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Hilda Gilardet, Aspetti cognitivi della didattica di laboratorio

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PRESUPPOSTI PSICO-PEDAGOGICI DELLA DIDATTICA DI LABORATORIO

Prima di approfondire questi aspetti e analizzare quali problemi e quali potenzialità possa offrire una didattica di laboratorio, vorrei richiamare alcuni punti ormai acquisiti sui processi di apprendimento e che costituiscono altrettanti argomenti a favore del laboratorio.
In primo luogo, sulla scorta delle ricerche di Piaget, noi condividiamo l'idea che l'imparare, l'apprendere è un processo attivo, che richiede l'attività di elaborazione e di costruzione delle conoscenze del soggetto che apprende. Questo vale per qualsiasi processo di comunicazione: anche ora, mentre sto parlando, voi dovete ascoltare e rielaborare le cose che dico, per farle vostre e decidere di prenderle o decidere che non vanno bene. Nel caso di agorà, nel caso della lezione, questo processo, che comunque c'è, non appare: né i ragazzi né l'insegnante possono osservarlo e modificarlo.
Un secondo punto che abbiamo acquisito è che le preconoscenze, i concetti, le informazioni, gli schemi, le strategie, cioè tutto quello che avviene prima dell'insegnamento e che i soggetti - anche bambini molto piccoli di tre anni - già padroneggiano funziona da filtro rispetto alle nuove conoscenze. Quindi abbiamo imparato ad attivare le mappe concettuali o i concetti o le conoscenze che gli studenti già possiedono. Questo sia perché l'insegnante possa basarsi sulle conoscenze pregresse sia, soprattutto, perché i ragazzi stessi possano metterle in discussione, arricchirle o ristrutturarle. Le nuove conoscenze richiedono infatti di essere integrate con il sistema di conoscenze già disponibile: a volte può trattarsi semplicemente di un arricchimento, ma in alcuni casi può essere necessaria una vera e propria ristrutturazione, che richiede di abbandonare vecchi schemi e crearne di nuovi più funzionari e potenti. Questo è un processo faticoso - imparare è faticoso - perché ognuno si affeziona ai propri schemi e ai propri modi di interpretare ed è sempre complicato cambiarli.
L'altro grande presupposto che ci ha guidato dalla fine degli anni '60 in poi è che s'impara facendo: facendo delle esperienze, mettendo in pratica procedure, categorie, concetti; imparando a usare degli strumenti. Non una trasmissione di tipo verbale, ma un fare. Per la storia c'è sempre stato il problema che, a differenza del laboratorio di chimica o di fisica, non disponiamo di oggetti o di elementi materiali da far reagire. Abbiamo sempre a che fare con dei discorsi. Discorsi scritti, come il manuale o i documenti, e discorsi orali, come nelle testimonianze dirette. E anche quando abbiamo a che fare con degli oggetti del passato, dei resti o dei paesaggi com'è il villaggio Leumann, in realtà abbiamo bisogno di farli parlare, di mettere in parole ciò che vediamo o tocchiamo: se uno viene qui, vede un bellissimo villaggio e, se non sa qual è la storia che c'è dietro, non vede niente o vede cose molto diverse da quelle che noi vorremmo vedesse.
"Fare" in storia è sempre stato problematico: e in tutti questi anni si è risolto attraverso la mediazione del lavoro diretto sui documenti e, più in generale, con le attività che, convenzionalmente, chiamiamo di laboratorio.
Se - come dicono i programmi delle Elementari - la scuola è il luogo preposto all'attività di costruzione e rielaborazione delle conoscenze e si configura come ambiente per l'apprendimento, il laboratorio è la metafora di come dovrebbe avvenire tutto l'apprendimento: un luogo dove si possono fare esperienze, si imparano a usare procedure, materiali, metodi che sostengono la costruzione di conoscenze e si fanno esperienze reali o esperienze simulate che consentono però processi reali di apprendimento.
Ciò nonostante in questi anni sono emersi limiti e problemi connessi alla diffusione nelle classi di una didattica della storia basata sull'uso dei documenti.
Ad esempio, nella scuola elementare, i documenti ormai sono entrati e fanno parte delle esperienze comuni. Ma se andiamo a vedere il tipo di istruzioni che vengono date agli allievi come guide di lettura, in realtà più che una lettura di tipo storico dei testi, spesso si tratta di una serie di domande di comprensione del testo che potrebbero andare benissimo anche per testi di altro genere. Oppure le attività di inferenza fatte sui documenti per raccogliere dati di informazione storica risultano ripetitive: spesso le medesime procedure vengono applicate indifferentemente a fonti e documenti di natura molto diversa. Il lavoro dopo un po' diventa noioso, poco produttivo e richiede molto tempo rispetto alla qualità dei processi cognitivi attivati e alle conoscenze storiche che i ragazzi acquisiscono. Noi abbiamo invece bisogno di far fare ai nostri studenti un numero limitato di esperienze che siano però emblematiche e significative, e che il tempo che noi impieghiamo per condurle sia corrispondente al tipo di obiettivi didattici che ci proponiamo.
Rispetto al quadro molto sommario che sopra abbiamo abbozzato dei punti forti oggi condivisi in ambito psico-pedagogico, vi sono stati recentemente alcuni sviluppi nel campo della ricerca che ci possono offrire un aiuto per cercare di ridefinire meglio l'utilità della didattica di laboratorio di storia.
Segnalerò solo due punti che, rispetto alla visione di Piaget, oggi vengono messi in discussione. Il primo riguarda la sottolineatura della dimensione sociale dell'apprendimento in contrasto con una visione individualistica di un soggetto che apprende indipendentemente dalla presenza degli altri. Il secondo si riferisce all'idea che non esista una capacità logica astratta dalla specificità dei contenuti, delle procedure e degli strumenti di volta in volta utilizzati.

