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LABORATORIO DI STORIA > materiali didattici > lezioni > la propaganda antiebraica > memorie ritrovate |
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Memorie
ritrovate Tempo
addietro è stato chiesto ad un gruppo di studenti se la loro città fosse
stata occupata dai nazisti o se avesse subito l’amministrazione fascista.
Il quesito sconcertò i più che comunque conclusero che nulla era accaduto
nel loro luogo natio, eppure le stesse denominazioni delle strade di quel
paese ricordavano il martirio subito dagli abitanti in quegli anni bui. Di
tutto ciò non c’era da stupirsi poiché qualche anno fa, un piccolo
gruppo di docenti, tentò di spiegare agli allievi quattordicenni quanto
fosse poco opportuno l’entrare in classe decorati da svastiche, teschi, e
scritte inneggianti allo sterminio. In quell’occasione quel che colpì non
fu tanto l’ignoranza dei giovani bensì l’indifferenza degli altri
insegnanti che davvero non comprendevano il perchè ci si preoccupasse di
questioni che in fondo “facevan parte di uno stile dell’abbigliamento
giovanile”. Sui nostri giorni pesa una preoccupante tendenza all’oblio,
se ne era reso ben conto il triestino Bruno Piazza che, reduce da Auschwitz,
riuscì -poco prima di morire nel 1946 a causa delle sofferenze che fu
costretto a patire- a scrivere il libro intitolato significativamente Perché
gli altri dimenticano. Quel
ricordo edito per la prima volta nel 1956
è oggi nuovamente disponibile: è una lucida testimonianza ove
l’autore ammette che ancora nel 1944 stentava a credere ai sospetti
diffusi sui campi di concentramento dichiarando che prima di subirli mai si
sarebbe potuto convincere che si potessero commettere tali crimini, pertanto
“la rivelazione esatta e oggettiva di tali misfatti è però
necessaria, perché frutti infamia perenne a chi li perpetrò”. Le
sevizie inflitte costringevano gli internati ad un allucinante susseguirsi
di sentimenti di speranza e di sconforto, eppure in tanta disperazione il
racconto trasmette il tentativo di mantenere la propria dignità. Al momento
di una delle tante “selezioni” Bruno Piazza ricordava: “Fu
perseguitato ed oppresso e condotto al massacro come un agnello, e non ha
aperto la bocca. Così le parole di Isaia (cfr. Is. 53,7), e così noi
andavamo tutti incontro alla morte, come agnelli. E non avevamo aperto
bocca. Eravamo i disprezzati, gli uomini del dolore, gli ultimi. Ci eravamo
caricati del male di tutto il mondo”. E
fu violenza che colpì tanti, anche in terra italiana, così come appare
dalle torture che l’editore Neri Pozza vide infliggere nella caserma di
San Michele a Vicenza; fu qui che il tenente Usai di fronte a una ragazza
che non voleva descrivere il contenuto di alcuni bidoni paracadutati dagli
alleati decise di punirla prima
con “l’operazione infame che compiono i vigliacchi su una ragazza
spogliata con la violenza, tramortita da un gas, ridotta cioè senza vita”
e poi ustionandola con un ferro arroventato. Vi fu anche di peggio: ci fu
anche chi denunciò la propria moglie condannandola a morire nei campi di
sterminio come capitò all’ebrea meranese Caterina Rapaport. Sfuggì a
questi collaboratori dei nazisti il senso della Patria e non fu un caso che
tra molti dei deportati vi fossero coloro che si erano distinti combattendo
per l’Italia durante la Grande Guerra, sfugge ancor oggi a molti l’idea
di amore per il proprio Paese e in questa ignoranza si fa strada il pensiero
per cui la Costituzione della Repubblica Italiana non contenga alcun
principio di libertà bensì sia all’origine del degrado della società
presente. Tanta confusione nasce dall’aver smarrito la voglia e la capacità
di ricordare. E’ pur vero che riannodare i fili della memoria è difficile
perché -nota la Crosina- la documentaziane è spesso mutila e lacunosa
quando non è stata intenzionalmente distrutta. Nonostante questi ostacoli
sono state ricostruite le storie di chi fu perseguitato e di chi in quelle
condizioni di pericolo riuscì a trovare persino un briciolo di solidarietà.
