TAPPA 2: I DATI QUANTITATIVI
Mobilità
Fra il 1955 e il 1970 gli
spostamenti da un comune all'altro sono come s'è detto - quasi 25
milioni; quelli che portano al di fuori della regione
di partenza circa 10 milioni (1).
Fra il 1958 e il 1963 i meridionali che si trasferiscono al
Centro-nord sono poco meno di un milione. - Ciò che colpisce in questo
fenomeno - scriveva Danilo Montaldi – è il consenso, si direbbe, di
tutto un popolo che si muove, da ogni regione per cause ogni volta diverse
e particolari ma sempre estreme» (2).
A svuotarsi sono in primo luogo le aree di montagna e di collina, le case
isolate, le frazioni e i nuclei abitativi sparsi (vi vive un italiano su
quattro nel 1951, meno di uno su cinque nel 1961, uno
su otto nel 1971) (3).
Fra il 1951 e il 1961 l'aumento di popolazione è di circa 3 000
000, ma il 70% dei comuni italiani perde popolazione e i quasi 8000 comuni
non capoluogo di provincia, presi nel loro insieme, hanno una diminuzione
di 170.000 unità.
Consideriamo i saldi migratori. Quello,
negativo, con l'estero è valutato a circa un milione di unità.
Solo 19 province su 72 hanno un saldo migratorio stabilmente
positivo e realizzano - insieme - un aumento di 1 900 000 unità: in testa
Milano (+589 000), Roma e Torino (quasi appaiate, grosso modo, a +390
000), Genova (+ 100 000), Firenze e Bologna.
In queste province si concentra l'87% del saldo migratorio attivo,
concentrato soprattutto nei capoluoghi e nelle aree più industrializzate
(4). Vi è
contemporaneamente una «forte tendenza all'allineamento costiero [... ],
in corrispondenza soprattutto dei litorali percorsi dalle grandi vie di
comunicazione» (5).
Esse hanno capacità di attrazione sin nelle zone interne (via
Emilia, asse Firenze-Roma), mentre l'insediamento costiero si rafforza
anche al di fuori delle grandi direttrici (ad esempio nel Mezzogiorno).
Le grandi linee degli spostamento (6)
sono spesso risultante ultima di movimenti complessi, che gli studi più
ravvicinati non mancano di mettere in luce.
Si considerino le migrazioni rurali: talora segnano lo spostamento
definitivo da aree agricole povere ad altre più ricche, talora hanno il
più provvisorio carattere di avvicinamento a centri urbani. Inoltre,
possono avere come scopo l'acquisto di poderi toscani o emiliani
abbandonati dai precedenti coloni, il lavoro nella fioricoltura ligure
(integrabile o anche sostituibile con quello nel centri turistici della
riviera), e così via (7).
Sin da allora alcuni grandi libri - come quelli di Goffredo Fofi e
di Alasia e Montaldi, cui abbiamo già fatto riferimento - ci davano i
tratti essenziali degli spostamento verso le capitali del miracolo
economico, ma si indaghino anche realtà più «riparate», e quelle
stesse che vedono un saldo migratorio negativo.
Circa il 60% dell'emigrazione umbra, ad esempio, trova sbocco nella
regione stessa; nelle aree che non hanno tradizioni migratorie essa
procede generalmente per tappe: dalle frazioni al comuni, alle città
regionali più importanti, e quindi al di fuori della regione.
E allora si indirizza da un lato verso i «vecchi polmoni di
riserva dell'economia tradizionale» (cioè il Lazio, e in particolare
Roma, e la Toscana), dall'altro verso la Lombardia (8).
Si esplorino anche gli spostamenti all'interno del Mezzogiorno e il
diverso definirsi dei centri di gravitazione, non sempre connessi in
modo diretto alla creazione di posti di lavoro (9).
E' un quadro su cui esistono sintesi, anche
recenti, (10), sufficienti a definire il carattere
multiforme del fenomeno, ed esso è reso più vivo da moltissime «storie
di vita» che a questi percorsi fanno riferimento (11).
