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Memorie ritrovate
Note in margine a:
M. L. CROSINA, Le storie ritrovate - Ebrei nella provincia di Trento, Trento 1995; B. PIAZZA, Perchè gli altri dimenticano. Un italiano ad Auschwitz, Milano 1956, rist. Milano 1995; N. POZZA, Più di cento prigionieri, Vicenza 1986, rist. Vicenza 1995; G. ISRAEL - P. NASTASI, Scienza e razza nell’ Italia fascista, Bologna 199
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a cura di Piero Morpurgo

 Tempo addietro è stato chiesto ad un gruppo di studenti se la loro città fosse stata occupata dai nazisti o se avesse subito l’amministrazione fascista. Il quesito sconcertò i più che comunque conclusero che nulla era accaduto nel loro luogo natio, eppure le stesse denominazioni delle strade di quel paese ricordavano il martirio subito dagli abitanti in quegli anni bui. Di tutto ciò non c’era da stupirsi poiché qualche anno fa, un piccolo gruppo di docenti, tentò di spiegare agli allievi quattordicenni quanto fosse poco opportuno l’entrare in classe decorati da svastiche, teschi, e scritte inneggianti allo sterminio. In quell’occasione quel che colpì non fu tanto l’ignoranza dei giovani bensì l’indifferenza degli altri insegnanti che davvero non comprendevano il perchè ci si preoccupasse di questioni che in fondo “facevan parte di uno stile dell’abbigliamento giovanile”. Sui nostri giorni pesa una preoccupante tendenza all’oblio, se ne era reso ben conto il triestino Bruno Piazza che, reduce da Auschwitz, riuscì -poco prima di morire nel 1946 a causa delle sofferenze che fu costretto a patire- a scrivere il libro intitolato significativamente Perché gli altri dimenticano.  Quel ricordo edito per la prima volta nel 1956  è oggi nuovamente disponibile: è una lucida testimonianza ove l’autore ammette che ancora nel 1944 stentava a credere ai sospetti diffusi sui campi di concentramento dichiarando che prima di subirli mai si sarebbe potuto convincere che si potessero commettere tali crimini, pertanto “la rivelazione esatta e oggettiva di tali misfatti è però necessaria, perché frutti infamia perenne a chi li perpetrò”. Le sevizie inflitte costringevano gli internati ad un allucinante susseguirsi di sentimenti di speranza e di sconforto, eppure in tanta disperazione il racconto trasmette il tentativo di mantenere la propria dignità. Al momento di una delle tante “selezioni” Bruno Piazza ricordava: “Fu perseguitato ed oppresso e condotto al massacro come un agnello, e non ha aperto la bocca. Così le parole di Isaia (cfr. Is. 53,7), e così noi andavamo tutti incontro alla morte, come agnelli. E non avevamo aperto bocca. Eravamo i disprezzati, gli uomini del dolore, gli ultimi. Ci eravamo caricati del male di tutto il mondo”.

E fu violenza che colpì tanti, anche in terra italiana, così come appare dalle torture che l’editore Neri Pozza vide infliggere nella caserma di San Michele a Vicenza; fu qui che il tenente Usai di fronte a una ragazza che non voleva descrivere il contenuto di alcuni bidoni paracadutati dagli alleati decise di punirla  prima con “l’operazione infame che compiono i vigliacchi su una ragazza spogliata con la violenza, tramortita da un gas, ridotta cioè senza vita” e poi ustionandola con un ferro arroventato. Vi fu anche di peggio: ci fu anche chi denunciò la propria moglie condannandola a morire nei campi di sterminio come capitò all’ebrea meranese Caterina Rapaport. Sfuggì a questi collaboratori dei nazisti il senso della Patria e non fu un caso che tra molti dei deportati vi fossero coloro che si erano distinti combattendo per l’Italia durante la Grande Guerra, sfugge ancor oggi a molti l’idea di amore per il proprio Paese e in questa ignoranza si fa strada il pensiero per cui la Costituzione della Repubblica Italiana non contenga alcun principio di libertà bensì sia all’origine del degrado della società presente. Tanta confusione nasce dall’aver smarrito la voglia e la capacità di ricordare. E’ pur vero che riannodare i fili della memoria è difficile perché -nota la Crosina- la documentaziane è spesso mutila e lacunosa quando non è stata intenzionalmente distrutta. Nonostante questi ostacoli sono state ricostruite le storie di chi fu perseguitato e di chi in quelle condizioni di pericolo riuscì a trovare persino un briciolo di solidarietà. Fu questo il caso della caparbia Rosa Abelow che riuscì, benché fosse stata internata nel 1940, ad ottenere i permessi per terminare gli studi e laurearsi in medicina. La tenacia fu tale che l’internata riuscì anche ad esercitare la professione e questo nonostante che alcuni “zelanti” cittadini avessero denunciato al Ministero dell’ Interno “che una straniera di razza ebraica e di sentimenti non certo Fascisti”  aiutava i medici locali e che se anche fosse ciò necessario per la sanità “non è certo il momento di ricorrere a stranieri nemici e tanto meno ad ebrei”.  La delazione non sortì l’effetto sperato, anche perchè sia il podestà del luogo sia il prefetto attestarono la condotta irreprensibile della dottoressa. Ben diversa fu la sorte dell’ingegner Piattelli: licenziato, sottoposto a sorveglianza a Vigo di Fassa, internato prima a Latronico (PZ) poi a Urbisaglia (MC), riuscì a tornare in Trentino da dove -il 25 luglio del 1943- si diresse a Roma desiderando riabbracciare la famiglia e illudendosi che tutto fosse finito mentre proprio allora per gli ebrei romani stava iniziando il più tragico martirio.

