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LABORATORIO DI STORIA > gli interventi degli esperti > la storiografia |
Patrizia Vayola,
La
generazione di Carosello. Appunti per un percorso didattico sulla
società dei consumi
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INSEGNANTI
E TESTIMONI Vorrei
però aggiungere alcune altre considerazioni generali. Molto,
nella trasmissione di conoscenze relative all'ultimo cinquantennio,
deriva dal vostro vissuto: paradossalmente, proprio in quanto
testimoni dei fatti che raccontiamo, incontriamo più difficoltà che
non quando affrontiamo temi di storia medievale o moderna. Ciò deriva
senza dubbio dalla preoccupazione di sovrapporre all'asetticità della
narrazione giudizi ed emozioni che affiorano in relazione alle nostre
esperienze soggettive più che dallo studio degli eventi del periodo.
Ma non si tratta solo di mettere in gioco l'imparzialità delle
valutazioni, anzi, se ci riflettiamo, sappiamo che non esiste
un'imparzialità delle valutazioni: qualsiasi corrente storiografica
rappresenta un punto di vista sul passato e da esso parte per
selezionare e osservare gli eventi e pertanto si può fare ideologia
più che storia anche parlando della democrazia ateniese; il problema
semmai è quello di esplicitare, di non sottacere, i presupposti
ideologici che spingono ad un’interpretazione e, per gli insegnanti,
fonti viventi del periodo su cui lavorano con gli studenti, l’unica
possibilità di oggettività è quella di dichiarare la propria
soggettività in quanto fonte orale al pari di tante altre che sullo
stesso argomento possono e devono essere ascoltate e interpretate, con
tutte le attenzioni scientifiche riservate all'uso della
memorialistica. Dunque noi, in quanto testimoni diretti, potremmo
rappresentare fonti preziose, da affiancare ad altre per offrire una
gamma di punti di vista utile a far cogliere ai nostri studenti la
differenza tra fatto e interpretazione, fornendo così le basi per la
comprensione diretta di cosa voglia dire fare ricerca storica e di
come storia, in questo senso, sia sinonimo di storiografia e vada
pertanto relativizzata nelle conclusioni che trae dall'analisi dei
fatti. Si tratta perciò anche di scendere dalla cattedra e di
assumere il ruolo di chi ricerca, insieme ai ragazzi,
un'interpretazione a eventi e situazioni che, facendo parte della
nostra vita, spesso noi stessi non abbiamo guardato col distacco e la
lontananza necessari per analizzarli, connetterli col quadro generale,
interpretarli. Il
problema tuttavia non è solo questo, esso risiede anche nella
percezione del nostro passato. Provate a sfogliare una cronologia
degli ultimi 50 anni; tenendo conto che l'età media dei docenti
attualmente in cattedra si aggira intorno ai 40 anni, vi capiterà,
andando avanti nella lettura, di cominciare ad incontrare fatti noti,
eventi nei quali alla conoscenza si somma l'esperienza, episodi che
risuonano nella biografia individuale e nella biografia collettiva
della nostra generazione. Alcuni di questi li ricordiamo come remoti,
appartengono alla nostra infanzia, al sentito dire, ai discorsi degli
adulti, come l'elezione di Giovanni XXIII o la costruzione del muro di
Berlino, di altri, come il crollo della diga del Vajont o le prime
imprese astronautiche, siamo stati giovani spettatori televisivi. Poi
vengono gli eventi che ci hanno visto protagonisti o comunque
testimoni consapevoli o partecipi, come la contestazione giovanile, il
Vietnam, i referendum su divorzio e aborto, il terrorismo. Se poi
continuiamo a scorrere le date troviamo, ad esempio, l'elezione di
Giovanni Paolo II, l'assassinio di Moro, la strage di Ustica, Cossiga
presidente della repubblica, l'ingresso delle televisioni private, il
pentapartito, Cernobyl, la nascita della Lega Nord, la guerra del Golfo, “Mani pulite”, la crisi e la
trasformazione delle forze politiche italiane. Che percezione abbiamo,
noi, della lontananza di questa ultima serie di fatti dall'oggi?
Diciamo che, nel complesso, li consideriamo recenti, appartengono a
quella che possiamo chiamare la nostra contemporaneità soggettiva.
