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Patrizia Vayola,
La
generazione di Carosello. Appunti per un percorso didattico sulla
società dei consumi
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MOTIVAZIONI PER LA
SCELTA DEL TEMA Una
delle letture che mi ha convinto a scegliere, come argomento di indagine e
di riflessione a livello didattico, la società dei consumi è un saggio
di Piero Bevilacqua Sull'utilità della storia[1].
L'autore propone una serie di riflessioni sul come e sul perché sia
importante insegnare e trasmettere ai giovani non tanto o non solo i
contenuti ma la capacità ed il desiderio di interrogarsi sul passato.
Egli passa in rassegna i nodi problematici dell'ultimo cinquantennio e
propone alcuni temi forti per rendere evidente l'utilità di questa
disciplina. Uno
di questi temi è, appunto, il consumismo. La motivazione che dà a questa
scelta è la seguente: Ogni
generazione vive il proprio tempo con una profonda e mai discussa
sensazione: quella di trovarsi nell'unico tempo possibile. La società che
essa eredita dagli uomini del passato appare simile ad una solidificazione
geologica: la base stabile, il punto di partenza su cui edificare ex novo
il proprio originale percorso verso il futuro. (…) Nell'unico mondo
possibile ad ogni singolo individuo anche i pensieri, anche i desideri, le
predilezioni, i gusti appaiono come gli unici possibili: quelli di tutti,
naturali, umani, quelli di sempre, immutabili come il colore del cielo.
(…) Allevati sin dalla primissima infanzia dai messaggi pubblicitari
della televisione, dai manifesti murali, dalle insegne lucenti dei negozi,
i ragazzi hanno introiettato un'attitudine verso gli oggetti di consumo
che è naturale quasi quanto il rapporto con i loro genitori. (…) Essi
sono naturaliter consumatori. Questa
mi è sembrata una motivazione effettivamente forte allo studio della
società dei consumi, anzi, nella logica selettiva che deve guidare la
programmazione del docente di storia, la logica per cui sappiamo ormai che
non possiamo far tutto (troppo sarebbe e quindi troppo superficialmente
affrontato e troppo poco fondante per l'acquisizione di abilità
metodologiche fondamentali come la capacità, appunto, di interrogarsi sul
passato e di conoscere da che parte cominciare e in quale modo procedere
per darsi le risposte), mi è parso che il valore educativo e cognitivo di
questo tema lo collocasse tra quelli irrinunciabili. Perché appunto non
serve solo a mettere in discussione la logica sottesa alla società dei
consumi ma anche consente, su un tema facile ed esperienziale, la
comprensione del fatto che il presente è un esito storico, uno degli
esiti possibili, determinato dalle scelte, di lungo come di medio e breve
periodo che sono state effettuate dai suoi protagonisti. La comprensione
di questo dato mi sembra fondamentale affinché i giovani colgano
l'importanza della propria capacità di scegliere rispetto al futuro. Le
più recenti indagini sull'universo giovanile, da quelle di Cavalli[2]
a quelle del Landis[3], a quelle del progetto Youth
and History[4]
a livello europeo, o ancora
quella presentata su “Il Sole 24 ore” di recente e ripresa da “La
Repubblica”[5],
che introduce la categoria dell'invisibilità, mettono infatti in luce la
difficoltà, da parte dei giovani, di uscire fuori dalla dimensione del
presente per porsi in modo propositivo degli obiettivi per il futuro; si
assiste ad uno schiacciamento sull'esistente, subìto ma non interpretato
criticamente e quindi vissuto con l'ineluttabilità del dato impossibile
da modificare. Questa
constatazione, tuttavia, non ci assolve, non possiamo cavarcela col
classico rosario di luoghi comuni relativi alla gioventù
"bruciata": l'appiattimento sul presente riguarda noi quanto
loro, la mancanza di progettualità esiste a tutti i livelli
generazionali, il disinteresse per la politica e per la storia coinvolgono
la società nel suo complesso; non sono solo i giovani a non ascoltare:
sono anche gli adulti che hanno smesso di raccontare. Da una recente
analisi risulta che c'è una "strana" coincidenza tra
l'andamento scolastico dei ragazzi e le loro conoscenze rispetto al
passato della propria famiglia: gli studenti con capacità di impegno e di
attenzione inferiori alla media sono anche quelli che, di fronte a domande
sulla propria famiglia, non sanno ricostruire un albero genealogico, non
conoscono i nomi e la provenienza dei loro antenati diretti, non sono in
grado di raccontare nessuna storia relativa ai nonni e, in alcuni casi,
nemmeno ai genitori. Sono ragazzi, si badi, che appartengono ad ogni ceto
sociale, figli di operai come figli di laureati, e ciò evidenzia come
ormai alcune forme di deprivazione culturale abbiano superato i
tradizionali steccati di classe, che pure tanto continuano a valere in
relazione alla selezione nella scuola. Questi
dati ci richiamano a responsabilità forti: non possiamo scaricarle sull'invasività
della televisione o sulla ripetitività dei videogiochi, che anzi,
attivano abilità cognitive diverse[6],
a noi sconosciute e che pertanto la scuola non è in grado di riconoscere
e di utilizzare. Mi sembra quindi importante affrontare un tema, quello dei consumi, che mette i giovani a confronto diretto con i propri atteggiamenti, li inserisce in un contesto storico in grado di offrire un'analisi delle cause del fenomeno, e li rende perciò più consapevoli della “non naturalità” della cultura in cui sono immersi, potenziando la consapevolezza dell'importanza delle loro scelte per il futuro. Con ciò non voglio neanche dire che sia necessario, in questo caso, che la scuola, nell'eterna diatriba tra apocalittici e integrati, debba schierarsi, come spesso fa, tra i primi; io credo anzi che debba evitare facili schieramenti di campo, offrendo invece strumenti di conoscenza e di analisi che consentano di uscire dalla sterilità manichea di entrambe le posizioni. [1]
Piero Bevilacqua, Sull'utilità della storia, Roma, Donzelli,
1996, pp.36-46. |
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