Su quell’ottimismo esagerato che portò a pensare che le discriminazioni sarebbero cessate, sulle illusioni che portarono molti, come il veronese ingegner Tedeschi, a non considerare la gravità dei pericoli incombenti, vi sarebbe necessità di un’attenta analisi storiografica.  Senza dubbio su tutto ciò influì la convinzione -come scrisse Käthe Perlberg- che “il carattere degli italiani è proprio privo di crudeltà” e che Mussolini “è il più giusto italiano di tutti gli italiani”; in realtà di fronte all’alternarsi di minacce e di gesti di pietà c’era di che rimanere disorientati giacché la stessa Käthe si salvò perchè il podestà di Civezzano segnalò che in quel comune non risiedeva alcuna israelita. Di fronte alle persecuzioni antebraiche vi fu la solidarietà di molti che se dimostrò come quel male fosse un colpo inferto a tutta la società e non solo a una parte di essa. Purtroppo le dimensioni della tragedia -come ricorda il professor Dunikowski deportato ad Auschwitz sin dal 1940- furono allucinanti e nonostante il tentativo di sradicare ogni sentimento umano dai prigionieri sopravvisse la pietà e il coraggio. Fu così che quando si cominciò a dar luogo all’ assassinio di 150 bambini della regione di Lublino, di fronte alla paura orribile dei piccoli -che singhiozzavano terrorizzati perchè venivano ammazzati con un’iniezione di veleno- un prigioniero uscì dalle file gridando ai fanciulli “Guardate, piccoli miei, io vado per primo, non fa affatto male” e per sopprimere questo gesto di pietà il ‘medico’ con gran rapidità affondò l’ago nel cuore del detenuto. Il coraggio dell’umanità vinse contro la vigliaccheria della barbarie. E’ questo il messaggio che trasmise (nel diario La strana disfatta, la cui traduzione italiana del 1970 andrebbe ristampata) il partigiano Marc Bloch quando un attimo prima di morire tentò di consolare un ragazzino di sedici anni condannato anche lui perchè lottava per la libertà.

Tra le testimonianze raccolte dalla Crosina colpisce quella di Leo Zelikowski, l’unico tra gli ebrei deportati dal Trentino che riuscì a sopravvivere all’ internamento ad Auschwitz. Ancora una volta è la comprensione di gran parte della popolazione di Arco che consentì all’ebreo lituano di vivere con dignità: vi fu anche chi per solidarietà con l’ingegnere gridò “Viva la Polonia libera!”  nel triste 1 settembre del 1939 e chi si premurò di portare a Zelikowski del denaro quando già era stato arrestato. Zelikowski riuscì a resistere alle percosse e alle privazioni, e scampò a una fucilazione di massa fuggendo nel bosco; da quel momento iniziò il viaggio di ritorno: verso Cracovia, a Bucarest, ad Odessa, poi a Marsiglia ed infine  ad Arco. Fu un viaggio che durò sette mesi dove le difficoltà furono rese più pesanti dal constatare che dopo il terribile eccidio c’era ancora chi osservava “Eh, questi ebrei! Ora sbucano come i funghi dopo la pioggia!”.

Questi libri sono destinati a chi, ancor oggi, è tentato dal ripetere quella frase, a chi non vuol credere che vi sia stato un inferno nel quale i demoni erano in preda alla follia collettiva, a chi non vuol sapere per poi dover ricordare. Questi libri invitano a raccogliere l’indirizzo metodologico di chi come la Crosina opera affinché la memoria storica non vada perduta e con essa il suo grave ammonimento.

