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Critica liberale

Dahrendorf, Quadrare il cerchio, Laterza, Bari, 1995, pp. 18-27.

  Si può dire che nei paesi dell'Ocse benessere economico, sociale e politico sono legati in modo nuovo e inquietante. Probabilmente la ragione è, per dirla in una parola sola, la 'globalizzazione'. Nel nostro mondo nascondersi è diventato difficile e in molti casi impossibile. Tutte le economie sono intrecciate tra loro in un unico mercato competitivo, e nei giochi crudeli che si svolgono su questo teatro è impegnata dovunque l'intera economia. Sottrarsi a questi giochi è letteralmente impossibile, e gli effetti della globalizzazione si fanno sentire in tutti i campi della vita sociale.
 
Lo scettico naturalmente inarcherà le sopracciglia perplesso e chiederà: siamo proprio certi che le cose stiano così? E perché dovrebbero andare così? E ancora: che cosa significa esattamente 'globalizzazione'? Per come stanno le cose nel 1995, lo scettico ha ragioni da vendere. A tutt'oggi la globalizzazione è ben lungi dall'essere totale. Intere economie, tra cui quella cinese, sono più nazionali che globali (anche se una parte del successo conseguito all'interno è  legato al loro coinvolgimento nel mercato globale). Si stanno formando delle regioni economiche che mirano a creare mercati comuni o aree di libero scambio (anche se questa può essere una reazione alle nuove forze produttive della globalizzazione più che un rifiuto delle stesse). All'interno dei vari paesi, attività importanti come assistenza medica, asili infantili e istruzione elementare, se non l'istruzione tout court, sembrano sottrarsi completamente alla competizione globale (anche se non può essere né un caso né una moda passeggera che i valori di un'economia globalizzante siano entrati in questi servizi). A questo punto, anzi, si potrebbe certamente aprire un lungo discorso sulle imperfezioni della globalizzazione  ma resta tutto da dimostrare che si tratterebbe anche di un discorso contro la forza della globalizzazione in se stessa.   
Perché mai la globalizzazione si è imposta?
E perché si è imposta  adesso? Le risposte ovvie sono probabilmente le migliori. Non è ancora del tutto chiaro se la fine della guerra fredda sia causa o effetto  di questo fenomeno; certo i paesi del blocco sovietico non erano più vitali dal punto di vista dell'economia. Una ragione è stata che il concetto di 'paese' o 'nazione' ha perso buona parte del suo significato  economico. Questo fenomeno, a sua volta, deriva dalla formazione di entità transnazionali a cui è risultato sorprendentemente facile  combinare un certo grado di adattamento ai bisogni locali con la promozione di una strategia produttiva, di una direzione e di profitti di portata mondiale. Aggiungiamo le due «rivoluzioni» (legate  tra loro) della information technology e dei mercati finanziari, e vedremo delinearsi una scena economica di cui il mondo non aveva mai visto l'eguale. I confini fisici convenzionali incominciano a perdere  ogni significato non solo in termini  di movimenti di denaro, ma anche  in termini di servizi (basti pensare alla prenotazione di biglietti aerei) e alla fine anche in termini di produzione. Politica e tecnologia,  spinte del mercato e innovazioni  organizzative sono tutte cose che cospirano a creare, in aree importanti dell'attività economica, uno spazio completamente nuovo che  chiunque (si tratti di aziende o di  nazioni) può ignorare solo a proprio  rischio e pericolo.
 
Che cosa significa dunque questa  globalizzazione? La cosa più importante è rispondere a una domanda che non è stata posta: che cosa non significa la globalizzazione? [ ... ] Come abbiamo intuito da tempo, il Giappone è diverso  dall'America e la Germania dal Regno Unito. Le differenze tra loro non ci sono sempre chiare, ma certo sono profonde. [ ... ]
Queste differenze culturali non sono destinate a scomparire; rimane da capire in che misura avranno carattere nazionale nel futuro. In fin dei conti le regioni che stanno incominciando a formarsi (quelle dell'Europa, delle Americhe, nonché delle zone orientali e sud-orientali del continente asiatico) hanno una certa plausibilità culturale. Si potrebbe anche sostenere che l'appartenenza di certi paesi alle regioni in cui sono  inseriti non sia così ovvia: è il caso della Gran Bretagna nei confronti dell'Europa e, forse in misura crescente, del Giappone nei confronti dell'Asia. Qualunque sia la forma che queste strutture emergenti assumeranno nel mobile caleidoscopio di un economia mondiale ancora non cristallizzata, resta valido il presupposto fondamentale che le reazioni alla globalizzazione saranno diverse a dispetto del fatto che il mercato globale richieda a tutti le stesse qualità positive Anzi, non fosse stato per queste differenze, la questione posta in questo saggio perderebbe di significato. Quadrare il cerchio fra crescita economica, società civile e libertà politica è certamente un compito universale, ma sarebbe sconsiderato pensare che tutti perseguano questo obiettivo, o anche solo cerchino di perseguirlo, in questi termini. Per coloro che si impegneranno in questa direzione, l'assunto è che ci si può avvicinare a questo obiettivo senza perdersi nel mercato globale.
 
