IL LAVORO

 

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Il Novecento sarà ricordato come il secolo nel quale il lavoro e il sistema di fabbrica  conquistano un’indiscussa centralità sia economica che sociale. Uno degli aspetti più rilevanti è  senza dubbio l’applicazione crescente della scienza e della tecnologia ai processi produttivi: con l’industrializzazione il modo di lavorare si modifica profondamente, e con esso anche le condizioni di vita all’interno delle fabbriche.

Per quanto riguarda la storia d’Italia, il periodo d’accelerazione più intenso dello sviluppo del Paese è rappresentato dagli anni Cinquanta: il “miracolo economico” poté attuarsi grazie ad una politica di bassi salari e alla concentrazione di capitali, disponibili in poche e grandi aziende, che potevano garantire la competitività delle merci italiane sul mercato internazionale.

Attraverso i film e la letteratura degli anni ’50 - 60 possiamo seguire le fasi dei cambiamenti.

 Com’è dimostrato dal romanzo di B. Fenoglio la ” Malora” (1954) e dal film di G. De Santis “ Riso amaro (1948) nel primo dopoguerra la terra è ancora la risorsa prevalente per il sostentamento: il fattore terra è concepito come una fonte di lavoro sicuro ma faticoso, scandito dai ritmi  della luce del sole, dall’alba al tramonto. Quasi sempre si è costretti alla scelta obbligata del futuro lavorativo, per garantire il mantenimento della famiglia; molti sono i casi in cui i figli continuano il lavoro dei genitori, e alta si mantiene la percentuale della popolazione attiva nelle campagne (C. Pavese, “ La luna e i falò”.1950).

 Quello che traspare dai documenti cinematografici e letterari è la durezza dei rapporti sociali: il lavoro prima di tutto, prima della salute e degli affetti; il lavoratore è costantemente sotto la pressione del datore di lavoro, fin dalla primissima età (“La malora”, 1954). I fenomeni migratori riguardano in prevalenza gli spostamenti dei braccianti dalle campagne alle città, in molti casi secondo i cicli della produzione agricola, tra le zone del Veneto, della Lombardia e dell’Emilia Romagna (“Riso amaro”, 1948).

In città, come emerge dal racconto “Tra donne sole” di C. Pavese,  i lavori artigianali sono quelli che vanno ancora per la maggiore (muratori, sarte). Il grado di disoccupazione  è alto e spesso i giovani  si adoperano poco per aiutare la famiglia (“I Vitelloni”, 1953). La camera del lavoro assicura un’occupazione a pochi, tanto che molti decidono di arrangiarsi, anche ricorrendo a vie illegali (“Riso amaro” 1948), oppure tentando vie facili di guadagno che il più delle volte si rilevano illusorie (“Un americano a Roma”,1954). 

Verso la metà degli anni Cinquanta lo sviluppo si concentra nelle zone ”forti” situate nel “triangolo” industriale del nord-ovest del Paese, tra Genova, Torino e Milano, mentre si accentuano le differenze tra Nord e Sud, tra le zone sviluppate e quelle sottosviluppate, gravate da tassi di disoccupazione molto alti. Si diffonde tra ampi strati della popolazione il desiderio di una nuova vita e sempre di più l’occupazione nell’industria è vista dai provinciali come strumento di promozione sociale (Mastronardi, “Il maestro di Vigevano”, 1961) e si diffondono stereotipi culturali legati all’impiego come il mito del “ragioniere del Nord”( M.Monicelli “I Soliti ignoti”,  1958).

  L’Italia assume tutte le caratteristiche di un paese industrializzato, con la maggioranza della popolazione residente nella città e addetta ad attività non agricole. Inevitabili seguono radicali cambiamenti nei comportamenti collettivi e diventa più marcata la distinzione tra campagna e città, dove ci si trasferisce per le occasioni di lavoro.

Cresce il numero degli occupati nell’industria e le macchine utilizzate  alleviano la fatica degli operai, nonostante i turni lunghi e stressanti. Il racconto ”L’avventura di due sposi” (1957) di Calvino offre un esemplare quadro della situazione: il lavoro, che assume un ruolo sempre maggiore, influisce sui rapporti di coppia condizionandone ritmi e modalità. Si diffondono le prime forme di tutela  dei lavoratori, anche se il lavoro in fabbrica è ancora sottoposto a regole di tipo poliziesco (I.Calvino La gallina di reparto”, 1958), per cui ben presto l’operaio prende gradualmente coscienza dei suoi diritti e attiva forme di protesta  contro lo sfruttamento e gli stressanti turni a cui è sottopoposto.

 Il lavoro in fabbrica  si rivela motivo di alienazione psicologica. Volponi lo rappresenta in “Memoriale” (1962) attraverso l’ottica stravolta del protagonista, un operaio paranoico nel cui animo si alternano sentimenti di fascino e di rifiuto nei confronti della grande fabbrica e che finisce per rivelare la disumanizzazione che si cela dietro l’apparente razionalità del lavoro industriale.

Verso la fine degli anni Sessanta il numero delle persone che svolge un lavoro legato alla terra è ormai circoscritto e la maggior parte della popolazione è ormai occupata nei settori secondario e  terziario. In conseguenza della massiccia urbanizzazione esplode un vero e proprio boom dell’edilizia. Le grandi periferie vengono invase da enormi costruzioni, come testimoniano le fonti del tempo (D.Risi, “I Mostri”,1963). Il quadro che si presenta non assomiglia certo a  quello di un paesaggio  bucolico. La descrizione che Calvino ne fa nei “Racconti” (“La nuvola di smog”, 1958) è di tutt’altro genere:  i personaggi stessi vengono ad assorbire l’alone di grigiore e di atonalità che ricopre la città industrializzata.