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PER UNA
CRITICA DELLA TESTIMONIANZA VISIVA
Ma il problema di un corretto
uso della fotografia come fonte storica non è semplicemente un problema di
strumenti e di competenze. Ciò che porta gli storici a diffidare della
fotografia è l'impossibilità di trasferire ad essa le categorie
interpretative usate per le altre fonti (autenticità, veridicità,
esattezza) e rimanda in ultima analisi al concetto di "vero'' per lo
storico che è diverso dal "vero" per il senso comune. Noi
accettiamo comunemente e quotidianamente testimonianze visive a comprova
della verità dei fatti, senza porci il problema della corrispondenza tra
fatto e testimonianza. Manca al senso comune la coscienza della natura
spesso convenzionale e del valore linguistico della fotografia: non può
accettare l'insicurezza che deriva dal dubbio, dal sottoporre a revisione
critica una testimonianza presupponendo che possa essere falsa; tanto più
la testimonianza visiva, considerata superiore alla testimonianza orale, e
tanto più una testimonianza presa direttamente, saltando la catena di
mediazioni deformanti dei soggetti.
L'uso diffuso della fotografia e del video come documentazione dei fatti
sta portando, come rileva Giuseppe Papagno, a due effetti: ripropone una
forma di conoscenza basata sulla testimonianza visiva ("ho
visto") e stabilisce un collegamento diretto tra il fatto fissato
nell'immagine e i non testimoni, fondandolo non sulla fiducia nell'autore,
ma sulla fiducia nel mezzo. Lo storico stesso non sfugge a questo
atteggiamento, tanto sono interiorizzati gli stereotipi nel modo di leggere
un'immagine fotografica. Il superamento di questo modo di leggerla passa
allora attraverso un'analisi interna al soggetto che metta in discussione
la convenzionalità dello sguardo propria del senso comune, che rappresenta
un handicap per lo storico. Egli infatti deve sottoporre il documento a
revisione critica, storicizzarlo, verificarne l'autenticità. Operazioni
complesse poiché rimandano a informazioni esterne alla fotografia e che
mettono in discussione le categorie stesse di partenza, mutuate dalla
lettura del documento scritto. Il problema del controllo dell'autenticità
del documento si riduce per la fotografia al controllo dell'autore del
documento, cosa spesso impossibile dal momento che gran parte della
produzione fotografica è anonima e comunque non sempre possediamo dati
sufficienti sull'autore. Come può allora la fotografia essere documento?
Per rispondere a questi problemi è utile ricondurre la questione a che
tipo di documento è la fotografia e per quale storia.
Diamo per scontata l'acquisizione del fatto che la fotografia non è solo
una tecnica di riproduzione della realtà ma anche una tecnica di
rappresentazione visiva, né fedele né neutrale, in cui la componente
soggettivo-interpretativa è altrettanto importante del fatto
rappresentato. Questa doppia natura tecnica e linguistica, di restituzione
della realtà effettuale e d'interpretazione della stessa nel momento in
cui viene registrata, è lo specifico della fotografia e ciò che ne
complica la decodifica. Essa infatti, proprio grazie a questa specificità,
non "parla" un linguaggio totalmente convenzionale, anche se si
possono individuare convenzioni fotografiche che codificano i generi. Essa
non è composta unicamente di segni come la parola e scomponibile in una
serie di unità significanti come il discorso. Poiché per natura è
analogica, cioè ha una corrispondenza naturale, non convenzionale, tra
significato e significante, conserva qualche cosa di ciò che denota,
contiene contemporaneamente il dato e la sua formalizzazione, astrazione,
interpretazione. Vi è un piano della fotografia non codificato che rimanda
direttamente alla realtà e che lascia spazio a interpretazioni soggettive.
Nella lettura della fotografia dunque entrano sia l'esperienza del soggetto
percepiente, legata al suo vissuto, sia le informazioni fornite
dall'oggetto osservato, sia le intenzioni, e quindi il vissuto
dell'operatore. "Non c'è una maniera di guardare una foto, ma
centomila, ci sono altrettante maniere per ogni persona" osserva A.
Robbe-Grillet.
Questa sostanziale ambiguità porta i critici a diverse, persino
contrapposte valutazioni, a seconda che pongano l'accento sulla sua natura
di specchio o piuttosto di linguaggio. Roland Barthes, tra i primi, la
considera un messaggio senza codice, pur riconoscendo la presenza di un
piano che connota significati, ed è astratto dall'irruenza del reale nella
rappresentazione che la rende indecifrabile. Altri tendono piuttosto a
considerarla un linguaggio con una propria messa in codice e a leggerla in
relazione, più che al reale che rappresenta, alla storia della
comunicazione
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