Fu questo il caso della caparbia Rosa Abelow che riuscì, benché fosse
stata internata nel 1940, ad ottenere i permessi per terminare gli studi e
laurearsi in medicina. La tenacia fu tale che l’internata riuscì anche ad
esercitare la professione e questo nonostante che alcuni “zelanti”
cittadini avessero denunciato al Ministero dell’ Interno “che una
straniera di razza ebraica e di sentimenti non certo Fascisti”
aiutava i medici locali e che se anche fosse ciò necessario per la
sanità “non è certo il momento di ricorrere a stranieri nemici e
tanto meno ad ebrei”. La
delazione non sortì l’effetto sperato, anche perchè sia il podestà del
luogo sia il prefetto attestarono la condotta irreprensibile della
dottoressa. Ben diversa fu la sorte dell’ingegner Piattelli: licenziato,
sottoposto a sorveglianza a Vigo di Fassa, internato prima a Latronico (PZ)
poi a Urbisaglia (MC), riuscì a tornare in Trentino da dove -il 25 luglio
del 1943- si diresse a Roma desiderando riabbracciare la famiglia e
illudendosi che tutto fosse finito mentre proprio allora per gli ebrei
romani stava iniziando il più tragico martirio. Su
quell’ottimismo esagerato che portò a pensare che le discriminazioni
sarebbero cessate, sulle illusioni che portarono molti, come il veronese
ingegner Tedeschi, a non considerare la gravità dei pericoli incombenti, vi
sarebbe necessità di un’attenta analisi storiografica.
Senza dubbio su tutto ciò influì la convinzione -come scrisse Käthe
Perlberg- che “il carattere degli italiani è proprio privo di crudeltà”
e che Mussolini “è il più giusto italiano di tutti gli italiani”; in
realtà di fronte all’alternarsi di minacce e di gesti di pietà c’era
di che rimanere disorientati giacché la stessa Käthe si salvò perchè il
podestà di Civezzano segnalò che in quel comune non risiedeva alcuna
israelita. Di fronte alle persecuzioni antebraiche vi fu la solidarietà di
molti che se dimostrò come quel male fosse un colpo inferto a tutta la
società e non solo a una parte di essa. Purtroppo le dimensioni della
tragedia -come ricorda il professor Dunikowski deportato ad Auschwitz sin
dal 1940- furono allucinanti e nonostante il tentativo di sradicare ogni
sentimento umano dai prigionieri sopravvisse la pietà e il coraggio. Fu così
che quando si cominciò a dar luogo all’ assassinio di 150 bambini della
regione di Lublino, di fronte alla paura orribile dei piccoli -che
singhiozzavano terrorizzati perchè venivano ammazzati con un’iniezione di
veleno- un prigioniero uscì dalle file gridando ai fanciulli “Guardate,
piccoli miei, io vado per primo, non fa affatto male” e per sopprimere
questo gesto di pietà il ‘medico’ con gran rapidità affondò l’ago
nel cuore del detenuto. Il coraggio dell’umanità vinse contro la
vigliaccheria della barbarie. E’ questo il messaggio che trasmise (nel
diario La strana disfatta, la cui traduzione italiana del 1970
andrebbe ristampata) il partigiano Marc Bloch quando un attimo prima di
morire tentò di consolare un ragazzino di sedici anni condannato anche lui
perchè lottava per la libertà. Tra
le testimonianze raccolte dalla Crosina colpisce quella di Leo Zelikowski,
l’unico tra gli ebrei deportati dal Trentino che riuscì a sopravvivere
all’ internamento ad Auschwitz. Ancora una volta è la comprensione di
gran parte della popolazione di Arco che consentì all’ebreo lituano di
vivere con dignità: vi fu anche chi per solidarietà con l’ingegnere gridò
“Viva la Polonia libera!” nel
triste 1 settembre del 1939 e chi si premurò di portare a Zelikowski del
denaro quando già era stato arrestato. Zelikowski riuscì a resistere alle
percosse e alle privazioni, e scampò a una fucilazione di massa fuggendo
nel bosco; da quel momento iniziò il viaggio di ritorno: verso Cracovia, a
Bucarest, ad Odessa, poi a Marsiglia ed infine
ad Arco. Fu un viaggio che durò sette mesi dove le difficoltà
furono rese più pesanti dal constatare che dopo il terribile eccidio
c’era ancora chi osservava “Eh, questi ebrei! Ora sbucano come i
funghi dopo la pioggia!”. Questi
libri sono destinati a chi, ancor oggi, è tentato dal ripetere quella
frase, a chi non vuol credere che vi sia stato un inferno nel quale i demoni
erano in preda alla follia collettiva, a chi non vuol sapere per poi dover
ricordare. Questi libri invitano a raccogliere l’indirizzo metodologico di
chi come la Crosina opera affinché la memoria storica non vada perduta e
con essa il suo grave ammonimento. Le
testimonianze della tragedia risaltano anche in un libro purtroppo poco
diffuso e che ha il gran pregio
di inquadrare la legislazione antiebraica nazista nel contesto europeo già
Giorgio Israel ricordava che nel 1934 il ministro nazista della cultura
chiese allo scienziato David Hilbert se l’ Istituto di Matematica di Göttingen
avesse sofferto per l’espulsione degli ebrei. La risposta fu lapidaria
“Sofferto? Non ha sofferto, Signor Ministro. Semplicemente non esiste più”[1].