Le testimonianze della tragedia risaltano anche in un libro purtroppo poco diffuso e che  ha il gran pregio di inquadrare la legislazione antiebraica nazista nel contesto europeo già Giorgio Israel ricordava che nel 1934 il ministro nazista della cultura chiese allo scienziato David Hilbert se l’ Istituto di Matematica di Göttingen avesse sofferto per l’espulsione degli ebrei. La risposta fu lapidaria “Sofferto? Non ha sofferto, Signor Ministro. Semplicemente non esiste più”[1]. In Italia i ‘Provvedimenti per la difesa della razza’ colpirono duramente le comunità di studiosi. Aveva ragione Ernesta Bittanti, vedova di Cesare Battisti che, nel suo diario intitolato Israel-Antisrael, scriveva il 27 novembre 1938: In Autunno, l’apparire dei decreti anti-ebraici in Italia. La grande massa ne è sbalordita. Non comprende. La stampa che è tutta statale, e vuole avere uno spirito antiebraico, dà uno spettacolo pietoso ributtante di incongruenze, contraddizioni, spropositi storici, nefandezze da sciacalli... Lo spettacolo di un pagliaccio ubriaco. Ma dálli, dálli, dálli, il senso di diffidenza e di odio si appicicherà, si diffonderà (a nostra vergogna) forse. Non mancano già i pappagalli ed i malvagi[2].

Non erano mancati cenni premonitori: l’obbligo di giurare fedeltà al regime fascista vide il rifiuto di soli 11 professori universitari (circa l’uno per mille) mentre gli insegnanti d’origine ebraica rappresentavano circa il 7% del corpo docente (p.172). In molti ‘giurarono’ per adempiere a una norma burocratica e in tanti lo fecero con la sincera preoccupazione di proteggere i loro figlioli; tuttavia mancò una risposta collettiva e questo limite segnò il corso della storia. Non bastò il limpido esempio di Giorgio Levi Della Vida che si rammaricò che molti credettero che egli avesse perso il posto non già per le sue idee di libertà, ma perchè colpito dalle leggi razziali che infierirono anche su quegli ebrei che “dalla prima ora e fino all’ultima aveva militato con entusiasmo e devozione sotto l’insegna del littorio”[3].