Sono i fatti, è la realtà nella quale si è dispiegata la nostra
vita di adulti, nei confronti della quale la nostra memoria vive un
rapporto di prossimità, appartengono insomma al passato recente, al
nostro ieri, eppure alcuni risalgono a venti anni fa. E' un processo
psicologico di elaborazione del ricordo noto, che vale per la
generalità degli adulti, quello stesso processo che mi disorientava
quando mio nonno raccontava, negli anni '70, a me adolescente, fatti
dell'immediato dopoguerra come se fossero appena accaduti. La
differenza sta nel fatto che noi siamo docenti che questa storia (per
la prima volta dopo 50 anni in cui i programmi si sono fermati, quando
andava bene, alle soglie della seconda guerra mondiale, a eventi cioè
che anche per noi erano solo storia) dobbiamo raccontarla e farla
studiare. Corriamo
pertanto due grossi rischi di prospettiva. In
primo luogo, proprio perché gli ultimi venti anni appartengono alla
nostra contemporaneità soggettiva, rischiamo di darli per scontati
almeno nei loro tratti salienti, rischiamo di supporre cioè nei
nostri studenti preconoscenze di base che invece sono loro del tutto
ignote. Se continuiamo infatti a scorrere la nostra cronologia,
tenendo conto che i nostri studenti più grandi sono nati nel 1980,
scopriamo che Giovanni Paolo II è l'unico papa che hanno conosciuto,
che Moro era già morto prima che loro nascessero, che erano bambini
ai tempi della caduta del muro di Berlino, che durante la guerra del
Golfo i più grandi avevano 11 anni, i ragazzi di terza media ne
avevano 6, ed all'avvento di “Mani pulite” e alla conseguente
crisi dei partiti avevano rispettivamente 13 e 9 anni. Ecco, io credo
che dovremmo tenere in maggior conto questa riflessione: ai nostri
studenti mancano una serie di conoscenze che per noi sono scontate e
che, tenendo conto della complessiva diminuzione del ruolo della
famiglia come canale di trasmissione del passato e della funzione
spesso deformante della televisione in quest'ambito (la televisione,
sappiamo, fa un uso pubblico, spettacolarizzato della storia e
comunque, anch'essa, rivolgendosi ad un pubblico adulto, quando parla
di eventi storici o politici, spesso non racconta con l'adeguato
spessore i fatti che nomina), per loro sono ignote, quando non
arrivano invece distorte e prive di consequenzialità: tessere di un
puzzle che è impossibile ricomporre. A
questo dato si collega la seconda considerazione: noi siamo stati
testimoni della profonda trasformazione che ha contraddistinto questi
ultimi cinquanta anni, abbiamo assistito, chi più chi meno, al
passaggio da una società che si affacciava alla piena
industrializzazione a quella impegnata a ridisegnarsi nell'attuale
fase di deindustrializzazione, abbiamo visto, chi più chi meno,
l'ingresso nelle nostre case del frigorifero, della lavatrice, del
televisore, dell'automobile, sappiamo che rivoluzione essi hanno
portato nello stile di vita, nella concezione del tempo e dello
spazio, siamo passati dal calamaio all'inchiostro liquido, dalle
“Topolino” alle auto a marmitta catalitica e questo è avvenuto in
modo rapido, se misurato coi tempi lunghi della storia: la nostra
infanzia e la nostra adolescenza sono scandite dalle trasformazioni
continue di una società che molto rapidamente cambiava sistema di
produzione, distribuzione sociale, stile di vita, concezione del
mondo. La
realtà dei nostri studenti è molto più statica: negli ultimi 18
anni la velocità di trasformazione, se si eccettua l'ambito
tecnologico e informatico, è di molto rallentata e comunque i
cambiamenti sono meno percettibili di quelli cui noi abbiamo
assistito. Di conseguenza, mentre noi abbiamo assimilato categorie
interpretative quali quelle della trasformazione e dell'evoluzione,
mentre noi possiamo fare il confronto tra un prima e un dopo, per gli
attuali diciottenni il mondo circostante si presenta come
complessivamente immutato e, siccome, come dice Bevilacqua, esso è
l'unico mondo possibile, ne consegue un'impressione di solidità, di
immodificabilità molto maggiore di quella che apparteneva al nostro
sentire; probabilmente la denunciata incapacità progettuale dei
giovani deriva anche da questa percezione di continuità che fa parte
della loro esperienza di vita. C'è
poi un problema di generale percezione della realtà: per noi, che
vedevamo il mondo, pur con tutti i suoi contrasti, trasformarsi e,
complessivamente, migliorare sotto i nostri occhi, il futuro si
presentava, con facilità, come progressivo, consentendoci una visione
del futuro complessivamente ottimistica; oggi, invece, soprattutto a
causa della maggiore consapevolezza degli squilibri ambientali che il
nostro stile di produzione e di vita comporta, oltre che in
considerazione della fase critica, in termini di occupazione e di
sviluppo che stiamo vivendo, prevale un atteggiamento distopico e
sfiduciato, e pertanto difficilmente propenso alla progettualità, nei
confronti dell'avvenire, tanto a livello individuale quanto in ambito
collettivo. Da
tutto ciò consegue l'importanza di un percorso di analisi della
società dei consumi: esso consente infatti, in un ambito
esperienziale forte, di storicizzare l'esistente, di comprenderlo come
un dato evolutivo, di coglierlo come effetto dello sviluppo di un
sistema economico, culturale e valoriale che si è trasformato nel
tempo e la cui ulteriore evoluzione dipende anche dall'atteggiamento,
dalle scelte che essi faranno, dal modo in cui sceglieranno di
disegnare il loro futuro. Certo non è costruendo un modulo sulla
società dei consumi che noi possiamo sperare di modificare quegli
atteggiamenti di complessiva passività, di invisibilità, che, a
detta dei sociologi, caratterizzano le ultime generazioni, tuttavia se
vogliamo che la storia serva anche alla costruzione di un orizzonte di
senso e di un sistema di valori che nessuna altra agenzia culturale
sembra ormai in grado di produrre, anche questo può essere uno
stimolo utile e significativo. |
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