Al primo, maggiore spostamento, se ne aggiungono altri, quotidiani. Assume
proporzioni prima sconosciute il flusso giornaliero di lavoratori verso
Milano, o Torino: dai comuni circostanti gonfiati a dismisura in pochi
anni o da campagne povere che cedono braccia. «L’alba della Città
comincia a tanti chilometri di distanza, con un risveglio di massa»,
scrive Montali (12). «Lo spostamento di seicento
aziende nel nord milanese - aggiunge Bocca - non è bastato a frenare
l'esercito operaio che scende sulla città».
Bocca segue poi le diverse «ondate» che si riversano su Milano:
le prime partenze dalle valli bergamasche alle quattro e mezzo del
mattino, poi «I treni scalcinati che partono da Cremona, Voghera, Mortara,
Varese, Corno, Oggiono» e, via via, dalle fasce più
prossime alla città (13).
Arriva stanca al lavoro l'avanguardia del miracolo
scrive Vittorio Emiliani sul «Giorno» (22 giugno 1962), affidandosi
alle cifre: «in due ore ogni mattina 300 000 persone entrano a Milano con
tutti i mezzi, in condizioni spesso penose»; 200 000 a Torino, 75 000 a
Roma ecc. Ancora due anni
dopo Kino Marzullo sull'«Unità» intitola così un'inchiesta
sull'argomento: Sette ore di lavoro, sette ore in
treno (14), mentre Bianciardi
fotografa in questo modo la stazione di Milano al mattino:
|
La grande sala dalla
volta a botte della stazione è deserta; poi, all'improvviso,
ecco il primo reparto che esce, inquadrato, dal cancello che dà
sui binari. Avanzano
al passo, serrati spalla a spalla, coi visi duri e un po' gonfi
di sonno Sono trascorsi due minuti e sotto la gran volta a botte
non rimane nulla, solo silenzio e vuoto, per altri due minuti.
Poi, improvviso quanto il primo, ecco il secondo reparto,
grigio, dimesso [... ]. Solo a guardar bene ti accorgi che
lentamente la qualità del passo e dei portamento sta mutando;
alle otto ha finito di scorrere la folla degli operai e
cominciano ad arrivare anche gli altri.
Questi, ad esempio, hanno la cravatta e la camicia
bianca, ma tuttavia rimane grigio il tono fondamentale.
Né bastano a romperlo le ragazze che adesso cominciano
a punteggiare il reparto in arrivo; non bastano, perché anche
loro sono grigie (15). |
Interroghiamoci però,
almeno per un attimo, su alcuni risvolti dei flussi che
attraversano il paese in quegli anni.
Ascoltiamo in primo luogo testimoni d'epoca: alla prova
dei fatti, denuncia un documento dell'Episcopato italiano, |
queste emigrazioni
impreparate sono naufragi di anime, le famiglie si sfasciano La
città inoltre, con il suo fascino e le sue suggestioni, con la
maggior possibilità di rapporti e di incontri talvolta
moralmente pericolosi, esercita sull’animo soprattutto di giovani
emigranti una dannosa influenza, che spesso li avvia alla vita
prodiga e dissipata, e li spinge fino alla corruzione(16). |
Riferendosi agli
emigranti veneti Renzo Zorzi, direttore di «Comunità»,
segnalava |
la fame di rifarsi che
li divora, che dopo tre mesi da quando sono partiti da casa
hanno già cambiato tutto, vita, costumi religione [...
]. Nei paesi oggi ci sono molte case nuove, molte macchine,
molti televisori, molte motociclette, molti rotocalchi, molta
Azione Cattolica, molti cinema, molti
Enal, ma la gente è sempre meno, cala di numero ogni anno (17). |
Riferendosi sempre
alle migrazioni contadine, Francesco Alberoni esplicitava a sua
volta, un po' all'ingrosso, il problema: «nel corso di soli 5-6
anni abbiamo visto moltitudini di persone rifiutare i modi di
vita, i simboli, i valori, i legami, i doveri, la struttura di
potere consolidata nei luoghi in cui vivevano» (18).
