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LA FOTOGRAFIA
PARLA SOPRATTUTTO DEL FOTOGRAFO
Spesso ricercatori e storici,
in particolare di formazione antropologica ed etnografica, tendono a
distinguere strumentalmente tra fotografia documentaria che registra la
realtà, riconoscibile immediatamente senza ricorso ad un codice, e
fotografia come comunicazione o narrazione che usa un codice culturale e
retorico. Nel primo caso essa rinvia non a un significato mentale ma
direttamente alla realtà; nel secondo caso connota invece significati
mentali. Vengono affermate cioè una separazione tra queste due funzioni
della fotografia e una distinzione tra fotografia documentaria, considerata
obiettiva e non ideologica e quindi "buona" per la ricerca, e
fotografia fortemente connotata ideologicamente e retoricamente, orientata
ad altri fini che non la documentazione e quindi scartata come documento.
Questa posizione teorica si è sostanziata in ricerche notevoli per quantità
e qualità, volte soprattutto a documentare quanto rimane di culture
preindustriali, vita delle minoranze, sottosviluppo, emarginazione, degrado
ambientale e a recuperare a livello di memoria collettiva la storia locale.
Ma, anche se un'immagine fotografica può avere maggiore o minore valore
documentario, non è possibile distinguere tra fotografia documentaria e
non, e comunque ogni immagine è frutto di una catena di scelte operate dal
fotografo, consce o inconsce. Quello "documentario" allora non è
altro che uno dei generi fotografici, al quale facciamo riferimento sul
piano tecnico e linguistico quando usiamo la fotografia come strumento di
documentazione, non privo di convenzioni retoriche, stereotipi
figurali-rappresentativi, gusto personale. Il fotografo, come afferma
Roland Barthes, "è essenzialmente testimone della propria soggettività".
La questione è da ricondurre alla definizione di che cosa è documento per
la storia, e cioè se estendiamo il valore di documento dal contenuto alle
forme e ai modi con cui viene rappresentato. Se consideriamo quindi il
fotografo, e con lui il contesto sociale, un operatore attivo nella
costruzione del documento e spostiamo l'analisi dall'oggetto al soggetto,
rendiamo esplicite le intenzioni dell'autore e il suo punto di vista. In
questa prospettiva il concetto di documento viene allargato anche a ciò
che normalmente è considerato monumento: il particolare modo di imporre
un'immagine di sé e dei fatti da parte di un individuo o di una società.
L'immagine fotografica allora diventerà documento in riferimento non tanto
e non solo alla realtà rappresentata ma alla società che la produce e
consuma secondo determinati bisogni.
Per fare un esempio: le fotografie dell'impresa coloniale italiana in
Africa ci dicono poco sulla realtà di questo paese, ci dicono molto invece
sull'ideologia della superiorità e innocenza del conquistatore bianco,
sulla mentalità con la quale ci si recava in colonia e sull'uso
propagandistico che è stato fatto della fotografia.
Per lo storico quindi tutte le fotografie sono "vere" e
"false" nello stesso tempo. La nuova concezione del documento,
infatti, e la critica del documento che ne consegue modificano il concetto
di "vero", riguardo al documento, e la contrapposizione
vero/falso. A differenza che per l'attualità, dove può essere fonte di
grossi dolorosi equivoci, un falso fotografico diventa documento per lo
storico, così come lo diventa un documento che occulta, falsifica,
mistifica poiché permette di documentare proprio le assenze, i silenzi, le
distorsioni.
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