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C’è un bel giardino nel mondo: fascismo e scuole rurali

  di Patrizia Vayola

l'emigrazione

Il tentativo di arginare l'esodo dalle campagne diventa, in un testo di seconda elementare, il motivo ispiratore del racconto " La pietra".

In mezzo a un prato c'era una bella pietra levigata e lucente. Durante l'inverno la neve la ricopriva con una coltre candida, in primavera le margheritine le facevano intorno come un cestino di fiori. Nell'estate il sole la faceva bianca e pulita e in autunno la rugiada la copriva di gocce scintillanti come gemme. Ma un giorno la pietra si stancò di quella vita tranquilla e disse:-Voglio andare laggiù dove passa tanta gente e c'è vita e movimento. - E pregò un torello perché le desse un calcio e la facesse ruzzolare giù per il pendio.
Ruzzola ruzzola, arrivò trafelata sulla strada e pensava di potersi godere lo spettacolo, ma lì c'era un gran via vai di carri, di zoccoli di cavalli e di piedi di viandanti; così, per la povera pietra, non ci fu un momento di pace. Chi la voltava chi la pestava, chi la schiacciava; spesso era coperta di fango e di immondizia, tanto che cominciò a pensare con infinito desiderio al luogo da dove era venuta. - Magari non mi fossi mai mossa! -diceva tra sé. Così accade a quelli che vivono tranquillamente in campagna e vogliono andare ad abitare in città dove trovano tante noie e molestie.

Risuona in queste parole l'eco di quanto il Bottai, ministro dell'educazione nazionale dal 1936 al 1943, affermava nel corso di un discorso al convegno dell'istruzione agraria nel 1940 a Palermo:" Bisogna impedire le inutili evasioni per far comprendere come certe evasioni dalla nobile famiglia rurale, verso spesso inconfessabili mestieri ai margini delle grandi città, sono una degradazione e non un'elevazione sociale."
Una storia sullo stesso tema la troviamo anche nel libro di letture della quarta classe elementare del 1937 ove si narra la storia di Fortunato che, scontento della vita contadina, afferma:"
Bella fortuna nascere in campagna! Di giugno consumarsi con tant'acqua, d'ottobre rompersi le gambe (pigiando l'uva), e di novembre affondare nel pantano. Ma se Dio vuole non si morrà dove si è nati". E così Fortunato vende il campo e va a vivere con la moglie e i cinque figli in città dove trova lavoro in una fonderia e " due camerette un po' buie e anguste in un casone del sobborgo". La moglie, che ha tentato di opporsi al progetto del marito, non è contenta: " La città -dice -mi pare un bell'imbroglio. Belle strade, non c'è che dire, e bei palazzi anche, a vederli di fuori; mentre da noi vi sono pessime strade e case bruttine. Ma di dentro non c'è paragone: da noi aria e pulizia in abbondanza, mentre qui si respira appena. La bellezza della città, vorrei sbagliarmi, dev'essere tutta nell'apparenza." Le spese aumentano, non è possibile fare risparmi, Fortunato cambia altri due lavori ma senza trovare il benessere che si era aspettato. Infine il figlio maggiore si ammala e il dottore sentenzia:" Il solito male. Si vive in luoghi malsani, cara la mia donna. Eppoi si è in troppi quaggiù. Se uno ha un malanno, ne contagia altri cento. Che maledetto miraggio è questo che vi tira in città? Tornate in campagna, lavorate la terra ch'è tanta salute e tanta ricchezza!" Insomma, Fortunato tornerà in campagna, non più nella condizione di proprietario, giacché è quasi rovinato, ma come mezzadro, tormentato dal rimorso per la morte di quel suo figliolo.

Sullo stesso tema, infine, troviamo anche un altro passo emblematico: è il racconto del viaggio a Roma della mamma dei due bambini che nel libro sono spesso protagonisti di storie e la cui vita si colloca come filo conduttore dell'intero testo. Ecco come descrive la città:

Cara la mia Anna, (i palazzi ) sono così grandi che fanno venire il capogiro. Pieni zeppi di finestre, di balconi, di porte, sembrano alveari, tanto più che la gente ne entra e ne esce continuamente come fanno le api. Io credo che uno soltanto di quei palazzoni basterebbe per tutti gli abitanti del nostro paese. (..)
-E' vero che ci sono tante automobili e tanti tranvai che corrono sempre?
-Ne sono ancora stordita. Anzi, vi dirò che un giorno mi sono trovata in mezzo a una piazza così grande e così rumorosa, che mi ha preso la paura e sono rimasta lì in mezzo, senza sapere andare né avanti né indietro.
-Allora che hai fatto?
_ E' venuta una guardia molto gentile che mi ha aiutato ad attraversare. Altrimenti, forse, sarei ancora lì.
I ragazzi ridono.
-Ci staresti sempre a Roma, mamma? -chiese Mario.
-Senti, la città è tanto bella, ci sono tante cose da vedere che mi sarebbe dispiaciuto di morire senza averle guardate con questi occhi, eppure, vedi,

quando ho rivisto i nostri campi e ho sentito di nuovo il suono delle campane della nostra chiesa, mi sono sentito il cuore pieno di allegria.
Roma è tanto bella, ma chi nasce contadino ama sempre la sua terra e non sa distaccarsene.
La mamma si va vicina alla finestra e guarda la bella campagna rigogliosa e fertile.
Sul suo viso c'è tanta felicità. "

Non tutte le emigrazioni sono però da condannare, anzi ce ne sono alcune che lo stesso regime incentiva e diffonde: quelle nei territori bonificati; uno spostamento, cioè, da campagna a campagna.

Due bimbi trasferitisi coi genitori nella pianura Pontina son infatti i protagonisti del testo per la terza elementare "L'aratro e la spada" del 1940. Il libro comincia emblematicamente con la cottura del primo pane nella casa assegnata, col podere bonificato, al padre dei bambini :

La mamma intanto ha deposto sulla tovaglia la pagnotta e il coltello e guarda per la finestra aperta: vede il campo inondato di sole, la strada percorsa dai carri, i tetti del paese, la torre del Littorio e le sembra di vivere in un sogno.
I dolori degli anni trascorsi si sono dileguati dalla sua memoria. Come lagnarsi? La vita è buona!

Il tema della migrazione possibile è affrontato inoltre, soprattutto con volontà propagandistica, in relazione all'espansionismo imperiale italiano che procurerà, secondo il regime, fertilissime estensioni di terra coltivabile.

Nel testo appena citato infatti si descrive il gioco dei bambini che fingono di combattere la guerra etiopica contro immaginari abissini "dalle urla selvagge"; li vincono più volte finché

tutto il suolo occupato dai barbari non sia divenuto italiano" poi uno di loro dice:" Figlioli, non basta aver conquistato l'Etiopia; bisogna adesso colonizzarla. Su aprite strade, alzate ponti, dissodate terre." Ed ecco che quei prodi soldatini si trasformano a tratto in ingegneri, in pontieri, in selciatori, in contadini. Le loro sciabolette di legno, i loro moschetti di latta, le loro pistole, diventano picconi, zappe, badili. (..) Leonetto, che ha deposto le sue insegne di generale, chiude intanto in un recinto di pietre un pezzo di terra e lo zappa per bene. Poi finge di seminarlo.