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Soldati di Francia e torbiere di Franciacorta 
di Gianni Bergamaschi

 Un affare “dei siòri”, ovvero la “storia generale”

 La battaglia di Solferino e S. Martino è anche storia locale, e dunque va inquadrata nella “grande storia” (non necessariamente congiunturale o strutturale?) tradizionalmente narrata dai manuali scolastici, al fine di evidenziare eventuali connessioni, giustificazioni e, talora, persino delle profonde incongruenze reciproche (circa l’événementiel?).

L’Unità Didattica corrispondente è quella in cui viene trattato “Il Risorgimento italiano” (capitolo “Cavour, uno statista capace di realizzare l’unità nazionale”, in AA.VV., Il manuale di storia, volume II, Bruno Mondadori, 1997) o “L’Europa liberale” (capitolo “L’unificazione dell’Italia”, in AA.VV., Corso di storia, Volume II, Archimede edizioni, 1997).

Senza troppe differenze, in entrambi i testi vengono dapprima focalizzati la figura del grande statista piemontese, la sua modernità, i suoi viaggi in Francia, Belgio e Inghilterra, e quindi le dinamiche realtà sociali europee con le quali egli entrò in contatto e che assunse a modello nella sua abile opera di svecchiamento delle strutture politico-economiche dell’antiquato stato sabaudo, le riforme che egli attuò a diversi livelli (infrastrutturazione, istruzione, esercito, burocrazia, fisco, banche, rapporti con la Chiesa); dopodiché, si passa ad esaminare a grandi linee la politica estera e interna che vide più o meno protagonista il “grande tessitore” (individuazione di un probabile avversario dell’Austria, e quindi di un potenziale alleato del Piemonte, nell’ambizioso Luigi Napoleone Bonaparte; guerra di Crimea; congresso di Parigi; accordi segreti di Plombières con la Francia; rifiuto dell’ultimatum austriaco e conseguente dichiarazione di guerra da parte dell’Austria; seconda guerra d’indipendenza; armistizio di Villafranca, ecc.).

Nel corso delle unità menzionate vengono anche semplicemente nominati o sommariamente descritti alcuni concetti di natura politica ed economica (considerata la stretta relazione che Cavour intravedeva fra “risorgimento politico” e “risorgimento economico”): libertà dei commerci-libertà di iniziativa-libertà politica (dunque: liberalismo e liberismo-liberoscambismo), nuova società borghese, moderna società industriale, meccanizzazione agricola, barriere doganali, politica riformatrice, ala liberale moderata del parlamento piemontese, liberali moderati italiani, trattati commerciali, deficit statale, mercato internazionale, attività imprenditoriali in espansione, lotta contro le forze conservatrici, gioco diplomatico europeo, alleanze strategiche, annessione, plebisciti, forza economica e militare, governi provvisori. 

Neppure una riga, in questo contesto, dedicata alle masse, a parte l’indiretta implicazione, puramente etimologica, contenuta nella parola “plebiscito”. E’ noto, infatti, quanto poco contribuissero consultazioni del genere al reale sviluppo di un’autentica vita democratica, trattandosi di rispondere semplicemente con un sì o con un no alle domande che venivano poste agli elettori, dei quali non è ignota peraltro né la quantità (ancora troppo limitata), né, soprattutto, la qualità (cioè la classe sociale d’appartenenza o, per lo meno, l’orientamento decisamente moderato). Si veda, su questo, il senso dei plebisciti a favore dell’annessione tenutisi nel Mezzogiorno e in Sicilia (G. Procacci, Storia e civiltà, Volume III, Editori Riuniti, 1980, pp. 48, 62, 82 e 84 e anche F. Nardini il quale, alla pagina 161 del suo Brescia e i bresciani, scrive che l’unità d’Italia si imbastì “con un frettoloso quanto manovrato plebiscito, molto simile ad un referendum moderno, al quale non si [poté] rispondere che con un sì, imposto dalla realtà di fatto [quale fu] l’occupazione piemontese”).  

