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Maria Teresa Sega, La storia scritta con la luce. La fotografia come fonte  

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PER UNA CRITICA DELLA TESTIMONIANZA VISIVA

Ma il problema di un corretto uso della fotografia come fonte storica non è semplicemente un problema di strumenti e di competenze. Ciò che porta gli storici a diffidare della fotografia è l'impossibilità di trasferire ad essa le categorie interpretative usate per le altre fonti (autenticità, veridicità, esattezza) e rimanda in ultima analisi al concetto di "vero'' per lo storico che è diverso dal "vero" per il senso comune. Noi accettiamo comunemente e quotidianamente testimonianze visive a comprova della verità dei fatti, senza porci il problema della corrispondenza tra fatto e testimonianza. Manca al senso comune la coscienza della natura spesso convenzionale e del valore linguistico della fotografia: non può accettare l'insicurezza che deriva dal dubbio, dal sottoporre a revisione critica una testimonianza presupponendo che possa essere falsa; tanto più la testimonianza visiva, considerata superiore alla testimonianza orale, e tanto più una testimonianza presa direttamente, saltando la catena di mediazioni deformanti dei soggetti.
L'uso diffuso della fotografia e del video come documentazione dei fatti sta portando, come rileva Giuseppe Papagno, a due effetti: ripropone una forma di conoscenza basata sulla testimonianza visiva ("ho visto") e stabilisce un collegamento diretto tra il fatto fissato nell'immagine e i non testimoni, fondandolo non sulla fiducia nell'autore, ma sulla fiducia nel mezzo. Lo storico stesso non sfugge a questo atteggiamento, tanto sono interiorizzati gli stereotipi nel modo di leggere un'immagine fotografica. Il superamento di questo modo di leggerla passa allora attraverso un'analisi interna al soggetto che metta in discussione la convenzionalità dello sguardo propria del senso comune, che rappresenta un handicap per lo storico. Egli infatti deve sottoporre il documento a revisione critica, storicizzarlo, verificarne l'autenticità. Operazioni complesse poiché rimandano a informazioni esterne alla fotografia e che mettono in discussione le categorie stesse di partenza, mutuate dalla lettura del documento scritto. Il problema del controllo dell'autenticità del documento si riduce per la fotografia al controllo dell'autore del documento, cosa spesso impossibile dal momento che gran parte della produzione fotografica è anonima e comunque non sempre possediamo dati sufficienti sull'autore. Come può allora la fotografia essere documento? Per rispondere a questi problemi è utile ricondurre la questione a che tipo di documento è la fotografia e per quale storia.
Diamo per scontata l'acquisizione del fatto che la fotografia non è solo una tecnica di riproduzione della realtà ma anche una tecnica di rappresentazione visiva, né fedele né neutrale, in cui la componente soggettivo-interpretativa è altrettanto importante del fatto rappresentato. Questa doppia natura tecnica e linguistica, di restituzione della realtà effettuale e d'interpretazione della stessa nel momento in cui viene registrata, è lo specifico della fotografia e ciò che ne complica la decodifica. Essa infatti, proprio grazie a questa specificità, non "parla" un linguaggio totalmente convenzionale, anche se si possono individuare convenzioni fotografiche che codificano i generi. Essa non è composta unicamente di segni come la parola e scomponibile in una serie di unità significanti come il discorso. Poiché per natura è analogica, cioè ha una corrispondenza naturale, non convenzionale, tra significato e significante, conserva qualche cosa di ciò che denota, contiene contemporaneamente il dato e la sua formalizzazione, astrazione, interpretazione. Vi è un piano della fotografia non codificato che rimanda direttamente alla realtà e che lascia spazio a interpretazioni soggettive. Nella lettura della fotografia dunque entrano sia l'esperienza del soggetto percepiente, legata al suo vissuto, sia le informazioni fornite dall'oggetto osservato, sia le intenzioni, e quindi il vissuto dell'operatore. "Non c'è una maniera di guardare una foto, ma centomila, ci sono altrettante maniere per ogni persona" osserva A. Robbe-Grillet.
Questa sostanziale ambiguità porta i critici a diverse, persino contrapposte valutazioni, a seconda che pongano l'accento sulla sua natura di specchio o piuttosto di linguaggio. Roland Barthes, tra i primi, la considera un messaggio senza codice, pur riconoscendo la presenza di un piano che connota significati, ed è astratto dall'irruenza del reale nella rappresentazione che la rende indecifrabile. Altri tendono piuttosto a considerarla un linguaggio con una propria messa in codice e a leggerla in relazione, più che al reale che rappresenta, alla storia della comunicazione



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