Quali sono, dunque, le condizioni ineludibili della globalizzazione? Che cosa devono fare aziende, paesi o regioni di ogni parte del mondo, se non vogliono condannarsi all'arretratezza e alla povertà? Gli attori economici hanno bisogno soprattutto di 'flessibilità', per usare una parola oggi di moda. Con tale termine si vuole intendere qualcosa di desiderabile, ma per molti esso descrive il prezzo da pagare; dunque le sue connotazioni sono tali e tante che è difficile legarlo a un significato particolare. Eppure, in assenza di un grado notevole di flessibilità, le aziende non possono sopravvivere nel mercato mondiale.  
 Flessibilità significa in primo luogo eliminazione delle rigidità: quindi due fattori che generalmente contribuiscono a crearla sono la deregulation e la limitazione delle interferenze governative; molti vi includerebbero anche l'alleggerimento del peso fiscale su aziende e individui. Il termine 'flessibilità' ha finito per indicare soprattutto allentamento dei vincoli che gravano sul mercato del lavoro: maggiore facilità nell'assumere e nel licenziare, possibilità di aumentare e diminuire i salari, espansione degli impieghi part‑time e a termine, cambiamento più frequente di lavoro, di azienda e di sede. Gli operai devono essere flessibili, ma il discorso naturalmente vale anche per gli imprenditori: al riguardo si è soliti invocare l'immagine idealizzata che dell'imprenditore e della sua «distruttività creativa» ci ha dato Schumpeter. Flessibilità significa anche disponibilità di tutti gli operatori ad accettare i cambiamenti tecnologici e a reagirvi prontamente. In termini di marketing flessibilità è capacità di andare dovunque si offra un'opportunità e di abbandonare ogni posizione in cui le opportunità passate si siano esaurite. Tutte cose alquanto risapute al pari del linguaggio che le accompagna, un linguaggio fatto di ristrutturazioni, aumenti di efficienza, competitività e incrementi di produttività apparentemente infiniti.  
 Restano nondimeno alcune scelte (che siano scelte, lo dice la teoria; nella realtà non è escluso che si tratti di svolte imposte da circostanze, tradizioni e pressioni irresistibili). Menzionerò solo due di queste scelte, perché riguardano il tema di questo saggio. La prima è quella tra economia a retribuzioni basse ed economia ad alta specializzazione. In pratica moltissimi paesi le combinano in qualche modo, ma tra l'una e l'altra ci sono importanti differenze di accento. Le economie a retribuzioni basse trovano il loro posto nel mercato mondiale vendendo a prezzi più bassi delle altre. I loro prodotti sono più convenienti, ma anche i loro operai sono più poveri. A volte si sente argomentare che questa è la sola via al successo, ma tutto dimostra che questo estremo economicismo è semplicemente un errore. Anche l'alta specializzazione può creare un vantaggio competitivo: non solo perché essa ed essa sola fa avanzare le frontiere della tecnologia, ma anche perché, a dispetto della computerizzazione, per avere dei prodotti di qualità e per mantenere la qualità dei prodotti occorrono a monte degli operatori specializzati. A un certo punto una persona altamente specializzata costa meno di cinque operatori scarsamente remunerati che producano le stesse cose. In relazione a queste scelte, sembra dunque che gli Stati Uniti si stiano movendo in direzione di retribuzioni basse, mentre il Giappone abbia optato per l'alta specializzazione; che la Gran Bretagna preferisca le retribuzioni basse, mentre la Germania l'alta specializzazione.  
 Un'altra scelta, abbastanza chiaramente legata alla prima, risulta ancora più difficile da spiegare in modo preciso: è quella tra bassa pressione fiscale e bassa distribuzione dei profitti o, in termini più ampi, tra contenimento della pressione fiscale e contributiva, e alti guadagni, da un lato, e una pressione fiscale e contributiva sostenuta abbinata a una bassa distribuzione dei profitti, dall'altro. La differenza cruciale può essere indipendente dagli investimenti nel senso che i capitali in questione, considerati costanti, vengono distribuiti diversamente, poniamo, tra azionisti e lavoratori. In pratica tutto fa pensare che la strada dei bassi profitti, rispetto a quella della bassa pressione fiscale, rende almeno più probabili gli investimenti a lungo termine. Comunque questa scelta implica modalità di investimento diverse; la strada dei bassi profitti assegna probabilmente un ruolo più importante alle banche e un ruolo meno importante al mercato finanziano, e viceversa. Altre implicazioni dell'alternativa in esame che meriterebbero di essere approfondite sono quelle concernenti la natura privata o pubblica dei costi dell'assistenza. Comunque su questo terreno si gioca una scelta importante. Di nuovo ci accorgiamo che in pratica le economie angloamericane (e quelle che seguono il loro esempio, o forse semplicemente i manuali che riflettono tale esperienza)  battono la strada della bassa pressione fiscale e dell’elevata distribuzione dei profitti, mentre Giappone ed Europa continentale hanno preso la direzione opposta.  

Pista di riflessione.  

Perché questo brano è di ispirazione liberale?

Dedurre dal brani un concetto articolato di globalizzazione.

Come spiegarne la genesi?