Si potrebbe credere che Cavour volesse almeno redimere le masse dalla loro secolare ignoranza, quando si diede a sviluppare l’istruzione, sottraendola al clero. Non fu così, dal momento che egli, assai più probabilmente, mirava ad avvicinarla alle necessità della nuova società borghese.

Con tutto ciò, non si vuole certo affermare che il progetto dell’abile statista piemontese tendesse intenzionalmente ad un peggioramento delle condizioni già penose degli strati più miseri della popolazione italiana, ma di fatto fu questa l’inevitabile sua conseguenza, dal momento che esso approfondiva l’abisso già esistente tra i ceti dominanti (borghesia, ma non solo, i cui interessi venivano oltremodo sostenuti) e il proletariato (di qualunque specie: urbano o rurale, del nord o del sud), soprattutto quando la politica dei governi di destra che lo seguirono si rivelò tanto odiosa e insensibile (tassa sul macinato, coscrizione obbligatoria, ecc.) nei riguardi delle masse sofferenti d’ogni parte d’Italia.

D’altronde, se è vero che lo stesso Cavour aveva insistito affinché la borghesia illuminata attuasse alcune riforme che in qualche modo migliorassero le dure condizioni di vita di operai e contadini, è altrettanto evidente che la spiegazione di tutto ciò va ricercata nella sua volontà di esorcizzare ogni esito rivoluzionario, sulla scia di quelle teorie socialiste che sempre più largamente andavano diffondendosi in Europa. 

Per la povera gente, almeno in Lombardia, l’esistenza non era stata peggiore in quel “breve” lasso di tempo che andò dal 1814 (Brescia venne occupata dagli austriaci il 27 aprile di quell’anno) al 1859. Prima ancora, ai tempi della repubblica cisalpina, la religiosa popolazione bresciana, soprattutto quella contadina (che ne costituiva la maggioranza), più che apatica o indifferente, si era dimostrata diffidente e ostile nei riguardi delle “libertà borghesi”, non riuscendo a metterle in relazione con i suoi concreti bisogni ed aspirazioni. Quando poi il “vice” di Napoleone Francesco Melzi d’Eril istituì nei Comuni le scuole elementari per tutti e la leva militare obbligatoria, quest’ultima trovò inizialmente molte resistenze; si può immaginare da parte di chi, e a ragione.

Anche il governo austriaco istituì in ogni Comune le scuole elementari gratuite, ma la crescente frequenza fece sì che i reazionari si lamentassero, dal momento che ciò sottraeva migliaia di bambini al lavoro familiare. Riguardo alle campagne, l’Austria avrebbe voluto fare della Lombardia la più bella provincia agricola dell’impero, e così vi si moltiplicarono stalle, caseifici e strutture attrezzate per la bachicoltura: la borghesia ne traeva un profitto che poi investiva in attività industriali, mentre i contadini non ne beneficiavano affatto. La mano d’opera costava poco e gli stranieri investivano da noi.

La mentalità conservatrice e reazionaria del Congresso di Vienna inizialmente trionfò, ma poi la borghesia, sempre più consapevole di sé in quanto forza produttiva, si fece via via più intraprendente nell’esprimere la propria opposizione, ritenendosi chiaramente danneggiata, sulla via del progresso civile e soprattutto economico, da un regime che, in sostanza, era di stampo antico.

Furono le Dieci Giornate (1849), che, mancato un adeguato aiuto politico e militare da parte del Piemonte, si conclusero, nelle mani dei repubblicani, in una tragedia, a mostrare il grande equivoco del 1848 italiano: “ una guerra rivoluzionaria, guidata da chi teme i rivoluzionari e non vuole la rivoluzione, è destinata al fallimento ” (Nardini).

Realizzato il regno d’Italia, pur senza Roma e Venezia, i liberali moderati erano convinti che spettasse a loro il compito di accompagnare gradualmente le plebi, cioè le masse popolari, verso quella coscienza civile e nazionale che ancora non c’era. Da “ buoni conservatori del loro stato sociale, alto o piuttosto alto” (Nardini), essi inaugurarono una politica dell’economia “fino all’osso” che, naturalmente, finì per gravare tutta sulle spalle della povera gente.