In Italia i ‘Provvedimenti per la difesa della razza’ colpirono
duramente le comunità di studiosi. Aveva ragione Ernesta Bittanti, vedova
di Cesare Battisti che, nel suo diario intitolato Israel-Antisrael,
scriveva il 27 novembre 1938: In
Autunno, l’apparire dei decreti anti-ebraici in Italia. La grande massa ne
è sbalordita. Non comprende. La stampa che è tutta statale, e vuole avere
uno spirito antiebraico, dà uno spettacolo pietoso ributtante di
incongruenze, contraddizioni, spropositi storici, nefandezze da sciacalli...
Lo spettacolo di un pagliaccio
ubriaco. Ma dálli, dálli, dálli, il senso di diffidenza e di odio si
appicicherà, si diffonderà (a nostra vergogna) forse. Non mancano già i
pappagalli ed i malvagi[2]. Non
erano mancati cenni premonitori: l’obbligo di giurare fedeltà al regime
fascista vide il rifiuto di soli 11 professori universitari (circa l’uno per
mille) mentre gli insegnanti d’origine ebraica rappresentavano circa
il 7% del corpo docente (p.172). In molti ‘giurarono’ per adempiere a
una norma burocratica e in tanti lo fecero con la sincera preoccupazione di
proteggere i loro figlioli; tuttavia mancò una risposta collettiva e questo
limite segnò il corso della storia. Non bastò il limpido esempio di
Giorgio Levi Della Vida che si rammaricò che molti credettero che egli
avesse perso il posto non già per le sue idee di libertà, ma perchè
colpito dalle leggi razziali che infierirono anche su quegli ebrei che
“dalla prima ora e fino all’ultima aveva militato con entusiasmo e
devozione sotto l’insegna del littorio”[3]. Il
libro di Israel e Nastasi descrive proprio come ‘per convenienza’ o
‘per pavidità’; ma anche ‘per triste necessità’ ci si piegò a
quelle barbare disposizioni che colpirono maestri e studenti ebrei. Non
stupiscono le reazioni umane, ma indigna l’eccesso di zelo e
l’accanimento persecutorio: il 5 settembre 1938 l’archivista fiorentina
Anna Maria Enriques fu tra i primi cittadini italiani ad essere dispensata
dal servizio e privata dello stipendio; al tempo stesso Pietro Fedele,
Presidente dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, rifiutò di
pubblicare l’edizione delle Carte del monastero di S. Maria di Firenze perché la curatrice
‘era ebrea’ benché si sapesse che aveva aderito al Movimento
cristiano-sociale. La Enriques prese parte alla Resistenza e fu poi fucilata
dalla Gestapo il 12 giugno 1944 dopo esser stata torturata. Isa Lori
Sanfilippo assieme a Raoul Manselli ritrovarono le carte dell’archivista
che furono pubblicate -nel 1990- cinquantanni dopo la loro stesura[4]
(cfr. p. 165). Questo lasso di tempo indica le dimensioni della ferita
inferta a tutta la cultura italiana. Anna Maria Enriques era nipote di
Federigo Enriques e cugina dei Castelnuovo, dei Franchetti, dei Morpurgo; si
trattava di un gruppo familiare che era molto legato ai fratelli Rosselli e
ai Volterra. Ricordo tutto ciò perchè se con precisione Israel e Nastasi
sottolineano come i ‘provvedimenti’ furono carichi di implicazioni
drammatiche per la vita delle famiglie e non solo degli scienziati (p. 25);
tuttavia occorre anche aggiungere che molte di queste persone avevano
tradotto il loro spirito risorgimentale e il loro fervore culturale
nell’agevolare la diffusione delle scuole e delle biblioteche popolari e
nel finanziare personalmente i progetti per l’alfabetizzazione di un’
Italia unita e pluralista. Non mancavano i modelli: Salomone Morpurgo si era
diplomato nel 1877 con ‘distinzione’ al Ginnasio Superiore Comunale
‘Dante Alighieri’ di Trieste ove v’era sia l’insegnamento della
religione cattolica sia quello di religione ebraica e ambedue i programmi
erano incentrati non solo sulla dottrina, ma anche e soprattutto sullo
studio tanto delle Scritture quanto della storia sacra come della storia
degli israeliti[5].
L’ intensità dei programmi didattici di quella scuola fu accompagnata da
una forte determinazione nell’ aiutare agli studi chi non aveva mezzi.
