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M E.J. Hobsbawm, Il Secolo breve,  

  Eric Hobsbawm (1917) è uno dei più apprezzati storici contemporanei. Di formazione marxista, ha svolto numerose ricerche sulla classe operaia inglese, rivolgendo l’interesse soprattutto sugli aspetti sociali. Profondo conoscitore della storia europea, ha spesso fatto ricorso a comparazioni e a studi su complessi fenomeni continentali e internazionali.
 Questo brano dello storico di formazione marxista E. J. Hosbawm, spiega perché oggi non è più utilizzabile il concetto di «Terzo mondo» e mette a fuoco il fatto che lo sviluppo crescente dell’Occidente aumenta e non diminuisce il divario tra Nord e Sud del pianeta.

Nel momento in cui l'idea di Terzo mondo e le ideologie terzomondiste erano all'apice, il concetto stesso di Terzo mondo cominciò a sgretolarsi. Negli anni '70 divenne sempre più evidente che nessuna singola denominazione o etichetta poteva adeguatamente applicarsi a un insieme di paesi che divergevano in misura crescente. Il termine era ancora adatto a distinguere i paesi poveri del mondo da quelli ricchi e nella misura in cui il divario tra le due zone, chiamate ormai sempre più spesso il «Nord» e il «Sud» del pianeta, si allargava visibilmente, la distinzione era significativa. Il divario nel prodotto nazionale lordo pro capite tra il mondo «sviluppato» e il mondo arretrato (cioè tra i paesi dell'OCSE e quelli a «economia bassa e media») continuava ad ampliarsi: nel 1970 il primo gruppo aveva in media un prodotto nazionale lordo pro capite 14,5 volte più alto di quello del secondo e nel 1990 il prodotto nazionale lordo pro capite dei paesi ricchi era diventato 24 volte più alto di quello dei paesi poveri. Nondimeno si può dimostrare che il Terzo mondo non è più un'entità singola.

 Ciò che ha diviso il Terzo mondo è stato innanzitutto lo sviluppo economico. Il trionfo dell'OPEC nel 1973 fece sì che, per la prima volta, alcuni stati del Terzo mondo, fino a quel momento poveri e arretrati secondo ogni criterio valutativo, si trasformassero in stati ricchissimi a livello mondiale, soprattutto se il loro territorio era piccolo e scarsamente abitato, come nel caso degli sceiccati e dei sultanati musulmani. Divenne chiaramente impossibile classificare, per esempio, gli Emirati Arabi Uniti, i cui cinquecentomila abitanti nel 1975 godevano in teoria di un prodotto nazionale lordo pro capite superiore a 13.000 dollari - quasi il doppio del prodotto nazionale lordo pro capite degli USA a quella data - nella stessa casella con, ad esempio, il Pakistan, che all'epoca disponeva di un prodotto nazionale lordo pro capite di 130 dollari. Gli stati petroliferi che avevano popolazioni più vaste non se la cavavano altrettanto bene; tuttavia divenne chiaro che stati la cui economia dipendeva dall'esportazione di un singolo prodotto primario, per quanto svantaggiati sotto altri rispetti, potevano arricchirsi a dismisura, anche se questo denaro facile, quasi sempre, li esponeva alla tentazione di buttarlo dalla finestra. All'inizio degli anni '90 perfino l'Arabia Saudita era riuscita a indebitarsi.

In secondo luogo una parte del Terzo mondo si stava industrializzando rapidamente e si stava allineando al Primo mondo, anche se rimaneva molto più povera. La Corea del Sud, il cui boom industriale era stato uno dei più spettacolari nella storia del capitalismo, aveva nel 1989 un prodotto nazionale lordo pro capite appena più alto di quello del Portogallo, il più povero tra i paesi membri della Comunità europea. E ancora, a parte le differenze qualitative, la Corea del Sud non è più paragonabile con, ad esempio, la Papua Nuova Guinea, benché il prodotto nazionale lordo pro capite dei due paesi fosse esattamente lo stesso nel 1969 e rimanesse dello stesso ordine di grandezza fino alla metà degli anni '70: ora invece quello coreano è cinque volte più alto. Come abbiamo visto, una nuova categoria, quella dei paesi di nuova industrializzazione, entrò a far parte del linguaggio diplomatico internazionale. Non c'era una definizione precisa, ma in pratica tutti gli elenchi includevano le quattro «tigri del Pacifico» (Hong Kong, Singapore, Taiwan e la Corea del Sud), l'India, il Brasile e il Messico, ma il processo di industrializzazione del Terzo mondo è tale che la Malesia, le Filippine, la Colombia, il Pakistan e la Thailandia come anche altre nazioni sono state incluse in questa categoria. In realtà la categoria dei paesi di nuova e rapida industrializzazione attraversa le frontiere dei tre mondi, perché a rigor di termini essa dovrebbe anche includere «economie di mercato industrializzate» come quella della Spagna e della Finlandia e come la maggior parte degli stati ex socialisti dell'Europa dell'Est; per non citare, dalla fine degli anni '70, la Cina comunista.

 Infatti, negli anni '70 gli osservatori cominciarono ad attirare l'attenzione su una «nuova divisione internazionale del lavoro», cioè su un massiccio trasferimento in altre parti del mondo di industrie che producono per un mercato mondiale, le quali in passato erano state appannaggio esclusivo delle economie industriali della prima generazione. Questo fenomeno si dovette alla scelta delle aziende di trasferire la produzione e gli approvvigionamenti in tutto o in parte dal vecchio mondo industriale al Secondo e Terzo mondo; a ciò seguì infine il trasferimento di settori assai sofisticati delle industrie ad alta tecnologia, quali il settore della ricerca e dello sviluppo. La rivoluzione nei trasporti e nelle comunicazioni rese possibile ed economica la dislocazione dei processi produttivi di una stessa azienda in diverse parti del mondo. Il fenomeno fu dovuto anche ai decisi sforzi dei governi del Terzo mondo di industrializzarsi attraverso la conquista di mercati di esportazione, se necessario (ma non preferibilmente) a spese della vecchie politica di protezione dei mercati interni.