Intorno al 1860, i contadini (che costituivano il 70% della popolazione bresciana) giacevano nelle miseria e nell’abbandono; non amavano affatto il nuovo Stato, i cui eserciti, mentre attraversavano nel 1859 la Bassa, si sentivano gridare, nel dialetto di quelle parti: “ Ecco i porci! ”.

Intorno al 1875, anche in seguito ad opere di irrigazione e bonifica, la produzione crebbe, ma i contratti agrari non mutarono, e i salari restarono gli stessi. I profitti venivano investiti dai proprietari terrieri nelle nascenti industrie, mentre la classe contadina veniva ancora una volta esclusa dalla partecipazione ai benefici e agli utili conseguenti. Venne via via formandosi quel grosso esercito di salariati, avventizi e giornalieri, tra i quali si estese un deciso senso di ostilità nei confronti dei “siòri” che reggevano il paese.

La Sinistra che nel 1876 subentrò alla Destra era anch’essa costituita da liberali, sia pure sotto l’etichetta di “progressisti”. In effetti, entrambi gli schieramenti erano espressione di una medesima classe sociale: la borghesia, alta e media. In particolare, la Sinistra era “un insieme svariato di uomini e idee che [avevano], sì, interesse per le plebi abbandonate e povere, ma poi si [rivelarono] faciloni ed esibizionisti [paludandosi di una retorica] vuota e roboante” (Nardini). 

Come si è già detto, vari strati della popolazione rurale continuarono a mostrarsi indifferenti, se non addirittura ostili a tutto quanto andava accadendo, specialmente là dove mancava l’istruzione. Il quotidiano liberale-moderato “La Sentinella” (1859-1924) difese il popolo dall’accusa di scarso patriottismo, ricordando che nulla si era fatto per istruire le masse. Anche l’organo della sinistra (Gazzetta Provinciale di Brescia, 5 luglio 1859) lamentava che “in mezzo a tanta brava gente che si distinse tanto per lo zelo e amor patrio, noi abbiamo ancora dei goghi, razza austro-bifolca che non va avanti se non rimorchiata, che non spera, che non sente, che non intende il movimento italiano. Il dolore che ne sentiamo noi vada ad espiazione della loro nequizia; siano liberi anch’essi malgrado loro, e accontentiamoci di chiamarli: i salvati senza merito. Ma voi che siete in mezzo a una città festante, voi l’avete proprio dimenticata questa povera pianura! Qui non giornali, non bollettini, non guardie nazionali. Ma mandateci fucili, tamburi, istruttori da elettrizzare un po’ questa creta inerte, da persuadere certi melensi, da far soffocar di rabbia certi austriacizzanti”. D’altronde, il popolo non aveva visto mutare di una virgola la propria posizione economico-finanziaria (tasse, salari) e, come se ciò non bastasse, continuava a fornire reclute all’esercito, sottraendo braccia indispensabili al lavoro dei campi. In attesa di miglioramenti economici e riforme sociali apprezzabili, appariva dunque oltremodo necessario “spiegare alle masse che cosa significasse essere liberi, indipendenti, cittadini italiani e perché, per fare l’unità d’Italia, fosse necessario accrescere ancora l’esercito, sopportare gravami fiscali e sostenere nobilmente i sacrifici richiesti” (Storia di Brescia, diretta da Giovanni Treccani degli Alfieri, Morcelliana Editrice, 1961, p. 391). Espressioni ovviamente degne di quella “sinistra” non esattamente democratica di cui si diceva poco sopra.

E’anche, e forse soprattutto, in questo senso che “la realizzazione dell’unità italiana segnò il trionfo dei monarchici moderati e lasciò in ombra le forze democratiche più aperte alle esigenze popolari” (R. Fabietti, Elementi di storia, vol. 3, Zanichelli, 1974, p. 183).

Bisognerà giungere al 1882 per assistere al primo sciopero agrario (il cui obiettivo era un aumento della paga), dopo il quale cominciarono ad essere effettuati i primi seri interventi volti ad un reale miglioramento delle condizioni di vita dei contadini.

 
 

  

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