Per che cosa, in quale direzione?
Le differenti risposte che a questa domanda sono state
date vanno viste nel loro insieme: hanno valore reale solo se
contribuiscono a comporre un quadro complesso e «aperto», in
qualche misura dinamico.
Quali furono, intanto, i segnali che vennero - o non vennero -
dai poteri pubblici? Come
già s'è detto, questi flussi colossali coesistettero sino al
1961 con la legislazione fascista volta a impedire l'urbanesimo,
e non è sufficiente prender atto che essa, di conseguenza, non
fu realmente applicata. Di
fatto, ha osservato Amalia Signorelli, essa «valse a
trasformare una parte cospicua degli immigrati in fuorilegge, in
una sorta di clandestini del mercato del lavoro nella loro
stessa patria». Su
questi «clandestini» prosperano forme di appalto e subappalto
della manodopera abolite anch'esse solo nel 1961 (19).
In questo quadro, gruppi consistenti di immigrati sono
portati a trarre anche i possibili vantaggi dall'illegalità e
dalla precarietà: di qui «l'aumento della estraneità e della
diffidenza verso le strutture pubbliche», e il rafforzamento di
quelle reti di relazioni che innervavano
il sistema extra-legale di reperimento del lavoro (20).
Si può aggiungere che governo e prefetti pongono una qualche attenzione
alle migrazioni interne solo quando i risultati elettorali
sembrano indicare che la crescita delle sinistre nelle grandi
città dei nord è dovuta appunto al voto degli immigrati (oltre
che a quello dei giovani) Così è ad esempio nelle elezioni
amministrative del 1960, secondo le risposte che i prefetti
danno ad una specifica richiesta del ministro dell'Interno
Scelba. E Scelba,
allora, scrive ad Aldo Moro, segretario della Dc, suggerendo che
il partito inviti le nuove amministrazioni democristiane ad
attuare «adeguate efficaci iniziative in favore degli immigrati
che valgano a neutralizzare un così pericoloso strumento di
propaganda del Pci». Nei
comuni amministrati dalle sinistre «questo
specifico compito assistenziale potrebbe esser assunto
direttamente dalle organizzazioni dipendenti dal nostro partito
o ad esso aderenti» (21).
Analogo ragionamento è svolto - con crudezza ancor maggiore -
dal prefetto di Torino e da altri (22), ed
è il semplice prolungamento dell'atteggiamento tradizionalmente
tenuto verso gli emigranti italiani all'estero. Alla vigilia
delle elezioni politiche del 1958, ad esempio, il ministro degli
Affari esteri risponde a una specifica richiesta del ministro
dell’Interno, Tambroni, indicando le organizzazioni che
maggiormente possono contrastare la propaganda comunista: «gli
Enti assistenziali nei paesi anzidetti, e cioè le Acli, l'Onarmo,
l'Unuci, le Missioni cattoliche della Poa, i comitati di
Assistenza Italiana (Coasit) e gli ordini religiosi».
Questi enti, prosegue la lettera, sono già «aiutati da
questo Ministero con cospicui finanziamenti [... ]. Essi
potrebbero tuttavia essere specialmente interessati ai fini
anzidetti con ulteriori speciali
finanziamenti» (23).
Che i cittadini abbiano bisogno in primo luogo di norme,
di tutela legislativa e giuridica, è elemento che sembra
sfuggire alla sensibilità di ministri e prefetti.
Ritorniamo per un attimo al saggio della Signorelli, che indaga
anche gli elementi positivi indotti dall'esperienza migratoria
(la crescita della capacità di progettare ecc.) e conduce però
ad una risposta drastica alle domande da cui siamo partiti.
Fra le aspirazioni degli immigrati vi era certamente «un
maggior rispetto delle regole del gioco, una maggior certezza
del diritto», e per realizzare questo hanno pagato anche
qualche prezzo, «non meno e forse più degli altri»: eppure,
dalle modalità di funzionamento della società e delle
istituzioni essi «hanno imparato non meno e non più degli
altri che la democrazia italiana è basata soprattutto sul
sistema della spartizione delle spoglie» (24).