Il libro di Israel e Nastasi descrive proprio come ‘per convenienza’ o ‘per pavidità’; ma anche ‘per triste necessità’ ci si piegò a quelle barbare disposizioni che colpirono maestri e studenti ebrei. Non stupiscono le reazioni umane, ma indigna l’eccesso di zelo e l’accanimento persecutorio: il 5 settembre 1938 l’archivista fiorentina Anna Maria Enriques fu tra i primi cittadini italiani ad essere dispensata dal servizio e privata dello stipendio; al tempo stesso Pietro Fedele, Presidente dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, rifiutò di pubblicare l’edizione delle Carte del monastero di S. Maria di Firenze perché la curatrice ‘era ebrea’ benché si sapesse che aveva aderito al Movimento cristiano-sociale. La Enriques prese parte alla Resistenza e fu poi fucilata dalla Gestapo il 12 giugno 1944 dopo esser stata torturata. Isa Lori Sanfilippo assieme a Raoul Manselli ritrovarono le carte dell’archivista che furono pubblicate -nel 1990- cinquantanni dopo la loro stesura[4] (cfr. p. 165). Questo lasso di tempo indica le dimensioni della ferita inferta a tutta la cultura italiana. Anna Maria Enriques era nipote di Federigo Enriques e cugina dei Castelnuovo, dei Franchetti, dei Morpurgo; si trattava di un gruppo familiare che era molto legato ai fratelli Rosselli e ai Volterra. Ricordo tutto ciò perchè se con precisione Israel e Nastasi sottolineano come i ‘provvedimenti’ furono carichi di implicazioni drammatiche per la vita delle famiglie e non solo degli scienziati (p. 25); tuttavia occorre anche aggiungere che molte di queste persone avevano tradotto il loro spirito risorgimentale e il loro fervore culturale nell’agevolare la diffusione delle scuole e delle biblioteche popolari e nel finanziare personalmente i progetti per l’alfabetizzazione di un’ Italia unita e pluralista. Non mancavano i modelli: Salomone Morpurgo si era diplomato nel 1877 con ‘distinzione’ al Ginnasio Superiore Comunale ‘Dante Alighieri’ di Trieste ove v’era sia l’insegnamento della religione cattolica sia quello di religione ebraica e ambedue i programmi erano incentrati non solo sulla dottrina, ma anche e soprattutto sullo studio tanto delle Scritture quanto della storia sacra come della storia degli israeliti[5]. L’ intensità dei programmi didattici di quella scuola fu accompagnata da una forte determinazione nell’ aiutare agli studi chi non aveva mezzi. Quel ‘ginnasio’ presentava un programma con aperture che paiono oggi irripetibili; tutto ciò spiega anche l’impegno di un bibliofilo come Salomone Morpurgo che, aiutato nell’impresa da Ernesta Bittanti Battisti, organizzò -nel 1925- a Firenze una ‘Mostra Storica della Scuola italiana’ dal medioevo ai giorni nostri per illustrare la molteplicità della storia dei nostri studi. Nel febbraio dello stesso anno l’ebreo Vittorio Polacco interveniva -tra gli applausi- al Senato del Regno d’Italia affinché “per non essere meno liberali dell’Austria” le minoranze religiose fossero tutelate sia in quanto ebrei e valdesi hanno dimostrato attaccamento alla Patria sia perché proprio nelle pubbliche scuole dovrebbe rinsaldarsi il vincolo tra i fratelli di qualsiasi fede e di qualsiasi classe sociale[6]. Gli applausi dovettero dissolversi quando nell’aprile del 1925 Benedetto Croce organizzò il Manifesto degli intellettuali antifascisti al quale aderì anche Guido Castelnuovo. L’impegno storico e la partecipazione civile e didattica coincidevano e se Salomone Morpurgo organizzò a Penia di Canazei una colonia per bambini poveri che fu chiusa dalle autorità fasciste, Guido Castelnuovo fece in modo di attivare a Roma un’università clandestina per l’insegnamento delle scienze matematiche e fisiche che funzionò a Roma tra il ‘41 e il ‘43 mentre negli stessi anni, a Milano e Torino, Edoardo Volterra collaborava ad analoghe università clandestine che preparavano agli studi economico-giuridici[7]. Israel e Nastasi annotano come l’istituzione delle scuole ebraiche fu una manifestazione dignitosa dell’ebraismo italiano contro le leggi persecutorie del fascismo e che a questa reazione parteciparono insigni scienziati (p. 331).  Quegli furono gli anni in cui Laura Orvieto, anch’ella legata ai Rosselli, colpita dalle leggi razziali, si impegnava a diffondere le storie della storia del mondo per aiutare quei bimbi rimasti privi di scuole. Da queste brevi note appare la necessità di sottolineare con più forza di quanto abbiano fatto Israel e Nastasi che, sin dal Medio Evo, il problema dell’antisemitismo fu strettamente legato anche all’ avversità nei confronti del sistema di istruzione delle comunità ebraiche. In effetti se integriamo la tabella (pp. 81-82) di Israel e Nastasi sulle misure antiebraiche ecclesiastiche e fasciste così come si sono succedute nel tempo vedremo che sin dall’ Antichità l’obiettivo delle discriminazioni fu la cultura ebraica. Infatti l’ atteggiamento ostile verso i medici ebrei fu accompagnato da quelle difficoltà che erano state create dalla legge di Teodosio  e Valentiniano del 31 gennaio 438 che proibiva agli ebrei ogni dignitas, comprendendo secondo l’interpretazione medioevale anche il dottorato. Dottore era infatti colui che, già abilitato alla professione (magister), conseguiva con un nuovo esame la facultas docendi acquisendo così una carica pubblica vietata agli ebrei[8]. Questa norma fu applicata sino all’ abrogazione da parte dell’ Assemblea Nazionale Francese avvenuta il 27 settembre 1791 che qualche mese prima aveva provveduto a ‘riconoscere’ agli ebrei l’applicabilità dei Diritti dell’ Uomo e del Cittadino  promulgata nel 1789[9]; ovviamente queste aperture furono cancellate dal Congresso di Vienna del 1815 e poi