Quel ‘ginnasio’ presentava un programma con aperture che paiono oggi
irripetibili; tutto ciò spiega anche l’impegno di un bibliofilo come
Salomone Morpurgo che, aiutato nell’impresa da Ernesta Bittanti Battisti,
organizzò -nel 1925- a Firenze una ‘Mostra Storica della Scuola
italiana’ dal medioevo ai giorni nostri per illustrare la molteplicità
della storia dei nostri studi. Nel febbraio dello stesso anno l’ebreo
Vittorio Polacco interveniva -tra gli applausi- al Senato del Regno
d’Italia affinché “per non essere meno liberali dell’Austria” le
minoranze religiose fossero tutelate sia in quanto ebrei e valdesi hanno
dimostrato attaccamento alla Patria sia perché proprio nelle pubbliche
scuole dovrebbe rinsaldarsi il vincolo tra i fratelli di qualsiasi fede e di
qualsiasi classe sociale[6].
Gli applausi dovettero dissolversi quando nell’aprile del 1925 Benedetto
Croce organizzò il Manifesto degli
intellettuali antifascisti al quale aderì anche Guido Castelnuovo.
L’impegno storico e la partecipazione civile e didattica coincidevano e se
Salomone Morpurgo organizzò a Penia di Canazei una colonia per bambini
poveri che fu chiusa dalle autorità fasciste, Guido Castelnuovo fece in
modo di attivare a Roma un’università clandestina per l’insegnamento
delle scienze matematiche e fisiche che funzionò a Roma tra il ‘41 e il
‘43 mentre negli stessi anni, a Milano e Torino, Edoardo Volterra
collaborava ad analoghe università clandestine che preparavano agli studi
economico-giuridici[7].
Israel e Nastasi annotano come l’istituzione delle scuole ebraiche fu una
manifestazione dignitosa dell’ebraismo italiano contro le leggi
persecutorie del fascismo e che a questa reazione parteciparono insigni
scienziati (p. 331). Quegli
furono gli anni in cui Laura Orvieto, anch’ella legata ai Rosselli,
colpita dalle leggi razziali, si impegnava a diffondere le storie della
storia del mondo per aiutare quei bimbi rimasti privi di scuole. Da queste
brevi note appare la necessità di sottolineare con più forza di quanto
abbiano fatto Israel e Nastasi che, sin dal Medio Evo, il problema
dell’antisemitismo fu strettamente legato anche all’ avversità nei
confronti del sistema di istruzione delle comunità ebraiche. In effetti se
integriamo la tabella (pp. 81-82) di Israel e Nastasi sulle misure
antiebraiche ecclesiastiche e fasciste così come si sono succedute nel
tempo vedremo che sin dall’ Antichità l’obiettivo delle discriminazioni
fu la cultura ebraica. Infatti l’ atteggiamento ostile verso i medici
ebrei fu accompagnato da quelle difficoltà che erano state create dalla
legge di Teodosio e
Valentiniano del 31 gennaio 438 che proibiva agli ebrei ogni dignitas,
comprendendo secondo l’interpretazione medioevale anche il dottorato.
Dottore era infatti colui che, già abilitato alla professione (magister), conseguiva con un nuovo esame la facultas docendi acquisendo così una carica pubblica vietata agli
ebrei[8].
Questa norma fu applicata sino all’ abrogazione da parte dell’ Assemblea
Nazionale Francese avvenuta il 27 settembre 1791 che qualche mese prima
aveva provveduto a ‘riconoscere’ agli ebrei l’applicabilità dei Diritti dell’ Uomo e del Cittadino promulgata nel 1789[9];
ovviamente queste aperture furono cancellate dal Congresso di Vienna del
1815 e poi reintrodotte a seguito dei moti rivoluzionari del 1848. In questo
contesto ebbe notevole importanza la petizione al re Carlo Alberto che, il
23 dicembre 1847, 600 cittadini
- tra questi Roberto e Massimo D’Azeglio, Camillo Cavour, Vincenzo
Gioberti- inviarono al sovrano affinché fosse concessa l’emancipazione
dei valdesi e degli israeliti[10].
In realtà ampi fenomeni di ‘interessata tolleranza’ avevano già
investito il passato della storia europea giacché
il ‘successo’ della cultura ebraica, tanto nel campo esegetico
quanto in quello scientifico caratterizzò le corti medievali ed è ben noto
quel giudizio di un allievo di Pietro Abelardo che nel sec. XII dichiarò:
“se i cristiani educano i loro figli lo fanno non per Dio ma per guadagno
affinché un fratello, divenuto ecclesiastico, possa aiutare il padre e la
madre e gli altri suoi fratelli al contrario gli Ebrei, per l’entusiasmo
di Dio e per l’amore della Legge spingono ogni figlio allo studio in modo
che possano comprendere la Legge di Dio e ciò accade non solo per i figli,
ma anche per le figlie”[11].