A questi nodi rimanda già, a ben vedere, una lunga
inchiesta del 1963 di Giorgio Bocca, che aveva un titolo
significativo, La fabbrica dei nuovi italiani, ed era
sorretta dalla tempestiva intuizione di un problema centrale: il
significato decisivo di quegli anni nel processo di costruzione
dell'identità nazionale. Leggiamo
l'esordio della prima puntata (Il
pioniere rassegnato. In
dieci anni 600 000 immigrati fra Milano e i laghi) (25)
:
I villaggi-città della fascia (Sesto più di ottantamila
abitanti) sono ostili e agri per gli immigrati, come l'America
per gli uomini della conquista: stesse privazioni, infamie,
sofferenze, delusioni; qui, come nel West, una generazione allo
sbaraglio, che costruisce le sue case nella notte, che rischia
tutto ciò che possiede. Ma
chi pensa che qui possa uscire un nuovo italiano, sicuro,
fiducioso, orgoglioso della propria epopea come l'americano,
probabilmente si sbaglia.
Bocca evocava poi le «soggezioni arcaiche», le «sudditanze
intollerabili» ancora largamente presenti nelle campagne di
provenienza degli immigrati - venete, lombarde o meridionali che
fossero - e aggiungeva: «i contadini dell'Italia povera che
vengono nel milanese non saranno liberi in assoluto, saranno
anche meno liberi», ma trovano «un minimo di civiltà nel
rapporti di lavoro». I meridionali hanno desideri modesti,
continuava: |
Bisogna interrogare i
settentrionali per trovare uno che dica «voglio fare fortuna»,
poi si scopre che ha uno zio ingegnere o una sorella che ha un
ottimo impiego. Insomma,
direi che manca al pioniere della fascia la fiducia emersoniana
del successo legato al merito.
Avremo un pioniere rassegnato.
Operaio sì, ma con tutte le ambizioni e i pregiudizi dei
contadini per tutti gli anni a venire (26). |
Al di là delle
osservazioni specifiche che potrebbero esser fatte su questo «brano
d'epoca», vanno soprattutto aggiunte alcune considerazioni
relative alla questione centrale qui sottesa: le modalità con
cui vengono ad interagire culture tradizionali e processi di
modernizzazione, le forme e gli esiti molteplici di questa
reciproca influenza. Non
va sottovalutato, in particolare, un elemento di grande
importanza: quella ripresa dei conflitti sociali che attraversa
le concentrazioni operaie, vecchie e nuove, a partire dalla fine
degli anni cinquanta. Lo
sottolineava già uno studio dei primi anni sessanta: «nelle
città del Nord, a meno che il caso non offra soluzioni
individualistiche, eccezionali, e quasi su misura, gli immigrati
[... ] riconoscono il loro interesse profondo ad un cambiamento
che non può più essere sperato come individuale ma soltanto
collettivo, sociale» (28). Qualche anno
dopo Massimo Paci aggiungeva un elemento ulteriore:
gli immigrati di origine rurale hanno aderito all'ideologia che
hanno trovato dominante a livello operaio, nelle grandi città
del nord, e hanno partecipato alle lotte sindacali e politiche
perché questo non soltanto corrispondeva al loro interessi
economici immediati ma inoltre permetteva loro di identificarsi
con il nuovo ambiente urbano-industriale".
Vi è un terreno specifico, dunque, su cui la conquista
collettiva di diritti può procedere con forza, all'interno di
un processo di integrazione di tradizioni, culture, aspirazioni
differenti. Nella
ripresa delle lotte operaie negli anni del boom la «battaglia
per il diritto» segna tappe decisive, accumula risorse e valori
cui il paese potrà attingere anche in fasi successive.