reintrodotte a seguito dei moti rivoluzionari del 1848. In questo contesto ebbe notevole importanza la petizione al re Carlo Alberto che, il 23 dicembre 1847,  600 cittadini - tra questi Roberto e Massimo D’Azeglio, Camillo Cavour, Vincenzo Gioberti- inviarono al sovrano affinché fosse concessa l’emancipazione dei valdesi e degli israeliti[10]. In realtà ampi fenomeni di ‘interessata tolleranza’ avevano già investito il passato della storia europea giacché  il ‘successo’ della cultura ebraica, tanto nel campo esegetico quanto in quello scientifico caratterizzò le corti medievali ed è ben noto quel giudizio di un allievo di Pietro Abelardo che nel sec. XII dichiarò: “se i cristiani educano i loro figli lo fanno non per Dio ma per guadagno affinché un fratello, divenuto ecclesiastico, possa aiutare il padre e la madre e gli altri suoi fratelli al contrario gli Ebrei, per l’entusiasmo di Dio e per l’amore della Legge spingono ogni figlio allo studio in modo che possano comprendere la Legge di Dio e ciò accade non solo per i figli, ma anche per le figlie”[11]. Del resto ha notato David Ruderman[12] come la forza di attrazione della scuola medica padovana portò al formarsi di una vasta comunità ebraica dedita agli studi scientifici; infatti tra il 1617 e il 1816 almeno 320 ebrei ottennero il diploma in medicina dallo studium di Padova, a questi si affiancarono molti ebrei dediti allo studio dei nuovi modelli copernicani. Una tale espansione vien ricondotta al trasferimento -dal 1616- del potere di concessione dei titoli dai controllori della Curia di Roma all’autorità secolare del Collegium Venetum. Il senso di queste notazioni appare di maggior rilievo se confrontato con quanto scrivono Israel e Nastasi che mettono in risalto (p. 157) come nel 1861 presentava un analfabetismo pari al 74,6% dell’intera popolazione mentre all’interno della componente ebraica questo dato si riduceva solo al 5,8%; poi nel 1927 non si registrò alcun analfabeta tra gli ebrei italiani a fronte di una percentuale del 27% tra i cittadini del Regno d’Italia. Il fenomeno dell’analfabetismo degli italiani è impressionante e appare derivare come osserva Armando Petrucci[13] da quelle resistenze della Chiesa che si svilupparono contro l’idea di un’istruzione di massa che avveniva in nome di uno Stato laico. Non sfuggano poi alcuni fatti: se è vero che l’Italia non presntò un affare Dreyfus che si trascinò dal 1894 al 1906 bisogna però rilevare che il caso del piccolo  Edgardo Mortara, ebreo bolognese di 6 anni che fu rapito -nel 1858- dall’Inquisizione perché si  supponeva fosse stato battezzato clandestinamente, animò in Italia e in Europa una libellistica che portò anche all’intervento di Napoleone III e di Cavour. Le polemiche portarono a un’intensa propaganda che ebbe un punto in comune: gli ebrei erano sospettati per loro sensibilità in fatto di giustizia sociale; le innovazioni liberali del 1848 sono state progettate dagli ebrei che controllano i giornali e le assemblee democratiche[14] Per quanto riguarda i caratteri della cultura ebraica e della sua attitudine verso le scienze i problemi storici sono assai complessi:  è vero che prevale un interesse per l’universo etico e per l’esegesi (pp. 45-51) e che questo metodo risulta contrapposto all’analisi ‘oggettiva’ del pensiero greco; è vero che già nel Medioevo c’era chi denunciava che gli ebrei parum sunt instructi in philosophia. Tuttavia non deve sfuggire che sin dal secolo XII gli ebrei si caratterizzarono come esperti matematici, abili medici e attenti astronomi nonché come assidui traduttori della scienza greco-araba e l’interesse fu tale che gli ebrei furono denunciati proprio per il loro essere materialisti e sinistri seguaci delle teorie di Talete. Per questo non si può limitare l’ingresso degli ebrei nella scienza all’ Ottocento come è ben emerso nel recente convegno trentino di “Micrologus” su Gli Ebrei e le scienze nel Medioevo e nella prima Età Moderna. Sia chiaro: numerose e diverse fra loro sono le componenti del pensiero ebraico e, proprio di recente (1998), un saggio ebreo ha illustrato la ricorrenza di ‘Hanouccah come la vittoria degli ebrei sull’ellenismo (il che fu vero), vittoria che costituirebbe un ammonimento per non farsi sedurre oggi dalle teorie materialiste e dalle eccessive adesioni alla scienza contemporanea.  Si noti tutto ciò avendo ben presente che, almeno sino all’Ottocento, molti cultori della scienza erano assolutamente convinti che il mondo in ogni suo componente fosse animato e che l’abbandono di questo pensiero contraddistingue le grandi innovazioni scientifiche che si susseguirono a partire dalla metà del secolo. Di certo l’elevato livello culturale delle famiglie d’origine ebraica fu causa di profondi rancori negli ambienti universitari. Allucinanti appaiono le invettive contro i matematici ‘ebrei’ così come risulta da un gruppo di lettere scritte tra il 1909 e il 1924: si ipotizza che la scuola di matematica romana finisca nelle mani degli ebrei, si invita a dare grattacapi agli scienziati giudii, si denuncia che gli ebrei spadroneggiano in modo così indegno da voler conquistare la presidenza dell’Accademia dei Lincei, si teme la diffusione della teoria della relatività e delle dottrine di Einstein, si allude a uno ‘spirito di corpo ebraico’ che guida Enriques, Castelnuovo, Levi-Civita, Volterra (p. 167 e sgg.). Se queste erano le premesse si capisce bene quali furono le conseguenze: con un sinistro eccesso di zelo alcuni scienziati italiani si diedero un gran da fare per “arianizzare” i comitati di redazione delle riviste scientifiche espellendone gli italoebrei per sconfiggere i complotti ebraici (p. 325).

