversi suoi gradi di profondità e generalità, danzano come in una
sarabanda, innescando una coreografia circolare, per cui il vicinissimo
sparisce in fretta, ma sembra vada a nascondersi nel grembo del
lontanissimo, il prossimo fa la
stessa cosa, seppure con un po’ di flemma, il quasi-lontano
funge da perno, stabile quanto basta, per una vera “terrestrium rerum
revolutio”, mentre il lontano e
il lontanissimo non soltanto si
offrono generosamente alla vista per un bel pezzo, ma, illusionisticamente
(a causa del moto dei primi due piani), sembrano addirittura protendersi nel
senso stesso della corsa, introducendosi tendenzialmente tra le realtà del
primo, del secondo e del terzo livello, fino a che, in qualche modo, ne
fanno parte. Non
vorrebbe essere una metafora, ma lo è, e forse può gettare qualche luce su
almeno cinque importanti aspetti del discorso geostorico: a)
la sostanziale complanarità e omogeneità dei piani considerati e
dei concetti utilizzati; b)
il rischio di poter cadere nella tentazione illusionistica del
credere che vi sia più “realtà” nelle lunghe durate, negli scenari
onnicomprensivi, nelle strutture astratte e generali o nei macroconcetti di
quanta non ve ne possa essere negli eventi di durata brevissima, negli
accidenti locali, nei modellini parziali, effimeri e concreti o nei
microconcetti empirici; c)
l’imprescindibilità di una seria e costante “messa in conto”
del particolare punto di vista ogni volta necessariamente assunto
dall’osservatore; d)
il valore sintetico della variabile “spazio/tempo”; e)
la necessità di tenere sempre presente e sviscerare la costante
compenetrazione, la reciproca appartenenza e l’ostinata
coesistenza/persistenza dei vari spazio-tempi, cioè dei vari “piani”
(in senso quasi “cinematografico”) di realtà. Senza
contare l’irriducibile condizione di un mondo esso stesso in movimento,
oltre che osservato da un occhio “non fermo”. È
chiaro come tale ulteriore e necessaria circostanza contribuisca non poco a
rendere definitivamente vana ogni residua nostra pretesa di
“oggettività”. Come posso, mentre inevitabilmente mi modifico (quale
osservatore), aspirare all’attendibile interpretazione di un’altra
realtà anch’essa, in quello stesso istante, soggetta a mutamento? Ciò
vale, ovviamente, a maggior ragione per tutta quella serie di operazioni
normalmente condotte dalle scienze umane e/o sociali, i cui attori
(osservatore e realtà osservata) sono, per definizione, degli esseri assai
poco “granitici”. Che
dire, infine, dell’interazione notamente “perturbante”
osservatore-oggetto “spiato” e di un paio di altre cose che potrebbero
degnamente completare la presente pur breve “critica dell’illusione
geostorica”? Certo
è che, zoomando su un paio di paesini collocati ai piedi di quelle Prealpi
che dal treno mi apparivano discretamente stabili e lontane, avrei forse
potuto anche lì sorprendere qualche auto ferma ad un passaggio a livello,
degli agricoltori alle prese con il proprio lavoro quotidiano, qualche
pescatore di un fiume che passa, o dei bambini in un prato intenti a
godersi allegramente l’attimo fuggente, come è vero che proprio da una di
quelle creste sempre innevate, “immutabili”, solitarie, e tuttavia
pullulanti di una multiforme esistenza animale o vegetale in perpetuo
cambiamento, un esperto alpinista che ha appena superato se stesso sta ora
accanitamente inseguendo sul proprio potente binocolo un insignificante
oggetto filiforme che serpeggia fendendo l’immobile pianura, con a bordo
dei viaggiatori convinti di essere collocati in un punto speciale e unico
dell’universo. Per
lui, la “longue durée” è laggiù: una lunga durata dove tutto
si muove, sia pure lentissimamente, a causa della distanza, mentre lui,
breve e vicinissimo, sta fermo … |
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