Del resto ha notato David Ruderman[12]
come la forza di attrazione della scuola medica padovana portò al formarsi
di una vasta comunità ebraica dedita agli studi scientifici; infatti tra il
1617 e il 1816 almeno 320 ebrei ottennero il diploma in medicina dallo studium
di Padova, a questi si affiancarono molti ebrei dediti allo studio dei nuovi
modelli copernicani. Una tale espansione vien ricondotta al trasferimento
-dal 1616- del potere di concessione dei titoli dai controllori della Curia
di Roma all’autorità secolare del Collegium
Venetum. Il senso di queste notazioni appare di maggior rilievo se
confrontato con quanto scrivono Israel e Nastasi che mettono in risalto (p.
157) come nel 1861 presentava un analfabetismo pari al 74,6% dell’intera
popolazione mentre all’interno della componente ebraica questo dato si
riduceva solo al 5,8%; poi nel 1927 non si registrò alcun analfabeta tra
gli ebrei italiani a fronte di una percentuale del 27% tra i cittadini del
Regno d’Italia. Il fenomeno dell’analfabetismo degli italiani è
impressionante e appare derivare come osserva Armando Petrucci[13] da quelle resistenze
della Chiesa che si svilupparono contro l’idea di un’istruzione di massa
che avveniva in nome di uno Stato laico. Non sfuggano poi alcuni fatti: se
è vero che l’Italia non presntò un affare Dreyfus che si trascinò dal
1894 al 1906 bisogna però rilevare che il caso del piccolo Edgardo Mortara, ebreo bolognese di 6 anni che fu rapito -nel
1858- dall’Inquisizione perché si supponeva
fosse stato battezzato clandestinamente, animò in Italia e in Europa una
libellistica che portò anche all’intervento di Napoleone III e di Cavour.
Le polemiche portarono a un’intensa propaganda che ebbe un punto in
comune: gli ebrei erano sospettati per loro sensibilità in fatto di
giustizia sociale; le innovazioni liberali del 1848 sono state progettate
dagli ebrei che controllano i giornali e le assemblee democratiche[14]
Per quanto riguarda i caratteri della cultura ebraica e della sua attitudine
verso le scienze i problemi storici sono assai complessi:
è vero che prevale un interesse per l’universo
etico e per l’esegesi (pp. 45-51) e che questo metodo risulta
contrapposto all’analisi ‘oggettiva’ del pensiero greco; è vero che
già nel Medioevo c’era chi denunciava che gli ebrei parum
sunt instructi in philosophia. Tuttavia non deve sfuggire che sin dal
secolo XII gli ebrei si caratterizzarono come esperti matematici, abili
medici e attenti astronomi nonché come assidui traduttori della scienza
greco-araba e l’interesse fu tale che gli ebrei furono denunciati proprio
per il loro essere materialisti e sinistri seguaci delle teorie di Talete.
Per questo non si può limitare l’ingresso degli ebrei nella scienza
all’ Ottocento come è ben emerso nel recente convegno trentino di
“Micrologus” su Gli Ebrei e le
scienze nel Medioevo e nella prima Età Moderna. Sia chiaro: numerose e
diverse fra loro sono le componenti del pensiero ebraico e, proprio di
recente (1998), un saggio ebreo ha illustrato la ricorrenza di ‘Hanouccah
come la vittoria degli ebrei sull’ellenismo (il che fu vero), vittoria che
costituirebbe un ammonimento per non farsi sedurre oggi dalle teorie
materialiste e dalle eccessive adesioni alla scienza contemporanea.
Si noti tutto ciò avendo ben presente che, almeno sino
all’Ottocento, molti cultori della scienza erano assolutamente convinti
che il mondo in ogni suo componente fosse animato e che l’abbandono di
questo pensiero contraddistingue le grandi innovazioni scientifiche che si
susseguirono a partire dalla metà del secolo. Di certo l’elevato livello
culturale delle famiglie d’origine ebraica fu causa di profondi rancori
negli ambienti universitari. Allucinanti appaiono le invettive contro i
matematici ‘ebrei’ così come risulta da un gruppo di lettere scritte
tra il 1909 e il 1924: si ipotizza che la scuola di matematica romana
finisca nelle mani degli ebrei, si invita a dare grattacapi agli scienziati
giudii, si denuncia che gli ebrei spadroneggiano in modo così indegno da
voler conquistare la presidenza dell’Accademia dei Lincei, si teme la
diffusione della teoria della relatività e delle dottrine di Einstein, si
allude a uno ‘spirito di corpo ebraico’ che guida Enriques, Castelnuovo,
Levi-Civita, Volterra (p. 167 e sgg.). Se queste erano le premesse si
capisce bene quali furono le conseguenze: con un sinistro eccesso di zelo