Ovviamente hanno ragione Israel e Nastasi nel sottolineare che non vi fu alcun complotto giudaico e che, anzi e purtroppo, vi furono ebrei convinti sostenitori del regime fascista; tuttavia non si può trascurare che la cultura ebraica si applicò con determinazione allo studio delle scienze astronomiche, matematiche e mediche.  Questo impegno e il successo della scienza ebraica in Europa è allora definibile almeno con due fattori: a) l’abitudine a viaggiare -sin dal Medioevo- e ad abituarsi all’idea di quegli scambi internazionali che caratterizzano la scienza del Novecento; b) la dedizione allo studio delle Scritture che lascia una tradizione di ragionamenti che esaltavano le virtù logiche e analitiche (pp. 57-59). L’interpretazione del Concordato fa riflettere poiché il documento appare rischiudere le classiche tematiche antisemite esaltando il cattolicesimo come unica religione dello stato e stabilendo ‘per legge’ quali dovessero essere le condizioni per essere ebrei o meno arrivando in tal modo ad indicare gli ebrei come elementi eterogenei della Nazione (p. 78).

Non si dimentichi che il contesto vide Pio XI -nel 1929- esaltare Mussolini come uomo della Provvidenza incaricato di  disfare gli ordinamenti “o meglio i disordinamenti”; più tardi -nel 1937- nell’ enciclica Mit Brenner Sorge  lo stesso pontefice dichiarò: “nessuno pensa di porre alla gioventù tedesca pietre di inciampo sul cammino che dovrebbe condurre all’attuazione di una vera unità nazionale” purché siano rispettati i principi della fede cattolica. Queste linee vanno ricordate perché Hitler e il cardinal Pacelli (poi papa Pio XII) ebbero rapporti così cordiali da arrivare il 20 luglio 1933 a un Concordato nonostante che il nazismo proclamasse già la “religione del sangue”[15]. La contraddittorietà dei messaggi deve essere ricordata con la consapevolezza delle meditazioni che emergono da Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah, meditazioni che danno anche da pensare se si considerano analisi più dettagliate svolte dalla Chiesa francese[16]. Altrettanta memoria occorre nel sottolineare incongruenze e omissioni di cui spesso son pieni libri che oggi dovrebbero insegnare la storia[17].