Nel volume appena citato, e in riferimento a Milano, Paci
delinea il più tardivo sommarsi delle migrazioni dal
Mezzogiorno a quelle provenienti dalle altre aree lombarde e dal
Veneto. Distingue
inoltre i flussi provenienti da contesti urbani (prevalenti
nelle migrazioni dal nord-ovest e - sia pur di poco - in quelle
dal centro) da quelli di origine rurale (largamente prevalenti
nelle migrazioni dal Mezzogiorno e dal
Veneto) (29). Se la grande maggioranza degli
immigrati provenienti da zone rurali ha al massimo la licenza
elementare (e non va oltre le occupazioni operaie o fortemente
subalterne), si vedano i dati relativi a coloro che provengono
da contesti urbani: i loro livelli di scolarità sono simili a
quelli medi di Milano, ma con percentuali ancor più alte di
laureati e diplomati; ed essi hanno una percentuale di presenza
fra gli impiegati superiori e fra i professionisti ancor più
alta dei nati a Milano (30).
Sono dati che obbligano a interrogarsi molto più a fondo sui
versanti meno indagati di quei flussi.
Invitano a non sottovalutare le aspirazioni di strati
intermedi che partecipano in modo intenso al fenomeni di mobilità:
avendo come meta Milano e Roma, in primo luogo, ma anche i molti
capoluoghi della penisola.
E avendo aspirazioni, moventi o rovelli di rinnovamento
estremizzati e resi atipici da Luciano Bianciardi, la cui
disillusione è raccontata già pochi mesi dopo l'arrivo a
Milano: |
persino quel che mi
pareva chiaro, la posizione del nemico nei palazzoni di dieci
piani, fra via Turati e via della Moscova a Milano non mi e
parso più tanto chiaro. Perché
qui le acque si mischiano e si confondono. L’intellettuale
diventa un pezzo dell'apparato burocratico commerciale, diventa
un ragioniere (31). |
Estremo, Bianciardi.
Più misurata ma più aderente a umori largamente
diffusi la tensione che circola in questo dialogo urbinate fra
Guido ed Ettore, ne La strada per Roma di Volponi: |
-
Proprio per salvare Urbino bisogna andarsene […].
- Dico che ci si può salvare anche qui e salvare meglio questo
barcone sfondo
- E’ impossibile
- No, perché questa terra non sprofonda, ed è un pezzo del
mondo
- E’ inutile
- No, sei tu che non la vedi più.
Ogni cosa che succede a Urbino ti stanca e allora speri
che fuori le cose possano avere forza anche
per te (32).
|
La straordinaria
mobilità che caratterizza il lavoro, e la ricerca di
lavoro, si intreccia a quella che segna il tempo libero (ad
iniziare da quello estivo): destinate, entrambe, a rimodellare
il paese, le infrastrutture, il territorio.
Il «treno del sole» che quotidianamente rovesciava a Torino
migliaia di immigrati dal Sud diventò allora un simbolo: ma
l'immagine più vera è offerta dalle contemporanee vicende del
trasporto ferroviario e di quello autostradale.
Fra il 1959 e il 1964 il 40% degli stanziamenti per
opere pubbliche riguarda i trasporti ma soprattutto quelli
stradali e autostradali. Nel
1959, per far solo un esempio, si spendono meno di 36 miliardi
per strade ferrate e ben 238 per lavori stradali.
Il numero di chi viaggia in ferrovia aumenta solo molto
lentamente dal 1959 al 1961 (da 372 a 385 milioni circa), e poi
addirittura discende (356 milioni nel
1964, 343 nel 1974) (33).
Nel 1956, invece, alla vigilia delle elezioni amministrative
iniziano a San Donato Milanese, alla presenza del presidente
della Repubblica Giovanni Gronchi, i lavori dell'«Autostrada
del Sole». L’anno dopo, nella stessa area, con la benedizione
dell'arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini si inaugura
la nuova sede dell'Eni di Enrico Mattei.