alcuni scienziati italiani si diedero un gran da fare per “arianizzare”
i comitati di redazione delle riviste scientifiche espellendone gli
italoebrei per sconfiggere i complotti ebraici (p. 325). Ovviamente
hanno ragione Israel e Nastasi nel sottolineare che non vi fu alcun
complotto giudaico e che, anzi e purtroppo, vi furono ebrei convinti
sostenitori del regime fascista; tuttavia non si può trascurare che la
cultura ebraica si applicò con determinazione allo studio delle scienze
astronomiche, matematiche e mediche. Questo
impegno e il successo della scienza ebraica in Europa è allora definibile
almeno con due fattori: a) l’abitudine a viaggiare -sin dal Medioevo- e ad
abituarsi all’idea di quegli scambi internazionali che caratterizzano la
scienza del Novecento; b) la dedizione allo studio delle Scritture che
lascia una tradizione di ragionamenti che esaltavano le virtù logiche e
analitiche (pp. 57-59). L’interpretazione del Concordato fa riflettere
poiché il documento appare rischiudere le classiche tematiche antisemite
esaltando il cattolicesimo come unica religione dello stato e stabilendo
‘per legge’ quali dovessero essere le condizioni per essere ebrei o meno
arrivando in tal modo ad indicare gli ebrei come elementi eterogenei della
Nazione (p. 78). Non
si dimentichi che il contesto vide Pio XI -nel 1929- esaltare Mussolini come
uomo della Provvidenza incaricato di disfare
gli ordinamenti “o meglio i disordinamenti”; più tardi -nel 1937-
nell’ enciclica Mit Brenner Sorge lo
stesso pontefice dichiarò: “nessuno pensa di porre alla gioventù tedesca
pietre di inciampo sul cammino che dovrebbe condurre all’attuazione di una
vera unità nazionale” purché siano rispettati i principi della fede
cattolica. Queste linee vanno ricordate perché Hitler e il cardinal Pacelli
(poi papa Pio XII) ebbero rapporti così cordiali da arrivare il 20 luglio
1933 a un Concordato nonostante che il nazismo proclamasse già la
“religione del sangue”[15].
La contraddittorietà dei messaggi deve essere ricordata con la
consapevolezza delle meditazioni che emergono da Noi
ricordiamo: una riflessione sulla Shoah, meditazioni che danno anche da
pensare se si considerano analisi più dettagliate svolte dalla Chiesa
francese[16].
Altrettanta memoria occorre nel sottolineare incongruenze e omissioni di cui
spesso son pieni libri che oggi dovrebbero insegnare la storia[17]. Le disposizioni concordatarie costituirono un drammatico arretramento della condizione civile e istituzionale degli ebrei italiani: le comunità ebraiche sono poste sotto il controllo dello stato e vengono poi accusate di tradire lo spirito patrio (p. 193). Si tratta di atti che nasconderanno sempre più intenzionalmente il contributo degli scienziati italiani ed ebrei ai progetti di rinascita nazionale che si svilupparono nel primo dopoguerra (p. 103). Sottendeva a questi indirizzi quella ‘politica della famiglia’ tutta mirata a condizionare e a fascistizzare la società nei suoi nuclei più intimi e questa operazione non poteva tollerare che vi fossero stili di educazione in contrasto con il regime (p. 114). La politica razziale si annuncia così con una progressione inquietante; difatti le leggi del 1938 erano state precedute da una miriade di ‘piccoli’ provvedimenti che facevano intuire la sciagura: nel 1937 venivano proibite le relazioni di tipo coniugale con gli abitanti dell’ Africa colonizzata dalle truppe fasciste. Al tempo stesso Giuseppe Bottai intervenne per difendere la qualità della razza italiana che “deve essere tutelata da ogni pericolosa contaminazione di sangue” (p. 120). Si raccoglievano così i prodotti di una politica iniziata nel 1926 quando venne creato l’Istituto centrale di statistica (Istat) che con la sua struttura costituì una sorta di superministero che aveva l’obbiettivo di sviluppare l’ideologia demografica mussoliniana (pp. 122-127). Qui si comprende come il fascismo stesse elaborando una politica apertamente razzista; non fu un caso che a dirigere l’Istat fu messo quel Corrado Gini che -nel 1911- aveva esaltato la superiore intelligenza degli italiani di Trieste impegnati nella “diuturna lotta contra la minacciosa invadenza degli Slavi” (p. 122). Lo scienziato -dimentico delle prececdenti affermazioni- dichiarò nel 1931 che l’elevato livello di fecondità nel Veneto era dovuto alla mescolanza di sangue con gli Slavi e questa tesi gli costò l’accusa di antifascismo ! (p. 129). Tuttavia