Le disposizioni concordatarie costituirono un drammatico arretramento della condizione civile e istituzionale degli ebrei italiani: le comunità ebraiche sono poste sotto il controllo dello stato e vengono poi accusate di tradire lo spirito patrio (p. 193). Si tratta di atti che nasconderanno sempre più intenzionalmente il contributo degli scienziati italiani ed ebrei ai progetti di rinascita nazionale che si svilupparono nel primo dopoguerra (p. 103). Sottendeva a questi indirizzi quella ‘politica della famiglia’ tutta mirata a condizionare e a fascistizzare la società nei suoi nuclei più intimi e questa operazione non poteva tollerare che vi fossero stili di educazione in contrasto con il regime (p. 114). La politica razziale si annuncia così con una progressione inquietante; difatti le leggi del 1938 erano state precedute da una miriade di ‘piccoli’ provvedimenti che facevano intuire la sciagura: nel 1937 venivano proibite le relazioni di tipo coniugale con gli abitanti dell’ Africa colonizzata dalle truppe fasciste. Al tempo stesso Giuseppe Bottai intervenne per difendere la qualità della razza italiana che “deve essere tutelata da ogni pericolosa contaminazione di sangue” (p. 120). Si raccoglievano così i prodotti di una politica iniziata nel 1926 quando venne creato l’Istituto centrale di statistica (Istat) che con la sua struttura costituì una sorta di superministero che aveva l’obbiettivo di sviluppare l’ideologia demografica mussoliniana (pp. 122-127). Qui si comprende come il fascismo stesse elaborando una politica apertamente razzista; non fu un caso che a dirigere l’Istat fu messo quel Corrado Gini che -nel 1911-  aveva esaltato la superiore intelligenza degli italiani di Trieste impegnati nella “diuturna lotta contra la minacciosa invadenza degli Slavi” (p. 122). Lo scienziato -dimentico delle prececdenti affermazioni- dichiarò nel 1931 che l’elevato livello di fecondità nel Veneto era dovuto alla mescolanza di sangue con gli Slavi e questa tesi gli costò l’accusa di antifascismo ! (p. 129). Tuttavia non si sminuiva quella linea che perseguiva il rafforzamento della razza; anzi Gini - sempre nel 1931- predispose una scheda antropometrica destinata a raccogliere dati qualitatitivi relativi alle famiglie. La scheda ‘biotipologica’ era stata teorizzata da Nicola Pende e da altri scienziati che sostennero la politica antisemita del governo fascista (p. 132). L’idea che si potesse sviluppare una politica “eugenica” delle popolazioni era una tendenza assai diffusa in Europa, tuttavia c’è una netta differenza tra il programmare forme di assistenza prima e dopo il parto e il prevedere di sterilizzare gli individui “difettosi”. Su queste direttrici tutte volte al miglioramento della razza Nicola Pende voleva programmare individui sani e socialmente utili (p. 137). Proprio nel 1932 Aldous Huxley (1894-1963) pubblicava Il Mondo Nuovo ove si denunciavano i timori che suscitavano simili politiche paventando che i bambini sarebbero stati addestrati con scariche elettriche ad avere un odio istintivo dei libri e dei fiori e dove il Governatore avrebbe ripetuto con tragica enfasi: “La  storia è tutta una sciocchezza”. Le affermazioni di Pende lasciano però ancora più sgomenti: è il Duce che ha il merito di aver compreso cos’è la biologia politica volta a creare un cittadino perfettamente inserito nel complesso cellulare unitario dello Stato Mussoliniano (p. 140). E Mussolini renderà chiaro questo impegno: “Il problema razziale è per me una conquista importantissima... I romani antichi erano razzisti fino all’inverosimile.....” e già nel 1937 si era proclamato che “Il Duce si è scagliato contro l’America, paese di negri e di ebrei, elemento disgregatore di civiltà”. Si capisce allora che l’alleanza con Hitler abbia certo condizionato la politica di Mussolini, ma che il razzismo fascista si era già espresso con caratteristiche specifiche e inquietanti (pp. 206-207). Nel 1934 e nel 1936 Farinacci si era scagliati anche contro gli ebrei filofascisti perché sospetti di aderire al regime per utilità e ritenuti capaci di complottare con l’internazionale ebraica (p. 199). Il Manifesto della Razza del 1938 (p. 228)aveva avuto una lunghissima preparazione che portava ad esaltare il cranio degli antichi romani per rendere evidente “le impronte delle doti eccezionali dei conquistatori del mondo” (p. 150); e anche se alcuni scienziati negarono il loro coinvolgimento le prove portate da Israel e Nastasi appaiono schiaccianti (p. 218 e Appendice III p. 385). C’era chi si era accorto dei pericoli di certe idee: il fisiologo ebreo Fano -già nel 1929- aveva caldeggiato l’intima fratellanza fra i vari popoli e schierandosi contro l’idea di razza aveva esortato a far in modo che “l’ebreo rimanga, qualunque sia la nazione che lo ospita, per aiutarla come un buon cittadino a crescere grande e buona” (p.177). Il terribile crescendo del razzismo aveva visto Gemelli nel 1924 commentare il suicidio di Felice Momigliano così: “Se insieme con il postivismo, il libero pensiero e il Momigliano morissero tutti i Giudei che continuano l’opera dei Giudei che hanno crocefisso Nostro Signore, non è vero che tutto il mondo starebbe meglio? Sarebbe una liberazione” (p. 35 n.7). La guerra, i campi di concentramento non erano affatto impensabili in questa situazione; l’orrore della propaganda di regime fa capire quanto grande sia stato il coraggio di quel ‘prete giusto’ che racconta nella sua autobiografia la sua opposizione al fascismo e il suo commovente impegno per salvare gli ebrei nascosti nelle nostre montagne sino alla Liberazione[18]. E dopo? Israel e Nastasi affrontano un argomento spinoso ancor più celato: l’opera di abrogazione delle leggi razziali durò dal 1943 al 1987 un arco di tempo incredibile (p. 353) tanto che gli autori denunciano che se la componente scientifica ebraica non fu mai completamente reintegrata, né fisicamente né culturalmente e per di più molti dei sostenitori delle leggi razziali poterono continuare indisturbati il loro lavoro nelle università come se nulla avessero fatto. A conferma delle amarezze di Israel e Nastasi valga un trafiletto del Corriere della Sera che il 18 dicembre 1998 dà notizia che lo scienziato ebreo Andrea Viterbi costretto ad emigrare negli USA nel 1938 è diventato “cittadino onorario” di Bergamo solo alla seconda votazione perché la proposta aveva visto in un primo momento l’astensione di alcuni consiglieri comunali.


[1] Aa. Vv., La legislazione antiebraica in Italia e in Europa, Camera dei Deputati - Roma 1989 (l’ufficio stampa della Camera ha dichiarato telefonicamente che il volume non è disponibile e che si può consultare presso quella biblioteca!).

[2] E. Bittanti Battisti, Israel-Antisrael (Diario 1938-1943), a cura di A. Radice, Calliano (Trento) 19862, p. 62.

[3] G. Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, Vicenza 1966, p. 239.