Qui fra il 1955 e il 1960 sorse «un complesso
residenziale e di uffici imponente, al quale si diede il nome di
Metanopoli» (34), e nel decennio 1951-61
San Donato conoscerà una crescita demografica intensissima
(252%). Le torri
esagonali per uffici di Metanopoli «assurgono, nella simbologia
promozionale di Mattei, al ruolo di "porta di Milano",
veri e propri relais tra la Padania dei giacimenti
metaniferi e la città simbolo del dinamismo neocapitalistico»
(35). I
lavori per l'«Autostrada del Sole» - altro, essenziale relais
- iniziano, simbolicamente, da qui, ed è esemplare anche la
storia del progetto di tracciato che viene poi realizzato.
E’ elaborato nel 1951 su commissione di una società
costituita da Fiat, Pirelli,
Italcementi e Agip, ed è regalato all'Anas nel 1954. Le aziende
maggiormente interessate alla costruzione dell'autostrada «regalano»
dunque allo stato l'onere di renderla possibile (36).
Nel 1960 è varato il piano decennale che disegna in
sostanza l'intera rete autostradale italiana, mentre il
procedere dei lavori è intessuto di pressioni
localistiche che ne frenano la speditezza.
Andrea Barbato, nel 1963, annuncia che il diaframma fra
nord e sud sta per cadere e così disegna il futuro:
Quando il diaframma sarà caduto, tra Milano e Salerno ci sarà
qualcosa di simile ad una città lunga 800 chilometri, con
motels, parcheggi, ristoranti, terrazze panoramiche, uomini in
tuta, pronto soccorso, uffici di polizia, caffè.
Il mondo di Lolita, degli inseguimenti, delle grandi
distanze, delle giornate passate in viaggio fra paesaggi
diversissimi: un immenso nastro trasportatore del turismo,
dell'espansione industriale, delle possibilità di spostamento (37). |
(1)
Sonnino, La ' popolazione italiana cit., p. 538; Ascoli, Movimenti
migratori in Italia cit. 109-143; Le Stazioni interne in
Italia, a cura di M. Livi Bacci, Firenze 1967; cfr. inoltre
P. Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra ad oggi.
Società e politica 1943-1988, Torino 1989, II, pp.
195-301.
(2)
Alasia – Montali, Milano, Corea cit., p. 26.
(3) G. Crocioni, Il rapporto città-campagna
nel dopoguerra, Milano 1978, p. 77.
(4) Traggo dati e giudizi da Sonnino, La popolazione
italiana cit.
(5) G. Dematteis, Le trasformazioni territoriali e
ambientali, in Storia dell'Italia repubblicana, vol. II,,
t. 1, cit., p. 661. Da
qui traggo anche le considerazioni successive.
(6) Cfr. ad es.
A. Treves, Le migrazioni interne nell'Italia fascista,
Torino 1976 (che considera anche il secondo
dopoguerra).
(7) Per un quadro ricco e articolato C. Barberis, Le
migrazioni rurali in Italia, Milano 1960.
(8) Nenci, Proprietari e contadini cit., p. 254.
(9) Ascoli, Movimenti migratori cit., pp. 114 sgg.
(10) Oltre agli studi già citati cfr. il sintetico
quadro di insieme proposto da Lanaro, Storia dell’Italia
repubblicana cit., pp. 223-52.
(11) Cfr. ad es. Il sindacato come
esperienza cit., a cura di Carbognin e Paganelli; A.;
Antonuzzo, Boschi, miniera, catena di
montaggio, Roma 1976; D. Norcia, Io garantito,
Roma 1980.
(12) Alasia - Montaldi, Milano, Corea cit., p. 13.
(13) Bocca, Miracolo all'italiana cit., pp. 81 sgg.
(14) Cfr.”l’'Unità”, 19 maggio 1964.
(15) L. Bianciardi, La folla del mattino a Milano, in
«Le Vie d'Italia», dicembre 1960 (ora in Id., Chiese
escatollo e nessuno raddoppiò.
Diario in pubblico 1952-1971, Milano 1995, pp.
127-33).
(16) Il problema dell'emigrazione.
Lettera collettiva dell'Episcopato italiano al clero (29
settembre 1962), in Enchiridion della Conferenza Episcopale
Italiana 1954-1972, Bologna 1989, pp. 118-9.
(17) R. Zorzi, Il contadino veneto
e la Resistenza, in «Tempi Moderni», luglio-settembre
1961, 6.