l. Soprattutto grazie a Vygotskij e alla psicologia culturale (Vygotskij, 1990; Bruner, 1992; Liverta Sempio, Marchetti, 1995) (4), oggi assistiamo ad una forte sottolineatura della natura storico-culturale dei processi psicologici e dell'origine sociale dei processi mentali individuali. In altre parole, si impara dagli altri e insieme agli altri, perché siamo inseriti in relazioni sociali all'interno delle quali impariamo a condividere i significati da attribuire alla realtà, a vedere il villaggio Leumann non come un curioso centro residenziale, ma come il residuo di una serie di attività, come una fonte storica da interpretare per accedere alla conoscenza di un caso di processo di industrializzazione. Impariamo a ragionare storicamente perché abbiamo discusso con altri dei problemi "storici": utilizzando e mettendo alla prova forme di ragionamento, conoscenze e strategie proprie della storia. Questo riconoscimento della natura sociale dei processi di apprendimento è di estremo interesse per gli insegnanti. Quando siamo in classe, infatti, non impartiamo un insegnamento faccia a faccia, non insegniamo ad uno studente alla volta ma abbiamo a che fare con un gruppo-classe. E se è vero che è importante tener conto dei livelli di sviluppo, delle caratteristiche individuali degli studenti, dobbiamo però sfruttare la risorsa costituita dal fatto che siamo un gruppo, una collettività. Nel gruppo ci sono competenze diverse ed è possibile una distribuzione del carico dell'apprendimento. Lo vedremo tra poco nel tipo di processi che vengono attivati quando si fanno lavorare i ragazzini in gruppi di lavoro e quando viene consentita un'interazione verbale tra gli allievi che non ha niente in comune con quella che abbiamo visto nella lezione sull'agorà.

2. Rispetto al secondo punto, oggi vi è una convergenza sul fatto che quando si impara a ragionare, uno impara dei ragionamenti specifici, relativi al tipo di contesto, al tipo di disciplina, al tipo di argomenti, ma anche al tipo di strumenti e di materiali che stiamo usando e che consentono e sostengono i nostri ragionamenti.
Se utilizziamo una fotografia o una fonte orale, il tipo di operazioni cognitive che mettiamo in atto sono di ordine diverso. Vedremo tra poco anche questi aspetti.

Se, per la pedagogia attiva, il laboratorio era il luogo dove era possibile il fare degli studenti e l'imparare a stare e a lavorare con gli altri, alla luce della ricerca psicologica più recente, il laboratorio è il luogo caratterizzato dalla presenza degli altri con cui discutere e da strumenti, materiali, modalità di lavoro specifiche. Un luogo in cui si impara a costruire conoscenze specifiche e ad interiorizzare modalità di ragionamento adeguate all'ambito disciplinare grazie al fatto che abbiamo potuto sperimentare, mettere alla prova, discutere cioè fare esperienza di un'attività argomentativa reale con gli altri (Pontecorvo, 1993).
Siamo abituati a pensare al laboratorio sempre per gruppi di età: ci vanno le terze, ci vanno gli studenti di prima, e non pensiamo mai che il laboratorio può essere un luogo dove invece si confrontano esperienze diverse, dove ci sono ragazzi più grandi e ragazzi più piccoli, come nei laboratori reali, nei laboratori artigianali, che possono partecipare - a livelli diversi - a progetti comuni.
Il laboratorio è caratterizzato dalla presenza di strumenti che mediano le nostre operazioni concettuali o le procedure che noi vogliamo far acquisire (Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio, 1995). In questo caso sarebbe bene che fosse un luogo reale, non solo un luogo immaginario. Oppure (noi italiani siamo anche molto creativi) potremmo apprestare un angolo della classe che viene utilizzato in alcuni momenti come laboratorio. Ma la cosa importante è che ci siano effettivamente degli oggetti, dei materiali, delle strisce del tempo, delle raccolte di fonti.
  


 

 

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