[4] A. Maria Enriques, ed., Le carte del monastero di S. Maria in Firenze, in Regesta Chartarum Italiae 42, introduzione di I. Lori Sanfilippo, Roma 1990, pp. vii-xiv.

[5] Riccardo Adami da Isera, a cura di, Per il primo cinquantenario del Ginnasio Superiore Comunale ‘Dante Alighieri’ - Trieste 1863-1913, Trieste 1913, p. 196.

[6] V. Polacco, Per la libertà di coscienza e la tutela delle minoranze religiose. Discorso pronunciato nella tornata del 7 febbraio 1925 nella discussione del bilancio della istruzione pubblica per l’esercizio 1924-25, Roma 1925, p. 5.

[7] R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Milano 1977, p. 507.

[8] V. Colorni, Judaica Minora. Saggi sulla storia dell’ Ebraismo italiano dall’ antichità all’ età moderna, Milano 1983, pp. 417; 475; 477.

[9] G. Salvemini, La Rivoluzione Francese 1788-1792, Milano 1989, p. 110.

[10] Il testo si trova in Bittanti-Battisti, Israel..., cit., pp. 107-109; cfr. anche G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia. Dal diritto all’ uguaglianza al diritto alla diversità, Torino 1983, pp. 84-98.

[11] B. Smalley, The study of the Bible in the Middle Ages, Oxford 1941, 55; A. Landgraf, ed., Commentarius Cantabrigiensis in Epistola Pauli e Schola Petri Abaelardi, Notre Dame Ind. 1937, II, p. 434.

[12] D.B. Ruderman, Jewish Thought and Scientific Discovery in Early Modern Europe, New Haven 1995.

[13] A. Petrucci, Scrivere e no. Politiche della scrittura e analfabetismo nel mondo d’oggi, Roma 1987, p. 96.

[14] Cfr. N. L. Kleeblatt, ed., L’Affare Dreyfus. La Storia, l’opinione, l’immagine, Torino 1990, p. xxvi;  D. I. Kertzer, Prigioniero del Papa Re, Milano 1996, p. 196; Chazan, Medieval stereotypes, p. 140.

[15] E. Rossi, Il Sillabo e dopo, Roma 1965, p. 112.

[16] E. Idris Cassidy, a cura di, Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah. Commissione per i Rapporti Religiosi con l’ Ebraismo, Milano 1998; S. I. Minerbi, Risposta a Sergio Romano. Ebrei, Shoah e Stato d’Israele, Firenze 1998, p. 71.

[17] Su un manuale delle scuole elementari si legge che -nel 1348- gli “ebrei furono perseguitati perché erano ‘diversi’ e perché molti li ritenevano colpevoli di discendere da coloro che avevano mandato a morte Gesù” (nessuna spiegazione ulteriore sul ‘deicidio’ o sulla ‘diversità’). C’è poi un brano che dovrebbe indurre all’uso delle fonti storiche un ragazzo della scuola elementare. L’esercizio (si fa per dire) è introdotto dalla  trascrizione di un dialogo tra “capi nazisti”: Goering “Esiste anche un altro problema gravissimo: gli Ebrei nelle scuole” - Goebbels: “Si. Io ritengo inaccettabile che mio figlio sieda accanto a un ragazzo ebreo e che l’ebreo impari nelle nostre scuole e a nostre spese”. Il libro non offre alcuna spiegazione al brano, ma chiede ai bimbi: “Credi che oggi esistano ancora pregiudizi contro gli Ebrei?”. Poi, in un’altra pagina, vien scritto che “la guerra, intanto, aveva dato il via a quella che Hitler chiamò la ‘soluzione finale’ del problema razziale: lo sterminio totale degli Ebrei... morirono 6 milioni di ebrei... che secondo i nazisti ‘sporcavano’ la purezza della razza ariana. Gli Ebrei chiamano questa immane tragedia che fa orrore alla specie umana Shoà, cioè catastrofe, sterminio. Molti la definiscono, ma impropriamente, Olocausto, sacrificio”. Il libro non solo non si preoccupa di chiarire se esistesse o meno un problema razziale tale da richiedere una ‘soluzione’; ma per di più si ‘dimentica’ di sottolineare che quell’evento ebbe, in Italia e in Europa, dei responsabili e questa smemoratezza rende del tutto inutile l’insegnamento della Storia; cfr. F. Agli, E. Beni Rigacci, G. Maddalena, G. Malagoli, Manuale di volo. Sussidiario per la classe quarta, Fabbri Editori Milano 1996, p. 194; F. Agli, E. Beni Rigacci, G. Maddalena, G. Malagoli, Manuale di volo. Sussidiario per la classe quinta, Milano R.C.S. Libri Spa 1996, pp. 226 e 228.

[18] N. Revelli, Il prete giusto, Torino 1998.


 
 

  

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