non si sminuiva quella linea che perseguiva il rafforzamento della razza; anzi Gini - sempre nel 1931- predispose una scheda antropometrica destinata a raccogliere dati qualitatitivi relativi alle famiglie. La scheda ‘biotipologica’ era stata teorizzata da Nicola Pende e da altri scienziati che sostennero la politica antisemita del governo fascista (p. 132). L’idea che si potesse sviluppare una politica “eugenica” delle popolazioni era una tendenza assai diffusa in Europa, tuttavia c’è una netta differenza tra il programmare forme di assistenza prima e dopo il parto e il prevedere di sterilizzare gli individui “difettosi”. Su queste direttrici tutte volte al miglioramento della razza Nicola Pende voleva programmare individui sani e socialmente utili (p. 137). Proprio nel 1932 Aldous Huxley (1894-1963) pubblicava Il Mondo Nuovo ove si denunciavano i timori che suscitavano simili politiche paventando che i bambini sarebbero stati addestrati con scariche elettriche ad avere un odio istintivo dei libri e dei fiori e dove il Governatore avrebbe ripetuto con tragica enfasi: “La storia è tutta una sciocchezza”. Le affermazioni di Pende lasciano però ancora più sgomenti: è il Duce che ha il merito di aver compreso cos’è la biologia politica volta a creare un cittadino perfettamente inserito nel complesso cellulare unitario dello Stato Mussoliniano (p. 140). E Mussolini renderà chiaro questo impegno: “Il problema razziale è per me una conquista importantissima... I romani antichi erano razzisti fino all’inverosimile.....” e già nel 1937 si era proclamato che “Il Duce si è scagliato contro l’America, paese di negri e di ebrei, elemento disgregatore di civiltà”. Si capisce allora che l’alleanza con Hitler abbia certo condizionato la politica di Mussolini, ma che il razzismo fascista si era già espresso con caratteristiche specifiche e inquietanti (pp. 206-207). Nel 1934 e nel 1936 Farinacci si era scagliati anche contro gli ebrei filofascisti perché sospetti di aderire al regime per utilità e ritenuti capaci di complottare con l’internazionale ebraica (p. 199). Il Manifesto della Razza del 1938 (p. 228)aveva avuto una lunghissima preparazione che portava ad esaltare il cranio degli antichi romani per rendere evidente “le impronte delle doti eccezionali dei conquistatori del mondo” (p. 150); e anche se alcuni scienziati negarono il loro coinvolgimento le prove portate da Israel e Nastasi appaiono schiaccianti (p. 218 e Appendice III p. 385). C’era chi si era accorto dei pericoli di certe idee: il fisiologo ebreo Fano -già nel 1929- aveva caldeggiato l’intima fratellanza fra i vari popoli e schierandosi contro l’idea di razza aveva esortato a far in modo che “l’ebreo rimanga, qualunque sia la nazione che lo ospita, per aiutarla come un buon cittadino a crescere grande e buona” (p.177). Il terribile crescendo del razzismo aveva visto Gemelli nel 1924 commentare il suicidio di Felice Momigliano così: “Se insieme con il postivismo, il libero pensiero e il Momigliano morissero tutti i Giudei che continuano l’opera dei Giudei che hanno crocefisso Nostro Signore, non è vero che tutto il mondo starebbe meglio? Sarebbe una liberazione” (p. 35 n.7). La guerra, i campi di concentramento non erano affatto impensabili in questa situazione; l’orrore della propaganda di regime fa capire quanto grande sia stato il coraggio di quel ‘prete giusto’ che racconta nella sua autobiografia la sua opposizione al fascismo e il suo commovente impegno per salvare gli ebrei nascosti nelle nostre montagne sino alla Liberazione[18]. E dopo? Israel e Nastasi affrontano un argomento spinoso ancor più celato: l’opera di abrogazione delle leggi razziali durò dal 1943 al 1987 un arco di tempo incredibile (p. 353) tanto che gli autori denunciano che se la componente scientifica ebraica non fu mai completamente reintegrata, né fisicamente né culturalmente e per di più molti dei sostenitori delle leggi razziali poterono continuare indisturbati il loro lavoro nelle università come se nulla avessero fatto. A conferma delle amarezze di Israel e Nastasi valga un trafiletto del Corriere della Sera che il 18 dicembre 1998 dà notizia che lo scienziato ebreo Andrea Viterbi costretto ad emigrare negli USA nel 1938 è diventato “cittadino onorario” di Bergamo solo alla seconda votazione perché la proposta aveva visto in un primo momento l’astensione di alcuni consiglieri comunali. [1]