(18) E Alberoni, Le
caratteristiche e le tendenze delle migrazioni contadine, in
Alberoni Baglioni, L'integrazione cit., p.
230.
(19) Nel maggio 1961 diventa
esecutiva infatti una legge dell'anno precedente che opera in
tal senso e gli Ispettorati dei
lavoro danno segni di maggior vivacità nel controlli: su
questi cfr. Lanaro,
Storia dell'Italia repubblicana cit., pp. 232 sgg.
(20) A.Signorelli, Movimenti di popolazione e
trasformazioni culturali, in
Storia dell'Italia repubblicana, vol. II, t. 1, cit.,
P. 626.
(21) La lettera di Scelba a Moro è del 29 novembre
1960 ed è in Acs, Mi Gab 1957-60, b. 350,f. 17200/111, Elezioni
amministrative 6 11 1960.
Cause incremento voti socialcomunisti .Ivi anche le risposte
dei prefetti sulle cause dell'«aumento elettorale dei
socialcomunisti».
(22) Cfr. ad es. il rapporto trimestrale del prefetto di
Torino in relazione al settembree 1960, in Acs, Mi Gab.
1957-60, b. 277, f. 16995/48.
(23) La lettera è del 16 aprile 1958, ed è in Acs, Mi Gab
1957-60, b. 357, f. 17231/1.
(24) Signorelli, Movimenti di popolazione cit., pp.
657-8. Puntuali
osservazioni su questi in Castronovo, La cultura industriale
negli anni 50 cit.
(25) «Il Giorno», 8 settembre 1963.
(26) Ivi.
(27) L. Cavalli, L'immigrazione meridionale e la società
ligure, Milano 1964, pp. 112-3.
(28) M.Paci, Mercato del lavoro e classi sociali, Bologna
1973, p. 74.
(29) L’immigrazione meridionale a Milano è il 17% dei
totale nel 1952-57, il 30% nel 1958-63. Al 1961, gli.
immigrati provenienti da province lombarde costituiscono il 23%
della popolazione milanese totale; quelli provenienti dal Veneto
il 14%, dal Sud e dalle isole l’11 %: ibid., pp. 54-5.
(30) Ibid., pp.
56-62.
(31) L.Bianciardi, Lettera da Milano, in «Il
contemporaneo», 5 febbraio 1955.
(32) P.Volponi, La strada 'per Roma, Torino
1992, pp. 182-3. Sulle
«molte strade» che possono portare a Roma cfr.
A.Gioia, Non andavano in via Veneto. Racconti di donne
inurbate nella Roma degli anni cinquanta, in «Annale
1992”» dell'Istituto romano per la storia d'Italia dal
fascismo alla Resistenza, Roma 1992; P. Iuso,
Il secondo dopoguerra, in L’emigrazione
abruzzese e molisana (sec.XIX e XX), a cura di G.
Crainz, «Trimestre», 1994, 59, pp.629-48.
(33) C. Columba, Territorio ferrovie
e opere d'arte, in Ferrovie Italiane.
Immagini del treno in 150 anni di storia, a
cura di P. Berengo Gardin, Roma 1988, p. 339.
(34) G. Petrilio, La capitale del miracolo.
Sviluppo lavoro e potere a Milano 1953-1962,
Milano1992, p. 33.
(35) C. Zucconi, La città aziendale.
Metanopoli nella strategia del gruppo Eni, in «Storia
Urbana» 1986, 34, pp. 211-34, cit. in Petrilio, La capitale cit.,
p. 34.
(36) L. Bertolotti, L'evoluzione del territorio, in La
Toscana, a cura di G. Mori, Torino 1986.
(37) A. Barbato,
Sta per cadere il diaframmafra nord e sud.
A primavera l'Italia sarà accorciata, «Il Giorno»,
8 luglio 1963.
Da
Guido Crainz, Storia del miracolo italiano, Roma, Donzelli, 1996
pag. 103-113
TAPPA 2: I DATI QUANTITATIVI
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