Questa globalizzazione dell'economia, che può essere verificata da chiunque controlli i marchi d'origine dei prodotti venduti in qualunque supermercato nordamericano, si sviluppò lentamente negli anni '60 e accelerò in maniera impressionante durante i decenni di difficoltà economiche mondiali dopo il 1973. Quanto rapida fu questa tendenza può essere illustrato ancora una volta dalla Corea del Sud che, alla fine degli anni 50, aveva ancora quasi 1'80% della sua popolazione lavorativa impiegata in agricoltura, dalla quale derivava quasi i tre quarti del proprio reddito nazionale. Nel 1962 la Corea inaugurò il primo dei suoi piani di sviluppo quinquennali. Alla fine degli anni '80 la Corea traeva solo il 10% del suo prodotto interno lordo dall'agricoltura ed era diventata l'ottava tra le più grandi economie industriali del mondo non comunista.

 In terzo luogo, un certo numero di paesi precipitò al fondo delle statistiche internazionali, al punto che si rivelò impossibile continuare a definirli con l'eufemismo di «paesi in via di sviluppo», visto che erano poverissimi e in crescente ritardo. Si decise opportunamente di identificare un sottogruppo di paesi in via di sviluppo a basso reddito, allo scopo di distinguere i tre miliardi di esseri umani il cui prodotto nazionale lordo pro capite, se mai l'avessero ricevuto, sarebbe ammontato a una media di 330 dollari nel 1989, dai cinquecento milioni di persone più fortunate che vivevano in paesi meno poveri, come la Repubblica Dominicana, l'Ecuador e il Guatemala, il cui prodotto nazionale lordo in media era di tre volte più alto; al di sopra di questi vi era un gruppo di paesi più floridi composto da Brasile, Malesia, Messico e simili, la cui media del prodotto nazionale lordo pro capite era otto volte più alta. Il gruppo più prospero, che includeva all'incirca ottocento milioni di persone, godeva di una teorica distribuzione pro capite del prodotto nazionale lordo di 18.280 dollari, cinquantacinque volte più alta della quota spettante ai tre quinti dell'umanità che stavano nella fascia più bassa. In effetti, mentre l'economia mondiale diventata davvero globale e, soprattutto dopo la caduta del regime sovietico, più capitalistica e dominata dalla logica del profitto, investitori e imprenditori scoprirono che grandi parti del mondo non presentavano alcun interesse economico, a meno, forse, di poter corrompere i politici e i funzionari di quei paesi per indurli a sperperare in progetti di armamento o di puro prestigio il denaro che essi estorcevano dai propri sfortunati cittadini.

Un numero molto grande di questi paesi si trovava in Africa. La fine della Guerra fredda li privò dell'aiuto economico (cioè soprattutto dell'aiuto militare) che aveva trasformato alcuni di essi, come la Somalia, in accampamenti armati e alla fine in campi di battaglia.

Inoltre, mentre le divisioni tra paesi poveri aumentavano, la globalizzazione economica provocò spostamenti di masse umane che attraversavano quelle linee che in astratto delimitavano e classificavano le varie aree economiche del mondo. Come mai in passato dai paesi ricchi un ingente flusso turistico si riversò nel Terzo mondo. A metà degli anni '80 (nel 1985), per citare solo alcuni paesi musulmani, i sedici milioni di malesi ricevevano tre milioni di turisti all'anno; i sette milioni di tunisini ne ospitavano due milioni; i tre milioni di giordani ricevevano due milioni di turisti. Dai paesi poveri l'emigrazione di manodopera verso i paesi ricchi si gonfiò a dismisura, a meno che gli emigranti non fossero arginati da barriere politiche. Nel 1968 gli emigrati dai paesi del Maghreb (Tunisia, Marocco e, soprattutto, Algeria) formavano già un quarto di tutti gli stranieri residenti in Francia (nel 1975 il 5,5 % della popolazione algerina era emigrato) e un terzo di tutti gli immigrati negli USA provenivano dall'America latina: a quell'epoca provenivano ancora soprattutto dall'America centrale. L'emigrazione non si indirizzò soltanto verso i vecchi paesi industriali. Il numero di lavoratori stranieri nelle nazioni produttrici di petrolio del Medio Oriente e in Libia in solo cinque anni (1975-80) salì da 1,8 a 2,8 milioni. La maggior parte di costoro proveniva dalle aree vicine, ma un numero consistente veniva anche dall'Asia meridionale e persino da più lontano. Sfortunatamente, nei travagliati anni '70 e '80, fu sempre più difficile distinguere gli emigranti in cerca di lavoro dalla fiumana di uomini, donne e bambini che venivano sradicati dai propri territori perché costretti alla fuga dinanzi alla carestia, alla persecuzione etnica e politica, alla guerra e alla guerra civile. I paesi del Primo mondo, i quali in teoria erano tutti disposti ad aiutare i profughi per ragioni politiche o di forza maggiore, mentre in pratica si sforzavano di impedire l'immigrazione lavorativa dai paesi poveri, dovettero perciò affrontare non pochi problemi di casistica legale e di scelta politica. Con l'eccezione degli USA e in misura minore del Canada e dell'Australia, che incoraggiarono o permisero l'immigrazione di massa,  dal Terzo mondo, i paesi ricchi scelsero di chiudere le proprie frontiere sotto la pressione di una crescente xenofobia nelle proprie popolazioni.