Aa. Vv., La legislazione
antiebraica in Italia e in Europa, Camera dei Deputati - Roma 1989
(l’ufficio stampa della Camera ha dichiarato telefonicamente che il
volume non è disponibile e che si può consultare presso quella
biblioteca!). [2]
E. Bittanti Battisti, Israel-Antisrael
(Diario 1938-1943), a cura di A. Radice, Calliano (Trento) 19862,
p. 62. [3]
G. Levi Della Vida, Fantasmi
ritrovati, Vicenza 1966, p. 239. [4]
A. Maria Enriques, ed., Le carte
del monastero di S. Maria in Firenze, in Regesta Chartarum Italiae
42, introduzione di I. Lori Sanfilippo, Roma 1990, pp. vii-xiv. [5]
Riccardo Adami da Isera, a cura di, Per
il primo cinquantenario del Ginnasio Superiore Comunale ‘Dante
Alighieri’ - Trieste 1863-1913, Trieste 1913, p. 196. [6]
V. Polacco, Per la libertà di
coscienza e la tutela delle minoranze religiose. Discorso pronunciato
nella tornata del 7 febbraio 1925 nella discussione del bilancio della
istruzione pubblica per l’esercizio 1924-25, Roma 1925, p. 5. [7]
R. De Felice, Storia degli ebrei
italiani sotto il fascismo, Milano 1977, p. 507. [8]
V. Colorni, Judaica Minora. Saggi
sulla storia dell’ Ebraismo italiano dall’ antichità all’ età
moderna, Milano 1983, pp. 417; 475; 477. [9]
G. Salvemini, La Rivoluzione
Francese 1788-1792, Milano 1989, p. 110. [10]
Il testo si trova in Bittanti-Battisti, Israel...,
cit., pp. 107-109; cfr. anche G. Disegni, Ebraismo
e libertà religiosa in Italia. Dal diritto all’ uguaglianza al
diritto alla diversità, Torino 1983, pp. 84-98. [11]
B. Smalley, The study of the Bible
in the Middle Ages, Oxford 1941, 55; A. Landgraf, ed., Commentarius
Cantabrigiensis in Epistola Pauli e Schola Petri Abaelardi, Notre
Dame Ind. 1937, II, p. 434. [12]
D.B. Ruderman, Jewish Thought and
Scientific Discovery in Early Modern Europe, New Haven 1995. [13]
A. Petrucci, Scrivere e no.
Politiche della scrittura e analfabetismo nel mondo d’oggi, Roma
1987, p. 96. [14]
Cfr. N. L. Kleeblatt, ed., L’Affare
Dreyfus. La Storia, l’opinione, l’immagine, Torino 1990, p. xxvi;
D. I. Kertzer, Prigioniero
del Papa Re, Milano 1996, p. 196; Chazan, Medieval
stereotypes, p. 140. [15]
E. Rossi, Il Sillabo e dopo,
Roma 1965, p. 112. [16]
E. Idris Cassidy, a cura di, Noi
ricordiamo: una riflessione sulla Shoah. Commissione per i Rapporti
Religiosi con l’ Ebraismo, Milano 1998; S. I. Minerbi, Risposta
a Sergio Romano. Ebrei, Shoah e Stato d’Israele, Firenze 1998, p.
71. [17]
Su un manuale delle scuole elementari si legge che -nel 1348- gli “ebrei
furono perseguitati perché erano ‘diversi’ e perché molti li
ritenevano colpevoli di discendere da coloro che avevano mandato a morte
Gesù” (nessuna spiegazione ulteriore sul ‘deicidio’ o sulla
‘diversità’). C’è poi un brano che dovrebbe indurre all’uso
delle fonti storiche un ragazzo della scuola elementare. L’esercizio
(si fa per dire) è introdotto dalla
trascrizione di un dialogo tra “capi nazisti”: Goering “Esiste
anche un altro problema gravissimo: gli Ebrei nelle scuole” -
Goebbels: “Si. Io ritengo
inaccettabile che mio figlio sieda accanto a un ragazzo ebreo e che
l’ebreo impari nelle nostre scuole e a nostre spese”. Il libro
non offre alcuna spiegazione al brano, ma chiede ai bimbi: “Credi
che oggi esistano ancora pregiudizi contro gli Ebrei?”. Poi, in
un’altra pagina, vien scritto che “la
guerra, intanto, aveva dato il via a quella che Hitler chiamò la
‘soluzione finale’ del problema razziale: lo sterminio totale degli
Ebrei... morirono 6 milioni di ebrei... che secondo i nazisti
‘sporcavano’ la purezza della razza ariana. Gli Ebrei chiamano
questa immane tragedia che fa orrore alla specie umana Shoà, cioè
catastrofe, sterminio. Molti la definiscono, ma impropriamente,
Olocausto, sacrificio”. Il libro non solo non si preoccupa di
chiarire se esistesse o meno un problema razziale tale da richiedere una
‘soluzione’; ma per di più si ‘dimentica’ di sottolineare che
quell’evento ebbe, in Italia e in Europa, dei responsabili e questa
smemoratezza rende del tutto inutile l’insegnamento della Storia; cfr.
F. Agli, E. Beni Rigacci, G. Maddalena, G. Malagoli, Manuale di volo. Sussidiario per la classe quarta, Fabbri Editori
Milano 1996, p. 194; F. Agli, E. Beni Rigacci, G. Maddalena, G. Malagoli,
Manuale di volo. Sussidiario per
la classe quinta, Milano R.C.S. Libri Spa 1996, pp. 226 e 228. [18] N. Revelli, Il prete giusto, Torino 1998.
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