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Maria Teresa Sega, La storia scritta con la luce. La fotografia come fonte  

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QUANDO LA FOTOGRAFIA ERA UNA MESSA IN SCENA

I primi reportages fotografici sono in realtà ricostruzioni a posteriori, una vera e propria messa in scena. Prendiamo ad esempio il Risorgimento. Le fotografie delle barricate di Palermo del 1860 sono prese dopo gli scontri, a fatto avvenuto, e hanno quell'atmosfera surreale che deriva dal mostrare lo scenario senza gli attori. In altre immagini contemporanee (Gaeta, 1861) la scena della battaglia viene resa più "vera" con l'aggiunta dei morti finti: i soldati stessi che recitano la loro morte davanti alla macchina fotografica. Si giunge perfino a concepire il foto-romanzo, che tanta fortuna avrà a livello popolare proprio perché unisce immagine e racconto; la fuga di Felice Orsini dal castello di S. Giorgio a Mantova (1856) viene ricostruita a distanza di anni (1866), dopo l'annessione di Mantova all'Italia, in una sequenza con relative didascalie. È con la guerra di Libia (1911-12) ma soprattutto con la prima guerra mondiale che si arriverà alla nascita e al diffondersi del giornalismo visivo basato sul reportage fotografico diretto degli avvenimenti, sull'istantaneità.
Questa rivoluzione dell'informazione va di pari passo col bisogno di conoscere i fatti, ma anche di controllare quel bisogno attraverso i mezzi di informazione. L'uso odierno delle fotografie della guerra come documento deve allora, abbandonando ogni ingenuità, partire dalla consapevolezza di questi bisogni e farli emergere in un andirivieni tra documento, avvenimento, contesto storico, che possa effettivamente rendere la fotografia oggetto di lettura critica, al di là dell'enfasi sul documento-verità. Chiediamoci infatti se esista una fotografia di denuncia, se esistano immagini che contraddicano il senso comune, che possano avere una funzione di disvelamento di ciò che viene occultato, di demistificazione della retorica ufficiale. La questione è da ricondurre al tipo di sguardo di chi le immagini usa e consuma, al rapporto quindi tra punto di vista dell'autore e punto di vista di chi la fotografia osserva anche a distanza di tempo. La fotografia del bambino ebreo con le mani alzate, arrestato dai tedeschi nel ghetto di Varsavia, è stata scattata probabilmente da un soldato tedesco, il cui intento era ben lontano dalla denuncia della dominazione nazista. Eppure per noi oggi è simbolo della guerra vista attraverso gli occhi della vittima innocente. Lo stesso discorso vale per migliaia di foto simili. Siamo noi che costruiamo il documento, anche un documento fotografico carico di presunta obiettività. Vedere equivale a voler e saper vedere, operazione che è legata a schemi rispondenti a bisogni non immutabili. Questa potrebbe essere la risposta a R. Namias che ci lanciò questo messaggio: "I posteri potranno ricorrere alla fotografia per impararvi non la storia narrata, che si può sempre ritenere in tutta o in parte non vera o esagerata, ma la storia figurata che non mente perché è la luce che l'ha scritta sulla lastra fotografica. "
Oggi noi sappiamo che la fotografia mente, e questa è una delle sue qualità più apprezzate da chi la usa per abbellire la realtà o se stesso. Oggi più che dare risposte al nostro bisogno di verità e obiettività lo accresce ponendoci nuove domande e nuovi problemi. Essa non ci rassicura più, anzi ci inquieta, obbligandoci a interrogarci e a cercare altre prove. Essa ci ha resi insaziabili. Per tornare alla prima guerra mondiale, ma il discorso ha valore di esempio, la denuncia della guerra è legata più che alla ricerca del documento-verità al raffronto tra documenti provenienti da fonti diverse, tra diversi punti di vista. In sostanza occorre mettere in relazione le fotografie ufficiali pubblicate dai giornali illustrati con quelle censurate, le fotografie prese da soldati fotoamatori con le fotografie della Sezione Fotografica del Genio di Roma e queste ultime con le "Norme per i corrispondenti di guerra" emanate dal Comando Supremo dell'esercito. E ancora, le fotografie spedite a casa dai soldati col proprio ritratto e le lettere della corrispondenza con le famiglie, la letteratura sull'argomento, i discorsi ufficiali.
Attraverso la complessità possiamo sperare di approssimarci alla verità, a ciò che per noi contemporanei è verità, poiché alla fine dovremo chiederci che cos'è questa verità che cerchiamo. La più dissacrante e antieroica immagine di guerra può avere comunque un senso di rassicurazione: quello che deriva dalla condanna della violenza come qualcosa che non ci riguarda. La nostra volontà di vedere non sempre è volontà di sapere. Potremmo rispondere allora che la storia scritta con la luce non è più vera di quella scritta con le parole, è solo più spettacolare.



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